2025-03-27
Franceschini femminista solo per vendetta
Dario Franceschini (Imagoeconomica)
Il piano dell’esponente pd per attribuire ai neonati il cognome della madre solo apparentemente è mosso da un afflato di «giustizia» riparatoria per il patriarcato. C’è invece l’idea tutta marxista dell’eliminazione della classe dominante: in questo frangente, l’uomo.Presidente di sezione emeritodella Corte di Cassazione Sarebbe troppo facile liquidare come una semplice stravaganza o come una provocazione volta solo a catturare per un attimo le luci della ribalta la recente uscita del senatore ed ex ministro Dario Franceschini che, all’assemblea del gruppo parlamentare del Pd, al quale egli appartiene, ha annunciato la propria intenzione di presentare un disegno di legge nel quale si stabilisca che ai nuovi nati venga attribuito, automaticamente, il solo cognome della madre.Giova rammentare, al riguardo, che la necessità di una nuova normativa in materia di attribuzione del cognome ai nuovi nati nasce dalla pronuncia della Corte costituzionale, la numero 131 del 2022, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità di una serie di norme nella parte in cui prevedono che il figlio assuma automaticamente il cognome del padre anziché quelli di entrambi i genitori, naturali o adottivi, nell’ordine da essi concordato, salvo l’eventuale accordo per fargli assumere il cognome di uno solo di essi. Nella stessa sentenza, peraltro, si segnalava l’esigenza di un sollecito intervento del legislatore «finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome», tenendo conto, inoltre, del possibile «interesse del figlio a non vedersi attribuito - con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare - un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle».E l’assemblea del gruppo parlamentare Pd era appunto dedicata, a quanto si apprende, all’esame dei vari disegni di legge che sono in gestazione per rispondere all’invito della Corte. Non c’è dubbio, quindi, che, in sé e per sé, l’iniziativa annunciata dal senatore Franceschini fosse perfettamente «in tema». E che la medesima, inoltre, meriti attenzione, lo si deve ritenere in considerazione non delle sue probabilità di successo - che appaiono, all’evidenza (per buona sorte) , pressoché prossime allo zero - ma della motivazione che lo stesso Franceschini ha addotto per giustificarla.Ha, infatti, affermato il nostro che «dopo secoli in cui i figli hanno preso il cognome del padre», la nuova legge costituirebbe «un risarcimento per una ingiustizia secolare che ha avuto non solo un valore simbolico, ma è stata una delle fonti culturali e sociali delle disuguaglianze di genere». L’importanza di queste poche parole, al di là del caso specifico da cui hanno tratto occasione, deriva dal loro apparire come l’ennesima conferma di due peculiari caratteristiche del progressismo sinistroide.La prima di esse è costituita dalla sua inossidabile supponenza che si manifesta nel tranciare sommari e inappellabili giudizi di condanna per tutto ciò che del passato gli appare in contrasto con le proprie dogmatiche visioni. La seconda dal convincimento che sia giusto e lecito porre rimedio alle vere o presunte ingiustizie subite in passato da determinate categorie di soggetti facendone pagare il fio a quanti, oggi, appartengono alle categorie che di quelle ingiustizie si sarebbero rese, a suo tempo, responsabili; nel nostro caso, rispettivamente, le madri e i padri. Una sorta di legge del contrappasso o, se si vuole, del taglione, da applicarsi, però, su scala generazionale e indipendentemente, quindi, da ogni e qualsiasi riferimento a responsabilità personali, sulla base, in sostanza, del principio che i figli possono essere chiamati a scontare le colpe dei loro padri.Si tratta, a ben vedere, dello stesso atteggiamento mentale che, sempre nel progressismo sinistroide, si manifesta con riguardo all’immigrazione, trovandosi, in sostanza, giusto (pur senza affermarlo, il più delle volte, apertamente) che l’Europa accetti passivamente di essere invasa da quegli stessi popoli che, in passato, avevano subito l’invasione degli europei. In realtà, se quanti si dichiarano progressisti e, come tali, amanti della giustizia, lo fossero veramente, dovrebbero essere i primi a riconoscere che non si può, in nome della giustizia, rispondere a un’ingiustizia con un’altra ingiustizia di segno uguale e contrario. Se un soggetto o un’intera categoria di soggetti sono stati defraudati di quello che si ritiene un loro diritto, la giustizia consiste nel riconoscerglielo e non anche nel toglierlo a coloro che, essendone comunque anch’essi titolari, glielo avevano, in passato, rifiutato. Ed è singolare che siano, ancora, i sedicenti progressisti a ispirarsi senza confessarlo e, forse, senza neppure rendersene conto, a quegli arcaici criteri di giustizia di cui sopra si è fatto cenno (legge del taglione, trasmissione delle colpe di generazione in generazione) che erano caratteristici proprio delle società patriarcali da essi costantemente vituperate e delle quali si sforzano di eliminare tutti i veri o presunti residui. Ma l’apparente contraddizione ha, in realtà, una sua spiegazione: quella, cioè, che nel Dna della sinistra non esiste il concetto di giustizia ma solo quello di vendetta che, pur essendo proprio delle società primordiali, si sposa perfettamente con il principio marxista della lotta di classe, dovendosi questa ritenere finalizzata non alla realizzazione di ideali di giustizia ma alla totale neutralizzazione (se possibile, anche fisica) della classe ritenuta dominante e sfruttatrice; ruolo, quest’ultimo, che, nel sinistrismo attuale, viene da molti attribuito all’intero genere maschile nei confronti delle donne.Ed ecco, quindi, che, così come, all’epoca della rivoluzione bolscevica, parecchi aristocratici e borghesi cercarono di trovare scampo trasformandosi in sostenitori del potere proletario, allo stesso modo i personaggi alla Dario Franceschini sembrano mossi soltanto dal desiderio di farsi perdonare la loro appartenenza al genere maschile passando, armi e bagagli, nel campo del più esasperato femminismo, da essi evidentemente dato per sicuro vincitore. Operazioni del genere sono, però, anch’esse non prive di rischi. Ne seppe qualcosa il maresciallo Michele Tukhachevsky il quale, di origine nobiliare e passato dall’esercito zarista all’armata rossa, di cui divenne comandante, finì poi fucilato sotto la falsa accusa di tradimento per ordine di Giuseppe Stalin.
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