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2025-08-13
La faida tra Speranza e il suo dirigente sul «piano segreto»
Andrea Urbani (Imagoeconomica)
C’era un piano segreto per far uscire (nel peggiore dei modi possibili) l’Italia dall’emergenza pandemica? A rileggere i verbali desecretati delle audizioni in commissione Covid, sì. Un piano di cui nessuno, per ordine del ministro della Salute Roberto Speranza, poteva parlare, perché non era stato validato né giuridicamente né scientificamente, a conferma che le sciagurate misure adottate dalle autorità sanitarie italiane per fronteggiare l’epidemia da coronavirus non poggiarono su evidenze scientifiche o giuridiche ma sulle decisioni politiche di Speranza & Co. Un piano annunciato «incautamente», secondo l’ex ministro, al Corriere della Sera da Andrea Urbani, già direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute, nonché componente della task-force Ccoronavirus.
La storia del piano segreto qualcuno la ricorderà: il 21 aprile 2020 Urbani rilascia a Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera un’intervista nella quale dice che da gennaio era pronto un piano segreto che non era stato divulgato per non creare allarme. La notizia deflagra con così tanta violenza sull’opinione pubblica, già terrorizzata, che Speranza lo stesso giorno invia a Urbani una lettera di richiamo dai toni molto duri (ottenuta dal deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami a inizio 2021 tramite ricorso al Tar): «Le dichiarazioni e le notizie da Lei fomite incautamente alla stampa sono riferite ad uno studio in corso di definizione e non adottato», scrive il ministro al suo direttore generale. «Le rammento inoltre che, ove si trattasse di un atto “secretato” - come emerge dalla Sua dichiarazione alla stampa - Lei avrebbe violato le più basilari regole di correttezza e diligenza […] determinando una situazione di forte disagio istituzionale, anche tenuto conto delle possibili ripercussioni delle Sue affermazioni sull’opinione pubblica».
Perché Urbani fa arrabbiare Speranza? Su sollecitazione di Bignami, Urbani cerca di chiarire la vicenda del piano segreto nell’audizione in commissione Covid del 13 maggio 2025: «Se lei, come ha appena detto, non seguiva la programmazione», gli chiede il deputato di Fdi per capire la catena di comando, «a che titolo ha parlato di un piano esistente da gennaio e che era stato tenuto segreto?». Urbani nella risposta s’incarta. Prima dice che «circolavano degli scenari, in seno al Cts, che parlavano, in assenza di misure, di 600.000-800.000 morti». Poi, incalzato da Bignami - che gli ricorda che non può essere che nel Cts se ne parlasse, visto che il Cts nasce a metà febbraio e lui parla di un piano che esisteva da gennaio - precisa: «Ho parlato di gennaio, ma ho commesso un errore. Il piano - o questo documento - è stato predisposto, come le ho detto, da diversi attori, perché il Cts ha dato mandato all’Istituto superiore di sanità, allo Spallanzani, alla mia Direzione e alla Direzione della prevenzione di elaborare degli scenari di risposta in base alle analisi che stavano arrivando su potenziali impatti sul Servizio sanitario […] Anche l’Istituto e credo Merler fornivano scenari di diffusione del virus che all’inizio avevano forbici molto ampie». È lo stesso Urbani, tuttavia, a riferire in audizione che i dati su cui lavoravano gli esperti, e dunque anche Merler, erano «molto frammentati», «poco profondi», «sporchi».
In realtà, la ragione per la quale Speranza si infuria con Urbani è che un piano c’era, ed era stato elaborato dal matematico trentino Stefano Merler della Fondazione Kessler allora presieduta da Francesco Profumo, già membro del comitato d’indirizzo della Fondazione Italianieuropei dell’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Si tratta della Fondazione che a fine aprile 2020 frena la fase 2 (riapertura del Paese) ipotizzando il rischio, mai concretizzato, di 151.000 pazienti in terapia intensiva entro metà giugno (che spinge Speranza a posticipare per l’ennesima volta la fine del lockdown), e che ad aprile 2021 prospetta lo scenario di 1.300 morti al giorno in caso di riaperture totali a luglio (il 15 luglio 2021 in realtà i decessi sono 23). Se le autorità sanitarie si fossero appoggiate sulle previsioni dell’oroscopista Branko, probabilmente avrebbe elaborato stime più precise.
Il problema, che Speranza evidenzia nella nota di richiamo a Urbani, è che «di detto Piano non è indicato né l’organo che lo avrebbe adottato, né la norma di riferimento, né la data di sottoscrizione del medesimo. Non viene, altresì, fornito alcun elemento in merito al procedimento di approvazione del predetto documento, ovvero ai soggetti coinvolti nella definizione dello stesso. Con evidenza» aggiunge Speranza, «si trattava di un mero documento di studio, non validato da alcun soggetto pubblico deputato a pronunciarsi su tali temi delicati». Speranza in buona sostanza rimprovera Urbani di aver chiacchierato troppo: non si può parlare di un piano segreto, a maggior ragione se questo non poggia su basi scientifiche o giuridiche bensì su modelli matematici predittivi, non è stato validato ed è stato oltretutto predisposto non da un epidemiologo ma da un matematico come Merler, modellista di una Fondazione privata. Urbani prende atto e, anche in audizione, si aggrappa a minuzie precisando che il piano era «riservato» più che «segreto», ma tant’è: il «Piano per un’eventuale pandemia da Covid-19» c’era e al suo interno c’erano gli scenari di Merler. Il ministro decide di avvalersi di quello più catastrofico, ed è sulla base di questa «scienza» che l’Italia chiude i battenti e l’economia va a picco.
Gli appelli anti medici «no vax» negano la scienza e la Costituzione
Le critiche sollevate, spesso formulate nei termini di un’etichettatura ideologica («no vax»), non si confrontano con il merito delle argomentazioni scientifiche eventualmente sostenute dai soggetti in questione, ma si limitano a collocarli in una categoria pregiudizialmente screditata, operando così una tipica delegittimazione «ad hominem». Tale impostazione risulta doppiamente problematica. Sul piano epistemologico, essa confonde il consenso politico-istituzionale con la verità scientifica, come se quest’ultima fosse il prodotto di una decisione autoritativa piuttosto che il frutto di un procedimento di verifica, falsificazione e continua revisione delle ipotesi. Sul piano costituzionale, essa contraddice non solo il principio di libertà della scienza di cui all’art. 33, ma pure gli artt. 3 e 21 del Testo fondamentale, che vietano discriminazioni fondate sulle opinioni e garantiscono la libertà di manifestarle, anche in sede tecnico-consultiva.
La presenza in un organo consultivo di membri che hanno espresso legittimamente e con autorevoli studi posizioni critiche non equivale a un indebolimento dell’efficacia delle sue raccomandazioni, ma al contrario rappresenta una condizione di maggiore robustezza argomentativa, in quanto costringe le posizioni maggioritarie a confrontarsi con obiezioni strutturate e ad affinare la propria coerenza interna. In questo contesto il ricorso, nel dibattito mediatico, alla petizione popolare on line come «prova» dell’inopportunità delle nomine appare ulteriore segno di confusione concettuale: il valore epistemico di una tesi scientifica, infatti, non è misurabile attraverso il numero di adesioni che riceve, poiché esso dipende unicamente dalla qualità metodologica e dalla capacità predittiva delle evidenze su cui si fonda. Invocare, pertanto, il peso di migliaia di firme equivale a sostituire il criterio della verità con quello della popolarità, scivolando in una fallacia «ad populum» che mal si concilia con l’idea stessa di scienza come ricerca del vero. La difesa della salute pubblica, nel quadro di uno Stato costituzionale, non si identifica con la conformità acritica a una linea contingente, bensì con la predisposizione di un ambiente deliberativo in cui la pluralità delle voci, selezionate in ragione della competenza e non dell’ortodossia, consenta di individuare le soluzioni più efficaci e rispettose dei diritti fondamentali.
In tale prospettiva, la partecipazione di Bellavite e Serravalle al Nitag non costituisce una minaccia alla coerenza scientifica dell’organo, semmai ne rappresenta, se letta senza pregiudizi ideologici, un rafforzamento strutturale. La scienza che rinuncia al dissenso interno e alla verifica critica delle proprie ipotesi cessa di essere scienza per trasformarsi in scientismo, ossia in una costruzione dogmatica impermeabile alla revisione, in aperto contrasto con la natura stessa del sapere e con la funzione garantista della Costituzione.
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Nell’aprile 2020 Andrea Urbani accennava a un documento sul Covid non divulgato. E si prese una lettera di richiamo dal ministro.La Carta garantisce la libertà di manifestare opinioni sgradite anche in sedi consultive.Lo speciale contiene due articoliC’era un piano segreto per far uscire (nel peggiore dei modi possibili) l’Italia dall’emergenza pandemica? A rileggere i verbali desecretati delle audizioni in commissione Covid, sì. Un piano di cui nessuno, per ordine del ministro della Salute Roberto Speranza, poteva parlare, perché non era stato validato né giuridicamente né scientificamente, a conferma che le sciagurate misure adottate dalle autorità sanitarie italiane per fronteggiare l’epidemia da coronavirus non poggiarono su evidenze scientifiche o giuridiche ma sulle decisioni politiche di Speranza & Co. Un piano annunciato «incautamente», secondo l’ex ministro, al Corriere della Sera da Andrea Urbani, già direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute, nonché componente della task-force Ccoronavirus.La storia del piano segreto qualcuno la ricorderà: il 21 aprile 2020 Urbani rilascia a Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera un’intervista nella quale dice che da gennaio era pronto un piano segreto che non era stato divulgato per non creare allarme. La notizia deflagra con così tanta violenza sull’opinione pubblica, già terrorizzata, che Speranza lo stesso giorno invia a Urbani una lettera di richiamo dai toni molto duri (ottenuta dal deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami a inizio 2021 tramite ricorso al Tar): «Le dichiarazioni e le notizie da Lei fomite incautamente alla stampa sono riferite ad uno studio in corso di definizione e non adottato», scrive il ministro al suo direttore generale. «Le rammento inoltre che, ove si trattasse di un atto “secretato” - come emerge dalla Sua dichiarazione alla stampa - Lei avrebbe violato le più basilari regole di correttezza e diligenza […] determinando una situazione di forte disagio istituzionale, anche tenuto conto delle possibili ripercussioni delle Sue affermazioni sull’opinione pubblica».Perché Urbani fa arrabbiare Speranza? Su sollecitazione di Bignami, Urbani cerca di chiarire la vicenda del piano segreto nell’audizione in commissione Covid del 13 maggio 2025: «Se lei, come ha appena detto, non seguiva la programmazione», gli chiede il deputato di Fdi per capire la catena di comando, «a che titolo ha parlato di un piano esistente da gennaio e che era stato tenuto segreto?». Urbani nella risposta s’incarta. Prima dice che «circolavano degli scenari, in seno al Cts, che parlavano, in assenza di misure, di 600.000-800.000 morti». Poi, incalzato da Bignami - che gli ricorda che non può essere che nel Cts se ne parlasse, visto che il Cts nasce a metà febbraio e lui parla di un piano che esisteva da gennaio - precisa: «Ho parlato di gennaio, ma ho commesso un errore. Il piano - o questo documento - è stato predisposto, come le ho detto, da diversi attori, perché il Cts ha dato mandato all’Istituto superiore di sanità, allo Spallanzani, alla mia Direzione e alla Direzione della prevenzione di elaborare degli scenari di risposta in base alle analisi che stavano arrivando su potenziali impatti sul Servizio sanitario […] Anche l’Istituto e credo Merler fornivano scenari di diffusione del virus che all’inizio avevano forbici molto ampie». È lo stesso Urbani, tuttavia, a riferire in audizione che i dati su cui lavoravano gli esperti, e dunque anche Merler, erano «molto frammentati», «poco profondi», «sporchi».In realtà, la ragione per la quale Speranza si infuria con Urbani è che un piano c’era, ed era stato elaborato dal matematico trentino Stefano Merler della Fondazione Kessler allora presieduta da Francesco Profumo, già membro del comitato d’indirizzo della Fondazione Italianieuropei dell’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Si tratta della Fondazione che a fine aprile 2020 frena la fase 2 (riapertura del Paese) ipotizzando il rischio, mai concretizzato, di 151.000 pazienti in terapia intensiva entro metà giugno (che spinge Speranza a posticipare per l’ennesima volta la fine del lockdown), e che ad aprile 2021 prospetta lo scenario di 1.300 morti al giorno in caso di riaperture totali a luglio (il 15 luglio 2021 in realtà i decessi sono 23). Se le autorità sanitarie si fossero appoggiate sulle previsioni dell’oroscopista Branko, probabilmente avrebbe elaborato stime più precise.Il problema, che Speranza evidenzia nella nota di richiamo a Urbani, è che «di detto Piano non è indicato né l’organo che lo avrebbe adottato, né la norma di riferimento, né la data di sottoscrizione del medesimo. Non viene, altresì, fornito alcun elemento in merito al procedimento di approvazione del predetto documento, ovvero ai soggetti coinvolti nella definizione dello stesso. Con evidenza» aggiunge Speranza, «si trattava di un mero documento di studio, non validato da alcun soggetto pubblico deputato a pronunciarsi su tali temi delicati». Speranza in buona sostanza rimprovera Urbani di aver chiacchierato troppo: non si può parlare di un piano segreto, a maggior ragione se questo non poggia su basi scientifiche o giuridiche bensì su modelli matematici predittivi, non è stato validato ed è stato oltretutto predisposto non da un epidemiologo ma da un matematico come Merler, modellista di una Fondazione privata. Urbani prende atto e, anche in audizione, si aggrappa a minuzie precisando che il piano era «riservato» più che «segreto», ma tant’è: il «Piano per un’eventuale pandemia da Covid-19» c’era e al suo interno c’erano gli scenari di Merler. 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Tale impostazione risulta doppiamente problematica. Sul piano epistemologico, essa confonde il consenso politico-istituzionale con la verità scientifica, come se quest’ultima fosse il prodotto di una decisione autoritativa piuttosto che il frutto di un procedimento di verifica, falsificazione e continua revisione delle ipotesi. Sul piano costituzionale, essa contraddice non solo il principio di libertà della scienza di cui all’art. 33, ma pure gli artt. 3 e 21 del Testo fondamentale, che vietano discriminazioni fondate sulle opinioni e garantiscono la libertà di manifestarle, anche in sede tecnico-consultiva.La presenza in un organo consultivo di membri che hanno espresso legittimamente e con autorevoli studi posizioni critiche non equivale a un indebolimento dell’efficacia delle sue raccomandazioni, ma al contrario rappresenta una condizione di maggiore robustezza argomentativa, in quanto costringe le posizioni maggioritarie a confrontarsi con obiezioni strutturate e ad affinare la propria coerenza interna. In questo contesto il ricorso, nel dibattito mediatico, alla petizione popolare on line come «prova» dell’inopportunità delle nomine appare ulteriore segno di confusione concettuale: il valore epistemico di una tesi scientifica, infatti, non è misurabile attraverso il numero di adesioni che riceve, poiché esso dipende unicamente dalla qualità metodologica e dalla capacità predittiva delle evidenze su cui si fonda. Invocare, pertanto, il peso di migliaia di firme equivale a sostituire il criterio della verità con quello della popolarità, scivolando in una fallacia «ad populum» che mal si concilia con l’idea stessa di scienza come ricerca del vero. La difesa della salute pubblica, nel quadro di uno Stato costituzionale, non si identifica con la conformità acritica a una linea contingente, bensì con la predisposizione di un ambiente deliberativo in cui la pluralità delle voci, selezionate in ragione della competenza e non dell’ortodossia, consenta di individuare le soluzioni più efficaci e rispettose dei diritti fondamentali.In tale prospettiva, la partecipazione di Bellavite e Serravalle al Nitag non costituisce una minaccia alla coerenza scientifica dell’organo, semmai ne rappresenta, se letta senza pregiudizi ideologici, un rafforzamento strutturale. La scienza che rinuncia al dissenso interno e alla verifica critica delle proprie ipotesi cessa di essere scienza per trasformarsi in scientismo, ossia in una costruzione dogmatica impermeabile alla revisione, in aperto contrasto con la natura stessa del sapere e con la funzione garantista della Costituzione.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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