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2024-03-28
I fedeli disertano le messe. Ci vanno solo gli anziani (e tra poco nemmeno loro)
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Sono anziani, pochi e «a bassa intensità». Si potrebbe riassumere così lo stato in cui versa il cattolicesimo italiano come emerge dall’ultimo lavoro di Luca Diotallevi, professore all’Università di Roma Tre e sociologo della religione. Si intitola La messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019, pubblicato dalle edizioni Rubbettino.
Ne ha parlato il vaticanista Sandro Magister nel suo blog, mettendo in evidenza che «la presenza alla messa è in calo ininterrotto nell’intero arco di tempo preso in esame da Diotallevi sulla scorta delle annuali rilevazioni dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica: dal 1993 al 2019». Traducendo in numeri, «si passa del 37,3% della popolazione che assiste alla messa domenicale nel 1993 al 23,7% nel 2019», un calo di un terzo.
Il lavoro di Diotallevi è in linea con quanto diverse indagini rilevano da tempo, anche in quella realtà come l’Italia che ancora trent’anni fa Giovanni Paolo II definiva «eccezione» rispetto alla desertificazione della fede in atto nell’Europa del Centro-Nord. Ma ormai «l’eccezione» non c’è più, come anche l’indagine demoscopica condotta dalla rivista Il Timone con Euromedia research, «Italiani di poca fede», ha mostrato nel numero della rivista pubblicata in luglio/agosto 2023.
La partecipazione alla messa domenicale, oggi, vede soprattutto coinvolta la popolazione con età sopra ai 65 anni, ma nel lavoro di Diotallevi c’è una novità che merita di essere sottolineata: se un tempo la funzione religiosa cominciava a essere disertata dopo la Cresima e per tutta l’età adulta, per poi avere un ritorno con l’età matura, ora «la successiva ripresa di presenza alla messa è ormai tenue se non assente, per i nati dopo il 1950». In altre parole, se oggi a messa vediamo ancora soprattutto degli anziani, in futuro il ricambio potrebbe non esserci. E il gruppo di signore dedite al rosario, spesso citate come ancora di salvezza per la comunità, potrebbe estinguersi.
Altri due elementi che emergono dal lavoro del sociologo meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda il fatto che si assiste a una «evoluzione del cattolicesimo italiano verso “una forma di religione a bassa intensità”, priva di una rilevanza extra-religiosa in campo politico, economico, scientifico, accademico». Si tratta di quella che nell’indagine condotta dalla rivista Il Timone era stata definita «fede liquida», caratterizzata da una visione privata del credere dove i fedeli ormai accettano divorzio, contraccezione, aborto e unioni civili. Sono stati smarriti i criteri per giudicare la realtà sociale e, quindi, politica e culturale. Insomma, i cattolici non incidono più, sembra che la fede sia diventata incapace di giudicare della vita e delle scelte, personali e comunitarie. Una fede disincarnata, sentimentale a volte, magari ancora capace di esprimersi con realtà associative caritatevoli, ma che spesso sono svuotate di ogni contenuto proprio del cristianesimo e ridotte a essere una Ong fra le altre.
Secondo Diotallevi, questa situazione sarebbe causata anche da un «allentamento dei legami comunitari di tipo ecclesiale, a vantaggio di una deriva congregazionialistica e di “democratization of religion”». La decadenza della realtà parrocchiale anche sotto i colpi dell’offerta religiosa dei movimenti ecclesiali è una realtà, ma ci sembra che il problema non sia questo. Quella che Diotallevi chiama «democratiztion of religion» potremmo forse chiamarla più direttamente «protestantizzazione» del cattolicesimo romano.
La barca di Pietro oscilla sotto i colpi di chi vorrebbe relativizzare il depositum fidei e spinge per una riduzione intimistica della fede e sotto i colpi di chi, invece, in nome della purezza della verità (di cui poi finisce per farsi giudice di sé stesso), si allontana dall’ovile. L’attacco parte dall’interno ed entrambi i gruppi finiscono poi per farsi una loro chiesuola, più o meno istituzionalizzata, che in fondo è una comfort zone che nulla ha a che vedere con la Chiesa cattolica apostolica e romana.
Ciò che resta è un progressivo e continuo attacco all’autorità della Chiesa, la sua continua messa in discussione, ora da sinistra ora da destra, che ha sfibrato dall’interno quelli che Diotallevi chiama «legami comunitari di tipo ecclesiale». L’autorità gerarchica non è un elemento secondario della Chiesa cattolica, in un certo senso ne è il tratto più distintivo: eluderlo significa semplicemente finire prima o poi fuori dalla comunione ecclesiale. L’autorità stessa dovrebbe riflettere, perché la crisi della fede in fondo è tutta qui: il gregge cerca pastori, se no si disperde.
Senza croce ma con camicia a pois. Il prete che cede l’oratorio all’islam
Gli islamici usano l’oratorio chiamandolo «la nostra casa»? Per il parroco è tutto normale. Succede a Monfalcone, in provincia di Gorizia, come si è visto ieri sera su Rete 4 a Fuori dal coro, la trasmissione condotta da Mario Giordano. A documentarlo, un servizio dell’inviata Serena Pizzi, la quale, dopo averne trattato la settimana scorsa, è tornata ad occuparsi dell’oratorio San Michele, la struttura data alla comunità islamica locale all’insaputa di tutti dal responsabile dello stesso oratorio. Questa settimana l’inviata ha parlato direttamente con don Flavio Zanetti, il parroco che ha dato il suo via libera all’occupazione degli spazi da parte dei musulmani.Immortalato dalle telecamere di Fuori dal coro, con addosso una bizzarra camicia a pois rossi a maniche corte e rigorosamente privo non solo del clergyman ma pure d’ogni simbolo cristiano, don Zanetti si è mostrato serenissimo rispetto alla decisione presa. Quando l’inviata di Rete 4 ha provato a incalzarlo chiedendogli se non sia «un po’ azzardato» far pregare dei musulmani in quello che, in fin dei conti, è un luogo cristiano, il sacerdote ha prontamente ribattuto: «Assolutamente no». Quasi fosse la cosa più normale del mondo. «Secondo me non è una cosa disdicevole mettere a disposizione, se possibile, i nostri ambienti», ha aggiunto ancora il parroco, specificando: «Non stiamo dicendo che gli abbiamo dato una chiesa, abbiamo dato una sala dell’oratorio».In realtà, pure su questo non sembra esserci convergenza con i fatti. Infatti, la Pizzi parlando con i signor Claudio, l’anziano responsabile della struttura, si è sentita rispondere come essa non sia affatto, «solo» un oratorio. «Qui al primo piano una chiesetta con il Santissimo», ha spiegato l’uomo, «e per me tutto l’edificio è una chiesa. Io non posso ammettere che i musulmani vengano a pregare nella nostra chiesa». Non è finita. Il meglio, si fa per dire, è arrivato quando la giornalista ha spiegato a don Zanetti che, per il solo essersi affacciata alla sala dell’oratorio destinata alla comunità musulmana, si è vista fermare un secco: «Questa è casa nostra, chi l’ha fatta entrare?».«Ma secondo lei quella è casa loro?», ha quindi chiesto la Pizzi al parroco il quale, dopo aver farfugliato qualcosa, ha ribattuto con un surreale: «Ciascuno dice ciò che gli pare». A quel punto, davanti all’incredulità della giornalista, il parroco in camicia a pois ha cercato di spiegare meglio, affermando che se quel «Questa è casa nostra» è stato detto da «chi si sente accolto da alcune persone, mi fa piacere». Insomma, non solo il sacerdote non si scandalizza dell’accaduto dopo averlo autorizzato, a quanto pare, all’insaputa di tutti, ma esprime persino gradimento di fronte ad esternazioni che neppure lo scrittore Michel Houellebecq è riuscito a mettere in Sottomissione, il suo capolavoro in cui racconta una Francia islamizzata.C’è dell’altro. Le telecamere della trasmissione di Giordano hanno infatti colto un altro aspetto, ancora più inquietante di quanto sin qui raccontato: l’occultamento del crocifisso, celato dietro un telo da proiettore, per opera dei musulmani durante la loro preghiera. Poi, una volta che la sala dell’oratorio è stata sgombrata, il crocifisso è tornato visibile. Ma prima era stato nascosto. «Se tolgono il crocifisso significa che non vogliono vedere niente del cristianesimo e questa è una bestemmia», ha detto sempre ai microfoni di Rete 4 un altro sacerdote, un giovane prete di colore. Che evidentemente ha un altro punto di vista rispetto a quello di don Zanetti, resosi responsabile di una scelta grave. Non si può, in effetti, ignorare come se da un lato già dedicare, sia pure temporaneamente, una sala oratoriale alla preghiera islamica sia una decisione surreale - e che farà rivoltare nella tomba quel San Filippo Neri che gli oratori li ha inventati, dall’altro far questo a Monfalcone, la città italiana con la più alta percentuale di stranieri, quasi tutti islamici, ha un valore doppiamente simbolico. Quello di una drammatica resa.
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Nel suo libro, il sociologo Luca Diotallevi illustra il crollo della partecipazione al rito Così la «desertificazione» che allarmò Wojtyla ha preso piede nel cuore della cristianità.Il parroco di Monfalcone, incalzato da «Fuori dal coro»: «Quella casa loro? Perché no». Lo speciale contiene due articoli.Sono anziani, pochi e «a bassa intensità». Si potrebbe riassumere così lo stato in cui versa il cattolicesimo italiano come emerge dall’ultimo lavoro di Luca Diotallevi, professore all’Università di Roma Tre e sociologo della religione. Si intitola La messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019, pubblicato dalle edizioni Rubbettino.Ne ha parlato il vaticanista Sandro Magister nel suo blog, mettendo in evidenza che «la presenza alla messa è in calo ininterrotto nell’intero arco di tempo preso in esame da Diotallevi sulla scorta delle annuali rilevazioni dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica: dal 1993 al 2019». Traducendo in numeri, «si passa del 37,3% della popolazione che assiste alla messa domenicale nel 1993 al 23,7% nel 2019», un calo di un terzo.Il lavoro di Diotallevi è in linea con quanto diverse indagini rilevano da tempo, anche in quella realtà come l’Italia che ancora trent’anni fa Giovanni Paolo II definiva «eccezione» rispetto alla desertificazione della fede in atto nell’Europa del Centro-Nord. Ma ormai «l’eccezione» non c’è più, come anche l’indagine demoscopica condotta dalla rivista Il Timone con Euromedia research, «Italiani di poca fede», ha mostrato nel numero della rivista pubblicata in luglio/agosto 2023. La partecipazione alla messa domenicale, oggi, vede soprattutto coinvolta la popolazione con età sopra ai 65 anni, ma nel lavoro di Diotallevi c’è una novità che merita di essere sottolineata: se un tempo la funzione religiosa cominciava a essere disertata dopo la Cresima e per tutta l’età adulta, per poi avere un ritorno con l’età matura, ora «la successiva ripresa di presenza alla messa è ormai tenue se non assente, per i nati dopo il 1950». In altre parole, se oggi a messa vediamo ancora soprattutto degli anziani, in futuro il ricambio potrebbe non esserci. E il gruppo di signore dedite al rosario, spesso citate come ancora di salvezza per la comunità, potrebbe estinguersi.Altri due elementi che emergono dal lavoro del sociologo meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda il fatto che si assiste a una «evoluzione del cattolicesimo italiano verso “una forma di religione a bassa intensità”, priva di una rilevanza extra-religiosa in campo politico, economico, scientifico, accademico». Si tratta di quella che nell’indagine condotta dalla rivista Il Timone era stata definita «fede liquida», caratterizzata da una visione privata del credere dove i fedeli ormai accettano divorzio, contraccezione, aborto e unioni civili. Sono stati smarriti i criteri per giudicare la realtà sociale e, quindi, politica e culturale. Insomma, i cattolici non incidono più, sembra che la fede sia diventata incapace di giudicare della vita e delle scelte, personali e comunitarie. Una fede disincarnata, sentimentale a volte, magari ancora capace di esprimersi con realtà associative caritatevoli, ma che spesso sono svuotate di ogni contenuto proprio del cristianesimo e ridotte a essere una Ong fra le altre.Secondo Diotallevi, questa situazione sarebbe causata anche da un «allentamento dei legami comunitari di tipo ecclesiale, a vantaggio di una deriva congregazionialistica e di “democratization of religion”». La decadenza della realtà parrocchiale anche sotto i colpi dell’offerta religiosa dei movimenti ecclesiali è una realtà, ma ci sembra che il problema non sia questo. Quella che Diotallevi chiama «democratiztion of religion» potremmo forse chiamarla più direttamente «protestantizzazione» del cattolicesimo romano. La barca di Pietro oscilla sotto i colpi di chi vorrebbe relativizzare il depositum fidei e spinge per una riduzione intimistica della fede e sotto i colpi di chi, invece, in nome della purezza della verità (di cui poi finisce per farsi giudice di sé stesso), si allontana dall’ovile. L’attacco parte dall’interno ed entrambi i gruppi finiscono poi per farsi una loro chiesuola, più o meno istituzionalizzata, che in fondo è una comfort zone che nulla ha a che vedere con la Chiesa cattolica apostolica e romana.Ciò che resta è un progressivo e continuo attacco all’autorità della Chiesa, la sua continua messa in discussione, ora da sinistra ora da destra, che ha sfibrato dall’interno quelli che Diotallevi chiama «legami comunitari di tipo ecclesiale». L’autorità gerarchica non è un elemento secondario della Chiesa cattolica, in un certo senso ne è il tratto più distintivo: eluderlo significa semplicemente finire prima o poi fuori dalla comunione ecclesiale. 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A documentarlo, un servizio dell’inviata Serena Pizzi, la quale, dopo averne trattato la settimana scorsa, è tornata ad occuparsi dell’oratorio San Michele, la struttura data alla comunità islamica locale all’insaputa di tutti dal responsabile dello stesso oratorio. Questa settimana l’inviata ha parlato direttamente con don Flavio Zanetti, il parroco che ha dato il suo via libera all’occupazione degli spazi da parte dei musulmani.Immortalato dalle telecamere di Fuori dal coro, con addosso una bizzarra camicia a pois rossi a maniche corte e rigorosamente privo non solo del clergyman ma pure d’ogni simbolo cristiano, don Zanetti si è mostrato serenissimo rispetto alla decisione presa. Quando l’inviata di Rete 4 ha provato a incalzarlo chiedendogli se non sia «un po’ azzardato» far pregare dei musulmani in quello che, in fin dei conti, è un luogo cristiano, il sacerdote ha prontamente ribattuto: «Assolutamente no». Quasi fosse la cosa più normale del mondo. «Secondo me non è una cosa disdicevole mettere a disposizione, se possibile, i nostri ambienti», ha aggiunto ancora il parroco, specificando: «Non stiamo dicendo che gli abbiamo dato una chiesa, abbiamo dato una sala dell’oratorio».In realtà, pure su questo non sembra esserci convergenza con i fatti. Infatti, la Pizzi parlando con i signor Claudio, l’anziano responsabile della struttura, si è sentita rispondere come essa non sia affatto, «solo» un oratorio. «Qui al primo piano una chiesetta con il Santissimo», ha spiegato l’uomo, «e per me tutto l’edificio è una chiesa. Io non posso ammettere che i musulmani vengano a pregare nella nostra chiesa». Non è finita. Il meglio, si fa per dire, è arrivato quando la giornalista ha spiegato a don Zanetti che, per il solo essersi affacciata alla sala dell’oratorio destinata alla comunità musulmana, si è vista fermare un secco: «Questa è casa nostra, chi l’ha fatta entrare?».«Ma secondo lei quella è casa loro?», ha quindi chiesto la Pizzi al parroco il quale, dopo aver farfugliato qualcosa, ha ribattuto con un surreale: «Ciascuno dice ciò che gli pare». A quel punto, davanti all’incredulità della giornalista, il parroco in camicia a pois ha cercato di spiegare meglio, affermando che se quel «Questa è casa nostra» è stato detto da «chi si sente accolto da alcune persone, mi fa piacere». Insomma, non solo il sacerdote non si scandalizza dell’accaduto dopo averlo autorizzato, a quanto pare, all’insaputa di tutti, ma esprime persino gradimento di fronte ad esternazioni che neppure lo scrittore Michel Houellebecq è riuscito a mettere in Sottomissione, il suo capolavoro in cui racconta una Francia islamizzata.C’è dell’altro. Le telecamere della trasmissione di Giordano hanno infatti colto un altro aspetto, ancora più inquietante di quanto sin qui raccontato: l’occultamento del crocifisso, celato dietro un telo da proiettore, per opera dei musulmani durante la loro preghiera. Poi, una volta che la sala dell’oratorio è stata sgombrata, il crocifisso è tornato visibile. Ma prima era stato nascosto. «Se tolgono il crocifisso significa che non vogliono vedere niente del cristianesimo e questa è una bestemmia», ha detto sempre ai microfoni di Rete 4 un altro sacerdote, un giovane prete di colore. Che evidentemente ha un altro punto di vista rispetto a quello di don Zanetti, resosi responsabile di una scelta grave. Non si può, in effetti, ignorare come se da un lato già dedicare, sia pure temporaneamente, una sala oratoriale alla preghiera islamica sia una decisione surreale - e che farà rivoltare nella tomba quel San Filippo Neri che gli oratori li ha inventati, dall’altro far questo a Monfalcone, la città italiana con la più alta percentuale di stranieri, quasi tutti islamici, ha un valore doppiamente simbolico. Quello di una drammatica resa.
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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