
Il rapper aveva promesso di devolvere gli incassi di due canzoni ai sopravvissuti del sisma che distrusse Amatrice nel 2016, ma avrebbe versato appena 5.000 euro. E per la vendita di un libro di fiabe firmò l’assegno prima della stampa del volume.Le campagne di solidarietà un tanto al chilo continuano a minare la credibilità degli ex Ferragnez. Questa volta tocca a Fedez per due iniziative un po’ datate ma che incassarono un certo successo mediatico.Nel 2019, dopo la nascita di suo figlio Leone, il rapper ha pubblicato un libro di favole dal titolo Quando sarai grande, scritto per sostenere l’associazione Heal Onlus, che promuove la ricerca sui tumori cerebrali infantili. E poi ci sono le donazioni promesse per i terremotati di Amatrice. Ma cosa c’è davvero dietro? Il programma di Rai 3 Farwest, di cui Salvo Sottile è conduttore e autore, ha cercato di illuminare alcune zone d’ombra che circonderebbero queste due promozioni messe in campo dal rapper milanese.Subito dopo il terremoto del 2016 che ha distrutto Amatrice, Fedez ha aderito a un’iniziativa benefica del Fatto quotidiano, promettendo donazioni a nome della sua casa discografica, la Newtopia. E in un video su Instagram dichiarò: «Da oggi Newtopia devolverà gli incassi e gli utili di Vorrei ma non posto e di Andiamo a comandare». Due canzoni che ebbero un certo successo. Poi specificò che sarebbe stato devoluto tutti i ricavi delle canzoni nei tre mesi successivi, aggiungendo una donazione personale. Le due donazioni, ora si scopre, sono state effettuate nell’immediatezza delle campagne mediatiche e non dopo le vendite. Ed ecco la prima ombra: Sergio Pirozzi, all’epoca sindaco di Amatrice, dopo aver premesso che tutte le iniziative benefiche in quel momento passavano da lui afferma di non aver mai avuto notizie di donazioni riconducibili a Fedez aggiungendo di non averlo mai sentito. Cinzia Monteverdi, presidente del Cda e amministratore delegato del Fatto quotidiano, conferma che un bonifico è stato fatto: «Abbiamo un trasferimento da 5.000 euro riconducibile alla società Zedef srl, datato 30 agosto 2016». A questi si aggiungono i 5.000 euro donati da J-Ax, che era socio di Fedez in Newtopia.Le donazioni, quindi, sono state effettuate quattro giorni dopo la pubblicazione del video. Monteverdi esclude possibili errori di comunicazione: «Il messaggio era chiaro. Piuttosto, vedo una mancanza di trasparenza che sembra diventata una consuetudine. Sparare grosso e poi ridimensionare le cose nella vita reale». Stando ai legali di Fedez il cantante ha versato tutto il ricavato dalle royalties nei tre mesi di pubblicazione delle canzoni, «pari a 3.535 euro», ai quali si aggiunge la donazione personale che ha portato la cifra ai 5.000 euro dei quali Monteverdi ha contezza. Per il libro di favole sembra essere accaduto qualcosa di simile. Fedez dichiarò: «Parte dei ricavati della vendita di questo libro andrà alla Heal, che si occupa di prevenzione e cura dei tumori infantili». Dall’associazione confermano: «La somma destinata era di 15.000 euro e fu rapidamente donata, prima della vendita del libro». E il punto è questo. Dopo aver collegato direttamente la beneficenza ai ricavi provenienti dalla vendita, sulla copertina, però, il concetto viene esplicitato in un modo un po’ diverso: «Con questo libro l’autore sostiene l’associazione Heal». La cronista di Far West Roberta Pecori ha avvicinato Fedez durante un evento pubblico a Taranto, dove il rapper era ospite del Codacons proprio per una iniziativa di beneficenza, chiedendogli se i consumatori non potrebbero essere stati indotti a pensare a una connessione tra la vendita del libro e la donazione. Fedez risponde: «L’attività è stata fatta e i soldi sono stati donati». La donazione è arrivata ad aprile, mentre il libro è stato stampato a maggio. Proprio come per Amatrice. La beneficenza ha preceduto le vendite. «Ma io magari il contratto lo firmo prima», replica Fedez. E per quanto riguarda Amatrice? Fedez fa riferimento a ricevute del 2016 e mentre accenna a una telefonata a Peter Gomez (direttore del Fattoquotidiano.it) la conversazione viene interrotta. La vicenda di Amatrice era stata già ricostruita da Selvaggia Lucarelli nel suo libro Il vaso di pandoro. Insieme a un’altra storia. Che risale al 2017. Fedez pubblicò un nuovo singolo intitolato «Le palle di Natale», annunciando che l’intero ricavato sarebbe stato devoluto alla onlus Noi per gli animali. Ma quanto è effettivamente arrivato all’associazione? Lucarelli racconta che «la donazione finale è stata di mille euro». «Pensavamo che questo avrebbe trasformato la nostra realtà in un’oasi felina, ma siamo rimaste deluse. Comunque abbiamo donato 400 euro a un canile», riferisce una delle volontarie. Collegata con Sottile l’altra sera c’era proprio la Lucarelli. Mentre in studio sedeva il temutissimo presidente del Codacons Carlo Rienzi, recentemente criticato per aver parcheggiato sulle strisce pedonali col suo Suv nel quartiere Prati a Roma. Rienzi, intervenendo alla fine del servizio, ha ammesso di non averlo seguito attentamente, ma ha notato nelle parole della cronista di Far West un certo «accanimento» contro Fedez. «La beneficenza di Fedez non ci interessa», ha dichiarato Rienzi, aggiungendo che le questioni legate al rapper sono ormai datate e non rilevanti per l’associazione. Lucarelli è esplosa: «Sono allibita dalle parole del presidente del Codacons. Parla di accanimento per qualche domanda? Lui che ha denunciato Chiara Ferragni in 104 procure d’Italia. Mi viene da ridere». Ed è a questo punto che Rienzi se ne è uscito con una frase che la Lucarelli ha recepito come una minaccia: «Noi, se c’è qualcosa di negativo, lo denunciamo, come abbiamo sempre fatto. E denunceremo anche lei, Selvaggia Lucarelli, se necessario. Ho letto di alcune questioni che la riguardano su internet. Ho fatto una ricerca su Google e ho trovato cose di cui non voglio parlare». La realtà è che tra Rienzi e Fedez dopo una lunga battaglia di carte bollate (prima il rapper è stato denunciato per calunnia per aver accusato il Codacons di aver pubblicato un banner ingannevole sul suo sito web durante la pandemia ed è stato prosciolto, poi Rienzi è stato citato in giudizio davanti al Tribunale di Roma con l’accusa di aver offeso la reputazione dei Ferragnez dipingendoli come ignoranti approfittatori) è scoppiata la pace, sancita proprio con l’iniziativa di Taranto.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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