Purtroppo, ancora una volta, si dimentica quale sia il centro della questione. Va ricordato a tutti i difensori d’ufficio del tribunale aquilano e a tutte le anime belle che vogliono portare i tre piccoli Trevallion a godere delle bellezze e comodità moderne, che qui non si sta affatto discutendo di quanto sia o meno efficace il sistema educativo dei genitori basato sul cosiddetto unschooling. Qui si tratta soltanto di stabilire se sia stato giusto allontanare i bambini dai genitori, niente altro. E più il tempo passa più viene da ripetere che no, non è stato affatto giusto.
Chi si indigna perché i tre pargoli non sanno leggere dovrebbe chiedersi: se il criterio fosse la conoscenza della lingua e della grammatica italiana, quanti minorenni andrebbero tolti alle famiglie? Posto che i Trevallion hanno 6 e 8 anni, e non 30, dunque hanno ampio margine di apprendimento, quanti altri bambini vivono in Italia nella stessa condizione? Forse bisognerebbe portarli tutti in case protette o strutture educative? Forse si dovrebbe andare casa per casa a valutare la conoscenza dell’italiano dei figli degli immigrati presenti sul nostro territorio? Sarebbe interessante vedere i risultati di una simile indagine. In ogni caso, non ci risulta che per i piccoli di origine straniera si aprano ogni volta contenziosi come quello riguardante i Trevallion (i quali, a loro volta, sono a tutti gli effetti stranieri anche se non sono arrivati su un barcone). Non ci risulta che le famiglie dei migranti vengano ricattate e rieducate come sta accadendo alla famiglia del bosco, a cui le autorità stanno imponendo cambiamenti dello stile di vita proprio facendo leva sul fatto che i bambini sono nelle mani dello Stato.
Metro dopo metro, concessione dopo concessione, i Trevallion hanno dovuto cedere. Hanno trovato una nuova casa, hanno accettato di fare lavori e modifiche alla vecchia abitazione, pare persino che abbiano acconsentito a far seguire i figli a un insegnante individuato dal Comune. Non parlano più con i giornalisti, non si mostrano più riottosi o contestatari. Accettano, obbediscono e sperano che in cambio l’Italia renda loro i bambini. Oggi torneranno davanti al giudice, e si capirà se potranno riunirsi per le feste di Natale, chinando il capo e ringraziando il tribunale per la generosità dimostrata.
Intanto, i tre piccini sono via da un mese, ancora sottoposti al regime delle visite condizionate come i carcerati. «Nella struttura colorano, fanno i puzzle, interagiscono con gli altri coetanei e stanno capendo che le attività che stanno facendo sono per il loro interesse», dice la tutor. «Tuttavia, si stanno incastrando tasselli positivi. La mia relazione sarà redatta nell’interesse dei minori».
Ma certo, l’interesse dei minori. Qualcuno ci dovrebbe spiegare se sia stato interesse dei minori anche farli portare via dalla forza pubblica, sottrarli alle braccia di due genitori che non li hanno picchiati o maltrattati e che anzi hanno dedicato a loro molto più tempo e attenzione di quanta solitamente non possano dedicarne ai figli i genitori di oggi, stressati come sono dal lavoro.
Chiaro, sarebbe bene che i minori Trevallion imparassero a leggere, a scrivere e a fare di conto. Sarebbe bello che avessero tanti amici. Ma forse potrebbero ottenere tutto questo anche restando fedeli a sé stessi. Il nodo della questione è tutto qui. Si poteva trattare con i genitori senza ricattarli? Si poteva fare in modo che mettessero un piede nella civiltà senza farli passare per pericolosi malati di mente? Forse sì. Forse non solo si poteva, ma si doveva anche.
Quei tre bambini mancano da casa da un mese, hanno subito un trauma che sarà molto difficile se non impossibile riparare. E perché mai? Perché non sanno leggere bene a 8 anni e non avevano il bagno in casa. Ricordatevelo la prossima volta che sentirete qualcuno parlare di migranti e di rispetto delle culture altre.