2021-06-05
La qualità da primato dei formaggi sardi la si dice con un fiore
Formaggi di Sardegna (IStock)
Il recupero delle tecniche produttive del pecorino tradizionale va di pari passo con la riscoperta di piccole chicche di latte vaccino. In una delle sue ultime opere, Palomar, Italo Calvino regala un passaggio che ne denota la straordinaria sensibilità di osservatore del mondo, nei suoi aspetti più diversi. «Dietro ogni formaggio c'è un pascolo di un diverso verde sotto un diverso cielo». Ritratto che si addice a meraviglia all'isola dei Nuraghi, una Sardegna che non cessa di stupire andandone a scandagliare i diversi aspetti, anche di cultura materiale: considerata patria felice dell'allevamento ovino, con la relativa filiera alimentare, ha una enclave di allevamento vaccino che corrisponde al Montiferru, un'area centrale del versante occidentale. Qui troviamo il casizolu, detto anche «peretta», per la sua forma originale che ricorda un caciocavallo. Un tempo era competenza femminile dargli vita, anche con precoci sveglie mattutine, appena il latte cominciava a fermentare, immergendolo nell'acqua bollente per poi modellarlo con la sua tipica forma panciuta. Prime sue tracce nel 1353, le forme ricercate dal mercante pisano Bernardo Rodolfo. Si ottiene dal latte della razza sardo modicana (il bue rosso). Le forme messe a stagionare sospese a coppia su pertiche di legno anche per un anno. Il valore aggiunto è l'alimentazione tipica della macchia mediterranea, a base mirto, corbezzolo, lecci o roverelle, le querce locali. Ideale caldo filante dentro una spianata di Ozieri, un pane morbido e sottile, tostato alla brace. Sempre con latte vaccino altre due piccole chicche locali. La trizza è una piccola scultura edibile. Pasta filata modellata a treccia cui l'estro del casaro può regalare decorazioni varie, quali fiori o frutta. Consumato freschissimo deve il suo nome dal greco «thriccas» e tradizione lo voleva consumato quale «consolazione» in tempi di penitenza quaresimale. In autunno, con lo stesso latte, arriva invece la fresa, una formaggetta morbida che ricorda lo stracchino in versione sarda. Altra curiosità poco conosciuta «nel continente» il casu axedu, formaggio acido, tipico di Ogliastra e Barbagia. Era la colazione dei pastori con il latte appena munto. Ne bevevano al mattino, a digiuno, il siero giallognolo della cagliata. La pozione depurativa ideale per affrontare poi la giornata la pascolo, o in stalla. Morbido dalla consistenza quasi di un budino, all'inizio può ricordare uno yogurth, ma il finale dolce lo rende preda golosa. Tradizione lo vedeva piatto della festa ingrediente di una minestra familiare, ma poi l'evoluzione dei tempi lo ha riposizionato anche come dessert, cosparso di miele. Lo si può trovare anche in versione salata, cas'e fitta, ripieno intrigante dei culurgiones ogliastrini. Il pecorino è testimonial riconosciuto della tradizione casearia isolana. Nell'antichità la pecora era il mezzo di sostentamento principale dell'isola sviluppatasi grazie anche al fatto di essere considerata il granaio del mediterraneo. I disboscamenti tesi a ottimizzare le superficie coltivabili rendevano anche possibili ampliare le zone di pascolo. Fino agli inizi del secolo breve la produzione richiedeva manodopera robusta e resistente. Il latte crudo veniva termizzato in maniera originale, gettando pietre arroventate dentro le pentole di rame. Il termometro per controllare il procedere della lavorazione era molto naturale. L'addetto, armato di esperienza e intuito, poteva scegliere cosa immergere nel latte bollente, un dito, una mano, il gomito i più timidi. Prodotto molto ricercato tanto da solcare gli oceani, grazie alle colonie di nostri migranti nelle Americhe. Un latte molto saporito, grazie al pascolo semibrado ricco di erbe spontanee. Vi è un curioso incrocio con il cugino romano. La quasi totalità del quale è prodotto in Sardegna, di più lunga stagionatura, e quindi ideale a guarnire, grattugiato paste e risotti. Anche il pecorino sardo, prodotto pure nel Lazio, ha una stagionatura più breve, meno salato, può essere da tavola come grattugiato. Goloso ripieno dei ravioli. Vi è poi l'eccellenza del fiore sardo, autentico fiore all'occhiello di storia, tradizione e qualità. La sua capitale Gavoi dove un museo etnografico, attraverso questo fil rouge caseario, porta a scoprire aspetti diversi della tradizione. Curiosa la sua origine. Circa due secoli fa i zillonarjos, commercianti di orbace (una lana isolana resistente e impermeabile), decisero di investire i loro capitali nella produzione casearia. Forme che prendevano rotte commerciali le più diverse. Qualità ma anche identità. All'inizio le forme venivano poste nelle pischeddas, stampi a forma di tronco di cono in legno di castagno, quercia o pero sul cui fondo, accanto alle iniziali del produttore, era scolpito un fiore, giglio o asfodelo, per alcuni un rimando ai rosoni delle chiese di paese. Con l'incremento del mercato gli stessi produttori intuirono che la standardizzazione delle forme facilitava la riconoscibilità del prodotto, e quindi si rivolsero a dei lattonieri che, con appositi contenitori, consentivano di ottenere pezzature standard della forma finale. Una storia ben documentata da un lungometraggio a cura di Fabio Olmi, figlio del maestro Ermanno. Ma di fronte alla affermazione dei grandi numeri c'è sempre chi cerca di tornare alle origini, come ad esempio Giuseppe Cugusi, una sorta di Pininfarina, sue alcune fuoriserie che partono da antiche tradizioni, attualizzate al tempo odierno, senza perdere la loro identità. Il suo fiore sardo viene lavorato interamente a mano. Prima della stagionatura viene sottoposto ad una leggera affumicatura con la legna recuperata dai pascoli, lentischio, mirto, e stesse foglie e bacche alla base della dieta pascolante. Terreni di antica tradizione, vicini alle terme dell'imperatore Traiano. Al taglio si sviluppa un'aureola di profumi diversi, l'occhiatura inconfondibile che può regalare solo la maturazione di un latte non pastorizzato. Il primo a valorizzarlo fu un talent scout quale Gianni Mura, penna golosa e appassionata che ha lasciato il segno. Prodotto di nicchia per veri intenditori, suoi ambasciatori mestoli stellati quali Heinz Beck, a Roma, o Annie Féolde in Pinchiorri, a Firenze. Ma Giuseppe «Pininfarina» Cugusi non si è certo fermato al suo fiore dagli aromi ovini. Da provare il barone, il cui alone aristocratico gli è donato da s'armidda, il timo selvatico, che tra questi pascoli assume valenze particolari, per non parlare del foz'e murta, dove stavolta la marcia in più la regalano le bacche di mirto, altra chicca identitaria dell'isola. Dopo tanto volare alto tra i pascoli del gusto, un tocco solo apparentemente un po' splatter quello del casu marzu, la traduzione immediata lascia poco spazio alla fantasia. Qua la medaglia sul piatto non deriva da ricercate armonie vegetali, ma dalla più proletaria piophila casei, la mosca del formaggio. Un tempo sventura che colpiva le forme nei barraccu, gli alloggi di fortuna vicino ai pascoli dove iniziava la lavorazione e l'igiene non era sempre ottimale. Poi, grazie anche alla collaborazione con l'istituto di entomologia dell'Università di Sassari, la piccola phiopila è divenuta oggetto di allevamento mirato. Quello che, un tempo, era alternarsi di cicli naturali, ora è protocollo codificato tanto che questo cacio a fermentazione alare sin dal 2004 rientra tra i prodotti agroalimentari tradizionali (Pat). In sostanza la mosca viene attratta a depositare le sue uova con dei piccoli forellini umettati d'olio. Qui le larve trasformano con i loro enzimi la pasta casearia in morbida crema. Una maturazione in ambiente protetto che può durare alcuni mesi. Sale dosato con sapiente alchimia, sì da essere sufficiente ad eliminare fermentazioni batteriche indesiderate, ma da non allontanare l'insetto. Una temperatura costante, compatibile con il ciclo vitale delle larve in via di sviluppo. Alcuni produttori utilizzano grate su misura alle finestre, tali da tener fuori la mostra comune, ma lasciando passare la minuscola piophila. Il risultato premia tanta fatica. Una crema morbida, sapida e pungente che, spalmata sul pistoccu, confermerà ancora una volta che andare alla sostanza, oltre l'apparenza o il pregiudizio premia sempre.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
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