2023-12-19
Gli attacchi degli Huthi yemeniti costringono sempre più cargo a cambiare rotta, ora anche British Petroleum. Ritardi nell’approvvigionamento delle merci e nuovi rialzi dei prezzi. Il Pentagono alza la voce con Teheran.L’ultimo è il colosso del petrolio Bp: le sue petroliere, da ieri, non passano più per lo stretto di Bab el Mandeb e da Suez nelle rotte dal Golfo Persico verso l’Europa. Mentre cresce la tensione nell’area e gli Usa inviano le proprie navi da guerra al largo dello Yemen, il gruppo britannico si aggiunge così al già lungo elenco di grandi operatori globali del trasporto marittimo che hanno deciso di evitare il canale di Suez dopo gli attacchi alle navi in transito nel Mar Rosso rivendicati dai ribelli Huthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran. Una potenziale catastrofe per il commercio globale, dato che da Suez passa circa il 12% dei commerci mondiali, il 10% del petrolio consegnato via mare e l’8% del gas (Gnl). Ed è il principale collegamento tra Oriente ed Europa. Da qui passano non solo le forniture di petrolio e gas della regione del Golfo per il Vecchio continente. Ma anche materie prime, beni di consumo e merci da Cina ed Estremo Oriente e, nell’altro senso, tutto l’export europeo verso i mercati della Cina e dei paesi limitrofi. Si tratta di forniture che adesso prendono la più lunga e onerosa via del Capo di Buona Speranza, circumnavigando il continente africano con un allungamento dei tempi di navigazione stimato tra 19 e 30 giorni, a seconda del tipo di imbarcazione e delle condizioni del mare. Con ripercussioni a catena che vanno dall’aumento dei costi fino al rischio di una interruzione delle catene di fornitura per le industrie europee. Nel marzo del 2021, quando la portacontainer Ever Given si è incagliata mentre stava attraversando il canale di Suez, bloccando per giorni la via di comunicazione tra Mediterraneo e Mar Rosso e sconvolgendo anche in quel caso i traffici commerciali mondiali, Lloyd’s List Intelligence aveva stimato in oltre 60 miliardi di dollari il valore delle merci bloccate dall’incidente. Un numero che però era riferito alle sole navi in transito e non teneva conto degli effetti diretti e indiretti lungo la filiera distributiva. Secondo la compagnia francese di riassicurazione Scor, il costo complessivo dell’incidente della Ever Given è stato di 2 miliardi di dollari.Ancora tutti da valutare gli effetti complessivi sull’economia del Vecchio continente di questa nuova crisi. «In un contesto, quale quello attuale, contraddistinto da una forte contrazione dell’attività manifatturiera», spiega Gianclaudio Torlizzi di T-Commodity, «accrescere la tensione sul lato dell’offerta di materie prime e merci impedirà all’inflazione di tornare verso il target del 2% ostacolando il processo di normalizzazione di politica monetaria da parte delle banche centrali». «I primi segnali di incremento dei costi», prosegue Torlizzi, «giungono sul fronte dei premi assicurativi che già prevedono l’applicazione di un premio-guerra. Ai premi assicurativi si aggiunge l’inasprimento dei noli dei container. Il costo del nolo per la tratta Asia-Europa è balzato venerdì 16 dicembre a 1.600 dollari dai 1.500 dollari del giorno precedente, mentre il nolo della tratta Asia-Med è aumentato da 2.200 dollari a 2.300 dollari».La situazione nella regione del Mar Rosso è degenerata in pochi giorni, al punto che il Pentagono ha deciso di inviare navi da guerra nell’area e, riferisce Politico, sta valutando di bombardare le posizioni dei ribelli Huthi, che Benjamin Netanyahu ha definito «una minaccia per la libertà marittima globale». Intanto, gli Usa hanno dichiarato che l’appoggio dell’Iran ai ribelli Huthi e ai loro attacchi alle navi mercantili «deve cessare». Washington ha chiesto ai propri alleati di inviare anche le loro navi. Francia e Gran Bretagna hanno già dichiarato la propria disponibilità mentre la risposta italiana è attesa nelle prossime ore. Gli attacchi con missili e droni alle navi da carico in transito sullo stretto di Bab el Mandeb - l’accesso meridionale al Mar Rosso e quindi al canale di Suez - sono iniziati con l’avvio dell’offensiva militare israeliana a Gaza e inizialmente sono stati limitati alle navi battenti bandiera della Stella di Davide, di proprietà di compagnie israeliane o dirette verso i porti d’Israele. Martedì scorso, per la prima volta, è stata colpita una nave norvegese, un tanker che trasportava materie prime per biocarburanti dalla Malesia all’Italia. Il culmine si è avuto nella giornata di venerdì, quando in poche ore tre navi in transito nell’area sono state colpite dagli attacchi degli Huthi. Tra queste, un portacontainer della Msc, la Palatium III, colpita da un drone mentre era in navigazione nel Mar Rosso, che ha riportato danni allo scafo ma ha lasciato illesi i marinai a bordo. La compagnia, che ha sede a Ginevra e fa capo all’armatore italiano Gianluigi Aponte, ha annunciato che la sua flotta di portacontainer, una delle maggiori del settore, non passerà più dal canale di Suez finché l’area non sarà tornata sicura. Venerdì scorso hanno annunciato la sospensione temporanea della rotta di Suez anche Maersk e Hapag-Lloyd. A queste si sono aggiunte tra il fine settimana e lunedì le compagnie cinesi Cosco, Oocl ed Evergreen. Secondo quanto riporta la stampa locale, le tre compagnie hanno già notificato ai propri clienti la sospensione dei carichi.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
Continua a leggereRiduci
Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





