2023-07-30
Franco Brambilla: «La corsa all’indistinto indebolisce l’uomo»
Monsignor Franco Brambilla
Il vescovo di Novara, uno dei cinque italiani al Sinodo di ottobre: «Le differenze sono ricchezza, non vanno appiattite ma esaltate. La strada opposta non fa bene a nessuno. Ai giovani offriamo un clima deprimente, mostriamogli l’alternativa di una vita piena».Franco Brambilla, vescovo di Novara, fa parte della compagine di cinque vescovi italiani che, a ottobre, parteciperanno all’Assemblea generale del Sinodo 2021-2024 della Chiesa cattolica, un appuntamento importante per tracciarne il percorso a partire da tre direttrici: comunione, partecipazione e missione. Parole che necessitano di essere incarnate oggi più che mai, in un momento storico segnato da cambiamenti epocali della società A un’umanità in balia dell’emergenza continua - prima quella sanitaria, poi la guerra, ora quella climatica - e che appare sempre più confusa e impaurita, cosa può dire la Chiesa? «Di fronte a questa sensazione di crisi permanente, la Chiesa può dire una parola di speranza che non sia solo illusoria, aiutando a vedere che questo sguardo cupo non corrisponde totalmente alla realtà. La lettura deviante suscitata da quella che Miguel Benasayag ha definito “l’epoca delle passioni tristi” è evidente soprattutto in campo educativo: ai giovani continuiamo a dire che devono corazzarsi per affrontare un periodo di difficoltà e di crisi, educandoli a difendersi dal “negativo” e creando un clima deprimente. Ma questa non è tutta la verità del nostro tempo, bensì la metà della verità. Alle nuove generazioni dobbiamo ricordare, come ripeteva spesso Benedetto XVI, che ciascun giovane ha la possibilità di giocarsi la partita della vita da capo. Dobbiamo invitarli a far leva sugli aspetti positivi, mostrare che c’è l’alternativa di una vita piena».Quale è l’altra metà della lettura del nostro tempo? «C’è un versante oggettivo e uno soggettivo: il primo individua nel 1989 un momento cruciale, con il crollo delle ideologie che ha trascinato, nella sua rovinosa caduta, anche gli ideali e una visione dell’esistenza per cui ci si può impegnare per qualcosa di positivo insieme agli altri. Per trent’anni questo vuoto è stato riempito da un’immagine della vita che ci rende particolarmente vulnerabili perché incentrata sul sentire, sull’emozione, sulla percezione del sé - penso allo sviluppo abnorme del narcisismo - e dove l’obiettivo non è più costruire una società e una famiglia (le due cose si tengono) secondo un progetto verso il quale tutti convergono e per il quale si è pronti a fare qualche sacrificio. Adesso il must è “l’armonia del sé”. Questo elemento oggettivo, aggravatosi con la crisi sociale derivante dalla mancanza di un progetto comune, ha reso l’esperienza umana particolarmente fragile. Tanto che oggi tutti i processi educativi sono, come dice il Papa, da “ospedale da campo”, dove si tratta di mantenere l’umano in una sorta di convalescenza. Ma io chiedo: vogliamo finalmente farlo guarire?».Come può la Chiesa ridare questa speranza, visto che esce da un’esperienza pandemica che l’ha vista chiudersi e quando su altre emergenze sembra condividere lo stesso linguaggio del mondo? Come tornare a essere credibili? «Occorre mettere agli atti le tre grandi crisi avvenute nei primi vent’anni di questo secolo e che, secondo l’immagine usata da papa Francesco, sono quasi la terza guerra mondiale a pezzi: l’attacco alle Torri gemelle nel 2001, il crack economico del 2008 e la pandemia assieme al conflitto in Ucraina. Queste tre crisi rappresentano una frattura che richiede un “inizio nuovo”, come dopo la Prima guerra mondiale. Anche se l’Oms dice che l’emergenza è finita, non dobbiamo cadere nella trappola di tornare alla situazione precedente. La gente è uscita dalla crisi sanitaria, ha davanti la guerra in Europa e affronta il problema climatico, ma non cambia atteggiamento. Serve davvero una fase nuova».Quale deve essere il cuore di questo nuovo inizio? «Innanzitutto, una maggiore chiarificazione dell’esperienza umana nella nostra società liquida, se non già gassosa, dove non ci sono più confini tra uomo e donna, genitori e figli, vita personale e vita sociale. Dobbiamo cessare di immaginare un umano che va verso l’indistinto. Se i quarant’anni precedenti sono stati una lunga battaglia per affermare la differenza, adesso vedo come un grave pericolo questa indifferenziazione dell’umano, radice di diversi problemi: pensiamo ai matrimoni, che avvengono sempre troppo tardi rispetto all’età fertile della coppia, per cui il figlio unico non è neanche un’opzione ma un destino inevitabile. Infatti, è interessante notare che, in questa situazione, le scelte si sono ridotte. La questione antropologica non è meramente teorica ma chiama in causa una pratica dell’umano, dove le differenze sono una ricchezza e il modo per farle convivere non è appiattirle ma esaltarle. Si tratta di far capire alle persone che la pratica opposta, quella indifferenziata, non fa bene a nessuno di noi, cristiano o meno. Quanto alla Chiesa - e spero che questa capacità sarà un dono del Sinodo -, dobbiamo far vedere nel cristianesimo ciò che favorisce l’umano e lo esalta in profondità. Non c’è solo l’umano da guarire, ma anche quello da educare. Noi abbiamo tanto insistito sui poveri ma le malattie spirituali del mondo giovanile - ludopatia, dipendenze, disagio familiare, abbandono scolastico, suicidi - rappresentano la nostra prima forma di povertà. Don Bosco e don Milani, oggi, salirebbero sui tetti a gridare come questa stia uccidendo tanti giovani, togliendo loro l’ossigeno della speranza».Tra gli invitati speciali al Sinodo ci sarà anche Luca Casarini, leader no global ora impegnato in una Ong che si occupa di salvataggi in mare. Come riuscirete a tenere la barra dritta tra temi etici e sociali? «Da cattolici sappiamo che la carità più radicale ha bisogno del polmone dell’educazione: il servizio al povero ha, come meta finale, quella di liberarlo dal bisogno, il che avviene attraverso passaggi spirituali, culturali, umani e civili. Tutti i grandi santi della carità sono stati santi dell’eucarestia e dell’educazione: non hanno avuto l’obiettivo di sfamare tutti i poveri o di accogliere tutti, ma di creare le condizioni per cui questa povertà regredisse. Una carità senza formazione non è carità: ricordare questo significa stare presso il cuore cattolico della fede cristiana. Tenere insieme questi due polmoni della Chiesa - la carità e la formazione - è uno dei roveti ardenti del Sinodo. Da teologo, dico sempre che chi li contrappone ha qualcosa da nascondere».
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