2024-10-08
Frank Furedi: «Nella nostra società medicalizzata se critichi diventi un aggressore»
Uno dei padri della sociologia: «Gli individui sono convinti fin da piccoli di essere vulnerabili, quindi qualsiasi discussione genera traumi: la censura e il potere fanno premio su questo. Cancellare la Storia è conseguente».Ogni volta che Frank Furedi pubblica un nuovo libro, difficilmente passa inosservato. Nato nel 1948 in Ungheria, professore emerito di Sociologia all’Università del Kent, nel corso degli anni ha sfornato bestseller corrosivi come Contro la psicologia e I confini contano. L’ultimo si chiama The War against the past (La guerra contro il passato), e demolisce la cultura della cancellazione. Anche per via di queste posizioni non esattamente omologate, Furedi suscita accesi dibattiti e si attira non poche critiche. Piccolo esempio: alla fine di settembre una nota libreria italiana di Bruxelles ha deciso di cancellare una sua presentazione già programmata, adducendo come scusa che lo studioso fosse «troppo politicizzato» (cioè troppo di destra). In realtà, Furedi non è affatto un classico destrorso. E certo fa politica, ma a livello altissimo, di sicuro senza mescolarsi con le beghe dei partiti. Professore, partiamo dall’episodio della libreria. Secondo lei esiste oggi in Occidente, in Europa, un problema con la libertà di parola e se esiste, dove nasce questo problema, da dove nasce? «Credo che il problema della libertà di parola si espliciti in modo diverso in diversi Paesi, però la politica di fatto è diventata polarizzata: le persone semplicemente non parlano con coloro che hanno visioni diverse, ma solo con quanti condividono la loro stessa visione. E poi c’è chiaramente un establishment culturale - in Belgio, così come in Italia o nel Regno Unito - composto da persone le quali ritengono che alle loro visioni del mondo non vi siano alternative. Quelle visioni sono le uniche da perseguire, quelle secondo cui dobbiamo comportarci». Quale è il risultato di tutto ciò? «Il dibattito culturale, che dovrebbe essere assolutamente centrale nelle democrazie, è diventato davvero molto debole nell’arco degli ultimi 10-15 anni». Crede che questa divisione fra ciò che è ammissibile e ciò che non lo è riguardi anche il nostro rapporto con la Storia? Perché - come scrive nel nuovo libro - abbiamo dichiarato guerra al passato? «Le istituzioni culturali prevalenti guardano il passato in un modo un po’ particolare, ovvero suggeriscono che tutto quello che l’Occidente ha fatto nel passato in qualche modo sia qualcosa di cui ci dovremmo vergognare e da cui dovremmo prendere le distanze. Perché dichiarare guerra al passato? Perché viene dichiarato che tutto quanto di orribile è stato fatto in passato possa contaminarci anche nel presente. Questa tendenza si nota particolarmente rilevante nei paesi anglo-americani ma anche in Belgio, in Francia. Cioè ovviamente in quelle nazioni che hanno esperito il colonialismo». Torniamo alla libertà di espressione. Mi sembra che il problema nasca dalla nostra incapacità di tollerare il confronto, il dissenso, e più in generale il conflitto. È una forma di debolezza? «Sì, è una grande debolezza, serissima. Ricordo quando ero studente universitario: era normale avere discussioni, anche accese. Quando poi sono diventato professore nell’università britannica, il confronto era parte della nostra cultura, del nostro percorso di accrescimento. E anche se non ero d’accordo con qualcuno - fosse lui di sinistra o di destra - comunque potevamo essere amici, andavamo anche a berci qualcosa insieme subito dopo la discussione. Oggi, ripeto, esiste una situazione estremamente polarizzata dove vi sono persone trattate letteralmente come criminali. Lo vedo anche mentre insegno: talvolta gli accademici mi guardano come un individuo pericoloso che vuole andare a indottrinare gli studenti. Questo indica mancanza di tolleranza, mancanza di libertà di parola. Ed è un danno, un vero danno. In queste condizioni, la democrazia è minacciata». Vorrei provare a ricostruire le origini con lei di questa debolezza cui accennavamo. In Contro la psicologia (Feltrinelli) lei ha raccontato l’emersione della cultura terapeutica. Di che si tratta? «I problema con ciò che io appunto chiamo cultura terapeutica è che parte da un assunto: gli individui non sono in grado di gestire le tensioni, la critica e il conflitto. Quindi se ti critico, se ti sfido, sto attaccando la tua persona invece di avere una normale discussione tra individui. Dunque, non posso utilizzare parole che ti offendano. Perché se ti offendessi questo potrebbe diventare traumatizzante per te». La nostra è diventata dunque una società terapeutica che evita a tutti i costi il trauma? «Sì. Tutto questo non ci rende più cittadini ma pazienti, o per lo meno dei pazienti potenziali. E questo è soprattutto vero per quanto riguarda i giovani, i quali vanno a scuola e sembra che non vengano mai criticati. È molto raro che gli insegnanti dicano che non si sono comportati bene o sono stati un po' pigri. Anche in Italia riscontro tracce di questa cultura, un po’ angloamericana, secondo cui tutte le pressioni della vita non appaiono come problemi da risolvere ma addirittura come malattie che ci rendono tutti quanti pazienti, potenziali vittime di burnout. Quante volte oggi sentiamo dire “sono in burnout, ho bisogno di un intervento medico”… Abbiamo perfino assimilato il linguaggio medicalizzato». E le conseguenze quali sono? «Che siamo sempre meno tolleranti rispetto alla sfida, al conflitto, anche alla discussione: una semplice discussione, un semplice confronto. Comprendere questo credo che sia molto importante, perché ne va dei valori della democrazia. Il confronto ci fa bene perché, ci rende partecipi, fa sì che tutti possiamo dire la nostra. Ma se ci offendiamo per ogni cosa non andiamo più da nessuna parte. Nella storia tutte le buone idee hanno sicuramente offeso qualcuno, in modo o nell’altro». Qualche anno fa lei ha scritto un libro molto importante, I confini contano (Meltemi). La generalizzata indisponibilità al confronto mi sembra che abbia qualcosa in comune con la diffusa allergia ai confini. Come se non tollerassimo alcuna forma di limite… «Questo è un enorme problema. In quel libro non parlo soltanto dei confini fisici tra le nazioni, tra i Paesi, ma anche dei confini, dei limiti che in qualche modo sono emersi nel corso della civilizzazione. Esistono confini tra bambini e adulti, c’è una distinzione chiara tra uomo e donna, tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra l’essere umano e l’animale. Oggi però pretendiamo che non vi siano due sessi, che non esistano più uomo e donna ma una serie di generi; dunque, guardare al sesso biologico non è sufficiente. Più in generale, non accettiamo più i limiti. Nemmeno quelli fra bambini e adulti: rendiamo adulti i nostri bambini e viceversa. Vi sono degli adulti che ancora fanno finta di essere degli adolescenti mentre sono già degli esseri umani parecchio cresciuti». E non è certo l’unico confine che si sbriciola… «Certo che no. Non abbiamo quasi più distinzione tra animali e esseri umani. Qualcuno arriva a dire addirittura che sarebbe possibile per gli animali dare il proprio consenso ad avere un rapporto sessuale con un essere umano. È un fenomeno che stiamo vivendo in maniera crescente, in modo esasperato». Di recente lei ha scritto molto a proposito del coraggio. Potremmo considerarlo una sorta di antidoto a tutto quello che finora ha descritto? «Come dicevo è emersa una versione medicalizzata dell’individuo, incapace di gestire i rischi come facevano le generazioni precedenti. Questo individuo ha avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile: medico, psicologico… Abbiamo bisogno di avere il counselor anche quando ci sposiamo… Di conseguenza il significato del coraggio è cambiato. In qualche modo il coraggio si è impoverito». In che modo? «Guardate i titoli di alcuni libri che escono: il coraggio di guarire, il coraggio di sopravvivere… Qui il coraggio diventa semplicemente il modo in cui gestiamo la nostra vita. Un uomo coraggioso, dunque, non è più qualcuno che sta facendo qualcosa di straordinario, qualcuno che è audace. Bensì qualcuno che sta gestendo bene o male i propri problemi. E questo abbassa, impoverisce la parola coraggio. Di più: il coraggio non ha più tutti quei valori che ha sempre avuto e che sono stati così importanti per noi nel corso del tempo». Pensa che si possa in qualche modo invertire la rotta? «La questione è: com’è che ridiamo un nuovo senso alla parola coraggio? Il modo per farlo probabilmente è cercando innanzitutto di sfidare la narrazione corrente rispetto all’essere umano, rispetto a quello che ci aspettiamo dall’individuo. Pensiamo ai giovani: molti non consentono a loro stessi di esplorare, di sperimentare. Moltissimi sono sempre sotto la supervisione degli adulti. I giovani possono diventare forti soltanto quando si impegnano insieme ad altri giovani, senza che vi sia qualcuno che va a limitare la loro potenzialità. Io credo che dovremmo chiedere alle persone di uscire dalla “zona di comfort”. Dire loro: per favore esci da lì, perché non potrai davvero vivere fino a che non ti scontrerai con cose che trovi in qualche modo disagevoli. Persino il significato di comfort è cambiato… Un tempo si era uncomfortable, cioè a disagio, perché ad esempio si era seduti su una sedia con un chiodo. Ora si è a disagio psicologicamente per tutto ciò che ci troviamo davanti. Anche questo termine è stato impoverito. Ma penso che si possa tornare al reale valore del coraggio». Come? «Sfidiamo i giovani ad essere coraggiosi invece di trattarli come dei potenziali pazienti».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.