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2023-06-22
Figli di coppie gay, l’Ue dà ragione all’Italia
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Eurodelusione senz’appello per chi sperava che la Commissione europea intervenisse sul caso Padova e sulle registrazioni dei figli di coppie omosessuali. La Commissione ribadisce che «chi è genitore in uno Stato dev’esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale». E le leggi sul tema, in Italia, al momento sono chiare: due donne, o due uomini, non possono registrare un figlio. La presa di posizione arrivata da Bruxelles, ovviamente non è piaciuta a buona parte dei media che stanno combattendo la battaglia dei diritti Lgbt. Con il risultato che ieri i siti di Repubblica e Stampa, ma non solo, hanno riportato la notizia censurando o nascondendo il passaggio sul rispetto delle leggi nazionali e titolando sul «rispetto dei genitori di altri Paesi».
Dopo la decisione della Procura di Padova di impugnare gli atti di nascita registrati su richiesta di 33 coppie omogenitoriali, ieri un giornalista italiano ha portato il caso a Bruxelles, in occasione della conferenza stampa quotidiana della Commissione. Il portavoce Christian Wigand ha risposto: «Personalmente non sono al corrente del caso, ma normalmente non possiamo commentare i casi individuali». Poi, ha ricordato che «va ricordata la nostra proposta concernente i diritti genitoriali che riguarda i casi di trasferimento da un Paese membro all’altro. Chi è genitore in uno Stato dev’esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale».
In sostanza, la Commissione ha ribadito che ritiene fondamentale tutelare la libera circolazione anche delle famiglie arcobaleno in Europa, come risulta da una serie di sentenze della Corte di Giustizia europea che hanno dato ragione al genitore omosessuale che si era visto negare un permesso di soggiorno o una carta d’identità per il figlio minore. Ma ha anche chiarito, per l’ennesima volta, quello che ogni studente di diritto sa bene, ovvero che l’Ue non può interferire sul diritto di famiglia dei singoli Stati. E quindi, anche sotto questo profilo i pm di Padova che hanno applicato la legge italiana hanno semplicemente fatto il proprio dovere. Dopo di che è assolutamente fuori discussione che l’auspicio dell’Unione sia quello di ampliare il più possibile i diritti delle coppie arcobaleno e di arrivare al diritto di «filiazione» in tutta Europa. Il problema, però, è che nell’Unione vale il principio di attribuzione della competenza giurisdizionale e c’è un’assenza totale di disposizioni che trasferiscono all’Ue le competenze in materia di diritto di famiglia. Il risultato è che il diritto di famiglia sostanziale è di competenza esclusiva degli Stati membri, che su questo legiferano come meglio credono.
C’è poi una competenza concorrente con quella dei Paesi membri su libertà, sicurezza e giustizia, dove l’Unione ha avuto dai trattati internazionali il compito di sviluppare la cooperazione giudiziaria in materia civile (famiglia compresa) con implicazioni transfrontaliere. Ma come si compone una famiglia e come si diventa genitori resta materia nazionale.
Ieri, probabilmente, c’era chi si augurava che da Bruxelles arrivasse una qualche sconfessione dell’Italia per la vicenda di Padova. Anche solo una mezza parola per poter tirare fuori dai cassetti l’immortale titolo: «L’Europa striglia l’Italia». Invece è andata come non poteva che andare e allora i siti di alcuni giornali hanno rigirato un po’ la frittata. Repubblica.it ha titolato così: «Famiglie arcobaleno, l’Ue: “Gli Stati membri devono riconoscere i genitori di altri Paesi”». Con il virgolettato del portavoce tagliato proprio nella sua parte più interessante. Scelta un po’ meno drastica per Lastampa.it, che non ha omesso il passaggio sulle competenze nazionali, ma ha comunque cavalcato la storia della libera circolazione, che con Padova c’entra davvero poco. Equilibrista il sito del tg di La7, che ha messo il richiamo sulla libera circolazione nel titolo principale e quello relativo al diritto di famiglia nel catenaccio.
Che la competenza sul diritto di famiglia sia assolutamente nazionale emerge anche dalla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia. Lo scorso 7 aprile Koen Lenaerts aveva rilasciato un’intervista alla Stampa nella quale, pur tirato per la giacca, ribadiva che temi come filiazione e genitorialità sono sotto la sovranità statale. E inquadrava alcune sentenze assai strombazzate in tema di diritti delle famiglie arcobaleno semplicemente come «la tutela del diritto di un bambino di circolare e soggiornare liberamente nell’Unione con i suoi genitori» e nulla più. Il giurista belga faceva l’esempio di un problema che si era verificato in Bulgaria, in cui la Corte aveva dato ragione a una coppia di donne che si era trasferita dalla Spagna e si era vista negare la carta d’identità per la bambina, ma ricordava che il Paese «non ha alcun obbligo di prevedere, nel diritto nazionale, la genitorialità di persone dello stesso sesso». E non è tenuto a riconoscere un certificato di nascita spagnolo per fini diversi dall’esercizio dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione, tra cui c’è appunto quello di libera circolazione. Che per la Corte è prevalente anche rispetto al diritto del minore alla «vita familiare».
Il rimedio degli intellò: «Ignoriamo la legge»
Il fatto che sia il portavoce dalla Commissione europea a ricordarci che le nostre leggi hanno valore rende la misura del delirio di cui l’Italia è preda. Ieri a Christian Wigand, questo il suo nome, è stato richiesto un commento all’impronta sul caso di Padova, dove la Procura ha impugnato gli atti di nascita di 33 bambini registrati impropriamente come «figli di due madri». Ebbene, secondo il portavoce europeo «chi è genitore in uno Stato deve esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale». Significa che la legislazione italiana non è un orpello e che i magistrati hanno il diritto di agire sulla base delle nostre norme, come in effetti avvenuto a Padova.
L’aspetto drammatico della faccenda è che - mentre il rappresentante di una istituzione decisamente favorevole alla retorica Lgbt invita al rispetto delle regole interne - fior di opinionisti, politici e intellettuali di casa nostra invocano la deliberata violazione di quelle stesse regole. Lo ha fatto, dalla prima pagina del Corriere della Sera, Massimo Gramellini: «Mi chiedo sommessamente», ha scritto, «se in casi come questo un eccellente modo di applicare la legge non consista nel dimenticarsi di farlo». Identica linea anche per Mattia Feltri sulla Stampa: «La scienza giuridica che di solito mi appassiona molto», commenta, «stavolta mi appassiona poco».
Discorso chiaro: poiché ci sono di mezzo le rivendicazioni arcobaleno, la legge si può violare. Anzi va violata. O per lo meno tocca trovare una soluzione «all’italiana» (così amano dire proprio gli stessi editorialisti che ogni giorno si ergono a flagellatori del malcostume) che consista nell’aggiramento delle regole. Beh, vedete, il vero problema, il nocciolo duro del caso padovano sta proprio in questa pretesa. A farsi scudo dietro bambini incolpevoli sono attivisti e militanti i quali ritengono di essere superiori a tutto: alle leggi, alla morale, persino alla biologia. Ritengono di essere nelle condizioni di distruggere e riscrivere non solo i codici, ma pure l’umana conformazione. Come fa la scrittrice Chiara Valerio che, su Repubblica, accusa il governo di essere fascista e di far prevalere «il sangue», cioè «il privilegio» sul diritto, ma poi pretende la cancellazione del diritto medesimo quando non le piace.
La Valerio - come molte transfemministe - sostiene che sia «la prevalenza della biografia sulla biologia a garantire l’autonomia e l’unicità della persona». E può pure darsi che sia vero. Ciò che gli attivisti attualmente richiedono, tuttavia, non è di dare egual peso a «natura» e «cultura». Essi, semplicemente, intendono eliminare la biologia: vogliono stabilire per decreto che essa non conti nulla. E nemmeno intendono farlo seguendo il diritto, cioè - ad esempio - passando per il Parlamento o rispettando una sentenza. Tutt’altro: intendono scavalcare l’aula assieme alle norme che ha prodotto e alle Procure che queste norme le fanno rispettare. Ciò che conta, in sostanza, è solamente la volontà dei militanti, il loro desiderio che supera ogni barriera e si fa comando inviolabile. Privilegio, in altre parole.
La cultura conta, le biografie contano, come no. Non tutto è sangue e membra, non tutto è meccanico stantuffare di muscoli. Il diritto stesso è (anche) cultura. La morale è cultura, persino la religione. E, di converso, anche l’omosessualità, in questa logica, è natura. Però ci domandiamo: ai bambini nati da utero in affitto o da fecondazione eterologa, viene forse permesso di creare da soli la propria biografia? Ai piccoli quale diritto viene concesso? Perché a noi risulta che i neonati non possano «scegliersi le parentele», prerogativa che i militanti arcobaleno rivendicano per sé. No: questi bambini non possono rimanere con la madre biologica e spesso non possono incontrare il padre biologico perché altri hanno deciso che così deve essere, e non si discute. Ci sono parentele eliminate, sì: ma sono quelle «naturali».
Dice Alessia Crocini di Famiglie arcobaleno che i bimbi di Padova «rischiano di perdere una delle loro mamme», e sarebbe una cosa terribile, se fosse vera (non lo è, perché nessuno impedirà alle coppie di tenere i pargoli, in più alla «madre intenzionale» è consentita l’adozione). Ma del padre che perdono, importa a qualcuno? E della madre a cui sono strappati per contratto i nati da surrogazione frega qualcosa agli editorialisti tanto attenti all’amore e ai buoni sentimenti? Pare proprio di no.
A chi si prenda la briga di seguire le argomentazioni progressiste risulta molto evidente: non ci sono natura, cultura, diritti o biologia che tengano. Semplicemente, non accettano obiezioni al loro pensiero, non accettano limiti. Nemmeno quando i limiti vengono fissati dalla comunità dopo democratico confronto. Essi non pretendono il rispetto, che sarebbe dovuto. Pretendono obbedienza, anche se poi sono i primi a disobbedire.
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Secondo Christian Wigand, portavoce della Commissione, regolare i singoli casi è «competenza nazionale». Posizione in linea con la Procura padovana. Che però Bruxelles si ostina a subordinare alla fissa dei genitori omosex.Quando le regole contraddicono le rivendicazioni arcobaleno, per la sinistra e i suoi opinionisti non contano più nulla. Massimo Gramellini suggerisce di non applicarle. Mentre alla Valerio ricordano il fascismo. Ai diritti dei bambini però non riescono proprio a pensare.Lo speciale contiene due articoli.Eurodelusione senz’appello per chi sperava che la Commissione europea intervenisse sul caso Padova e sulle registrazioni dei figli di coppie omosessuali. La Commissione ribadisce che «chi è genitore in uno Stato dev’esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale». E le leggi sul tema, in Italia, al momento sono chiare: due donne, o due uomini, non possono registrare un figlio. La presa di posizione arrivata da Bruxelles, ovviamente non è piaciuta a buona parte dei media che stanno combattendo la battaglia dei diritti Lgbt. Con il risultato che ieri i siti di Repubblica e Stampa, ma non solo, hanno riportato la notizia censurando o nascondendo il passaggio sul rispetto delle leggi nazionali e titolando sul «rispetto dei genitori di altri Paesi». Dopo la decisione della Procura di Padova di impugnare gli atti di nascita registrati su richiesta di 33 coppie omogenitoriali, ieri un giornalista italiano ha portato il caso a Bruxelles, in occasione della conferenza stampa quotidiana della Commissione. Il portavoce Christian Wigand ha risposto: «Personalmente non sono al corrente del caso, ma normalmente non possiamo commentare i casi individuali». Poi, ha ricordato che «va ricordata la nostra proposta concernente i diritti genitoriali che riguarda i casi di trasferimento da un Paese membro all’altro. Chi è genitore in uno Stato dev’esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale». In sostanza, la Commissione ha ribadito che ritiene fondamentale tutelare la libera circolazione anche delle famiglie arcobaleno in Europa, come risulta da una serie di sentenze della Corte di Giustizia europea che hanno dato ragione al genitore omosessuale che si era visto negare un permesso di soggiorno o una carta d’identità per il figlio minore. Ma ha anche chiarito, per l’ennesima volta, quello che ogni studente di diritto sa bene, ovvero che l’Ue non può interferire sul diritto di famiglia dei singoli Stati. E quindi, anche sotto questo profilo i pm di Padova che hanno applicato la legge italiana hanno semplicemente fatto il proprio dovere. Dopo di che è assolutamente fuori discussione che l’auspicio dell’Unione sia quello di ampliare il più possibile i diritti delle coppie arcobaleno e di arrivare al diritto di «filiazione» in tutta Europa. Il problema, però, è che nell’Unione vale il principio di attribuzione della competenza giurisdizionale e c’è un’assenza totale di disposizioni che trasferiscono all’Ue le competenze in materia di diritto di famiglia. Il risultato è che il diritto di famiglia sostanziale è di competenza esclusiva degli Stati membri, che su questo legiferano come meglio credono. C’è poi una competenza concorrente con quella dei Paesi membri su libertà, sicurezza e giustizia, dove l’Unione ha avuto dai trattati internazionali il compito di sviluppare la cooperazione giudiziaria in materia civile (famiglia compresa) con implicazioni transfrontaliere. Ma come si compone una famiglia e come si diventa genitori resta materia nazionale. Ieri, probabilmente, c’era chi si augurava che da Bruxelles arrivasse una qualche sconfessione dell’Italia per la vicenda di Padova. Anche solo una mezza parola per poter tirare fuori dai cassetti l’immortale titolo: «L’Europa striglia l’Italia». Invece è andata come non poteva che andare e allora i siti di alcuni giornali hanno rigirato un po’ la frittata. Repubblica.it ha titolato così: «Famiglie arcobaleno, l’Ue: “Gli Stati membri devono riconoscere i genitori di altri Paesi”». Con il virgolettato del portavoce tagliato proprio nella sua parte più interessante. Scelta un po’ meno drastica per Lastampa.it, che non ha omesso il passaggio sulle competenze nazionali, ma ha comunque cavalcato la storia della libera circolazione, che con Padova c’entra davvero poco. Equilibrista il sito del tg di La7, che ha messo il richiamo sulla libera circolazione nel titolo principale e quello relativo al diritto di famiglia nel catenaccio. Che la competenza sul diritto di famiglia sia assolutamente nazionale emerge anche dalla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia. Lo scorso 7 aprile Koen Lenaerts aveva rilasciato un’intervista alla Stampa nella quale, pur tirato per la giacca, ribadiva che temi come filiazione e genitorialità sono sotto la sovranità statale. E inquadrava alcune sentenze assai strombazzate in tema di diritti delle famiglie arcobaleno semplicemente come «la tutela del diritto di un bambino di circolare e soggiornare liberamente nell’Unione con i suoi genitori» e nulla più. Il giurista belga faceva l’esempio di un problema che si era verificato in Bulgaria, in cui la Corte aveva dato ragione a una coppia di donne che si era trasferita dalla Spagna e si era vista negare la carta d’identità per la bambina, ma ricordava che il Paese «non ha alcun obbligo di prevedere, nel diritto nazionale, la genitorialità di persone dello stesso sesso». E non è tenuto a riconoscere un certificato di nascita spagnolo per fini diversi dall’esercizio dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione, tra cui c’è appunto quello di libera circolazione. Che per la Corte è prevalente anche rispetto al diritto del minore alla «vita familiare».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/figli-coppie-gay-ue-italia-2661698254.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-rimedio-degli-intello-ignoriamo-la-legge" data-post-id="2661698254" data-published-at="1687425701" data-use-pagination="False"> Il rimedio degli intellò: «Ignoriamo la legge» Il fatto che sia il portavoce dalla Commissione europea a ricordarci che le nostre leggi hanno valore rende la misura del delirio di cui l’Italia è preda. Ieri a Christian Wigand, questo il suo nome, è stato richiesto un commento all’impronta sul caso di Padova, dove la Procura ha impugnato gli atti di nascita di 33 bambini registrati impropriamente come «figli di due madri». Ebbene, secondo il portavoce europeo «chi è genitore in uno Stato deve esserlo anche negli altri Paesi Ue, ma il diritto di famiglia è competenza nazionale». Significa che la legislazione italiana non è un orpello e che i magistrati hanno il diritto di agire sulla base delle nostre norme, come in effetti avvenuto a Padova. L’aspetto drammatico della faccenda è che - mentre il rappresentante di una istituzione decisamente favorevole alla retorica Lgbt invita al rispetto delle regole interne - fior di opinionisti, politici e intellettuali di casa nostra invocano la deliberata violazione di quelle stesse regole. Lo ha fatto, dalla prima pagina del Corriere della Sera, Massimo Gramellini: «Mi chiedo sommessamente», ha scritto, «se in casi come questo un eccellente modo di applicare la legge non consista nel dimenticarsi di farlo». Identica linea anche per Mattia Feltri sulla Stampa: «La scienza giuridica che di solito mi appassiona molto», commenta, «stavolta mi appassiona poco». Discorso chiaro: poiché ci sono di mezzo le rivendicazioni arcobaleno, la legge si può violare. Anzi va violata. O per lo meno tocca trovare una soluzione «all’italiana» (così amano dire proprio gli stessi editorialisti che ogni giorno si ergono a flagellatori del malcostume) che consista nell’aggiramento delle regole. Beh, vedete, il vero problema, il nocciolo duro del caso padovano sta proprio in questa pretesa. A farsi scudo dietro bambini incolpevoli sono attivisti e militanti i quali ritengono di essere superiori a tutto: alle leggi, alla morale, persino alla biologia. Ritengono di essere nelle condizioni di distruggere e riscrivere non solo i codici, ma pure l’umana conformazione. Come fa la scrittrice Chiara Valerio che, su Repubblica, accusa il governo di essere fascista e di far prevalere «il sangue», cioè «il privilegio» sul diritto, ma poi pretende la cancellazione del diritto medesimo quando non le piace. La Valerio - come molte transfemministe - sostiene che sia «la prevalenza della biografia sulla biologia a garantire l’autonomia e l’unicità della persona». E può pure darsi che sia vero. Ciò che gli attivisti attualmente richiedono, tuttavia, non è di dare egual peso a «natura» e «cultura». Essi, semplicemente, intendono eliminare la biologia: vogliono stabilire per decreto che essa non conti nulla. E nemmeno intendono farlo seguendo il diritto, cioè - ad esempio - passando per il Parlamento o rispettando una sentenza. Tutt’altro: intendono scavalcare l’aula assieme alle norme che ha prodotto e alle Procure che queste norme le fanno rispettare. Ciò che conta, in sostanza, è solamente la volontà dei militanti, il loro desiderio che supera ogni barriera e si fa comando inviolabile. Privilegio, in altre parole. La cultura conta, le biografie contano, come no. Non tutto è sangue e membra, non tutto è meccanico stantuffare di muscoli. Il diritto stesso è (anche) cultura. La morale è cultura, persino la religione. E, di converso, anche l’omosessualità, in questa logica, è natura. Però ci domandiamo: ai bambini nati da utero in affitto o da fecondazione eterologa, viene forse permesso di creare da soli la propria biografia? Ai piccoli quale diritto viene concesso? Perché a noi risulta che i neonati non possano «scegliersi le parentele», prerogativa che i militanti arcobaleno rivendicano per sé. No: questi bambini non possono rimanere con la madre biologica e spesso non possono incontrare il padre biologico perché altri hanno deciso che così deve essere, e non si discute. Ci sono parentele eliminate, sì: ma sono quelle «naturali». Dice Alessia Crocini di Famiglie arcobaleno che i bimbi di Padova «rischiano di perdere una delle loro mamme», e sarebbe una cosa terribile, se fosse vera (non lo è, perché nessuno impedirà alle coppie di tenere i pargoli, in più alla «madre intenzionale» è consentita l’adozione). Ma del padre che perdono, importa a qualcuno? E della madre a cui sono strappati per contratto i nati da surrogazione frega qualcosa agli editorialisti tanto attenti all’amore e ai buoni sentimenti? Pare proprio di no. A chi si prenda la briga di seguire le argomentazioni progressiste risulta molto evidente: non ci sono natura, cultura, diritti o biologia che tengano. Semplicemente, non accettano obiezioni al loro pensiero, non accettano limiti. Nemmeno quando i limiti vengono fissati dalla comunità dopo democratico confronto. Essi non pretendono il rispetto, che sarebbe dovuto. Pretendono obbedienza, anche se poi sono i primi a disobbedire.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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