
Piero Bitetti, sindaco piddino di Taranto, chiede di rimandare le decisioni al 31 luglio. Il governatore Emiliano apre alle ipotesi alternative alla nave gasiera. Il ministro Urso resta ottimista e annuncia la creazione di un’altra commissione tecnica.Taranto, estate 2025. Nell’aria c’è afa, tensione e molto fumo. Fumo dai forni dell’acciaieria (poco ormai) e fumo negli occhi. Perché, a dispetto dei tanti tavoli, verbali, commissioni tecniche e dichiarazioni ministeriali, la faccenda ex Ilva resta appesa a un’altra data: 31 luglio. Un’altra scadenza, un’altra attesa, un altro rinvio. Ma perché stupirsi: parliamo sempre di un fil di fumo.Al ministero delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso raduna tutti: enti locali, sindacati, Regione, porto, perfino Snam. Scopo del giorno: chiudere un accordo istituzionale sul piano di decarbonizzazione dell’acciaieria. Ma no, non è giornata di firme. È invece giornata di commissioni. Il ministro annuncia la nascita di una nuova creatura burocratica: una commissione tecnica (che sa già di eterno tavolo) per studiare una soluzione che chiuda un cerchio: per togliere il carbone bisogna usare il gas prodotto da una gasiera ancorata in porto.Già, la nave. Tema rovente e divisivo. Il rigassificatore è necessario per alimentare i forni a Dri (prima lavorazione dei minerali), indispensabili per l’acciaio green, ma la sola idea di attraccare quella piattaforma galleggiante nel Mar Piccolo ha provocato una levata di scudi locale. Una partita che si gioca all’interno della sinistra visto che tutti i protagonisti sono stati eletti nelle liste Pd. Il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha chiesto di spostare tutto a dopo il consiglio comunale del 30 luglio. Prima si discute in casa, poi eventualmente si firma. Un metodo democratico, certo, ma anche un modo efficace per rinviare la soluzione e non assumersi alcuna responsabilità.Dall’altra parte, il governatore pugliese, Michele Emiliano, si è presentato con la solita energia combattiva e un messaggio chiaro: il piano può funzionare anche senza nave. Magari allungando il tubo del gasdotto Tap che arriva dall’Adriatico. Emiliano è stato uno degli oppositori più feroci di quel tubo perché rovinava il paesaggio. Ora lo considera la soluzione. Meglio evitare l’ennesima servitù portuale. Emiliano non le manda a dire: «Ci hanno lasciati col cerino in mano. Il Parlamento? Assente. I partiti? Zitti. Solo il Pd, e in particolare Elly Schlein, ci sostiene». Un cerino che rischia di diventare torcia olimpica se le decisioni non arrivano.In mezzo a tutto questo, Urso prova a fare da pompiere e ottimista seriale: «Siamo sulla strada giusta», assicura. Nomina una commissione tecnica che deciderà entro il 28 luglio, l’autorizzazione ambientale (Aia) sarà rilasciata, e il tavolo tornerà il 31. Semplice?Non proprio. Perché oltre alla nave e al gas c’è anche il piccolo dettaglio dell’occupazione. I sindacati, con in testa il segretario della Uilm, Rocco Palombella, avvertono: «Il destino di migliaia di lavoratori è appeso a questa decisione». E per ora, la risposta è più che altro una promessa: il governo cercherà di ricollocare eventuali esuberi con «politiche attive». Forse già nel decreto Ilva in Senato, «se possibile». Il che, nella lingua della politica, significa: forse sì, forse no, dipende da quanti emendamenti passano.Intanto da Genova, dove il tema ex Ilva riguarda lo stabilimento di Cornigliano, il neo sindaco (sempre Pd) Silvia Salis tiene il profilo basso. Nessuna dichiarazione roboante, nessun rigassificatore all’orizzonte, ma forse - dicono - potrebbe toccarle uno dei forni elettrici. Forse. Ma anche qui, la nebbia è più densa del fumo d’altoforno.E mentre le grandi manovre istituzionali vanno avanti, a Taranto si continua a respirare l’aria di sempre. I rappresentanti della sicurezza di Fim, Fiom e Uilm segnalano nuove emissioni anomale da un reparto. «Visibili anche dall’esterno», dicono. Un monito sordo a chi discute di futuro, mentre il presente fuma.Nel gioco delle opzioni, sul tavolo restano due strade: Quella con tre forni elettrici, senza nave né polo Dri. Più soft dal punto di vista ambientale, ma con più esuberi. Oppure quella con tutto: tre forni, impianti Dri e rigassificatore. Più occupazione, ma più controversie.Il tutto, sotto il vincolo assoluto della nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Se salta quella, salta anche l’intero impianto negoziale: nessun acquirente si farà avanti a partire dal primo agosto senza garanzie di produzione attiva. Perché sì, ricordiamolo: il gruppo ex Ilva è in amministrazione straordinaria e aspetta un nuovo compratore. Ma chi investe in una fabbrica senza Aia?Dunque eccoci qui, a metà luglio, con una fabbrica che tossisce, una città che trattiene il fiato, e un futuro che si gioca tra un rigassificatore sgradito e un piano di decarbonizzazione che si scrive con la penna e si cancella col fiato sul collo della politica. Il finale? Sempre lo stesso: «Ci rivediamo a fine mese».Sperando che stavolta, almeno, qualcuno porti una decisione, e non solo l’ennesimo verbale.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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