2022-03-12
Facebook decide anche chi si può odiare. Indovinato: i russi
Il social network cambia le regole e consente discorsi violenti contro Mosca, perfino l’esaltazione dei nazisti del battaglione Azov. È la prova che la neutralità dei social è una favola. E la libertà di pensiero un optional. Facebook ha rivisto la propria policy: sarà lecito pubblicare discorsi violenti, purché nei confronti dei russi. Il social network getta la maschera e archivia anni di finto buonismo e «correttezza»: la neutralità del Web è una bugia. Poi qualcuno comincia a scavare. Pensavamo che nella narrazione della guerra in Ucraina il livello marciapiede fosse stato raggiunto dall’Università Bicocca di Milano con Fedor Dostoevskij ma non avevamo tenuto conto dell’alto magistero di Mark Zuckerberg. In perenne lotta contro il Male e con alle spalle maestri come i personaggi di Star Trek, il miliardario siliconvallico in bermuda ha lanciato la sfida a Vladimir Putin puntandogli contro la portaerei Facebook e l’incrociatore fotografico Instagram. Missione «cacca nel ventilatore». Da oggi chi vorrà insultare lui, gli oligarchi, i russi in generale o Ivan Drago in particolare avrà facoltà di farlo liberamente sui suoi social network. Altro che aviazione polacca. L’annuncio del generale Zuck da Menlo Park scalda i cuori tormentati dell’Occidente pacifista: «A seguito dell’invasione russa abbiamo temporaneamente concesso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole. Ad esempio post violenti come invocare la morte agli invasori russi». Nella dichiarazione di guerra sono consentiti messaggi estremi: inneggiare allo scioglimento nell’acido di Putin e Alexander Lukashenko (presidente bielorusso) porterà a note di merito. E per una più capillare penetrazione dell’odio dei buoni, la censura sull’hate speech è stata tolta espressamente nei paesi del contesto geografico interessato: Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia, Ucraina. L’agenzia Reuters è entrata in possesso di alcune mail sensibili. Una è così strutturata: «Stiamo rilasciando un’indennità per consentire discorsi violenti quando a) si prendono di mira i soldati russi, tranne i prigionieri di guerra; b) si prendono i mira i russi dove è chiaro il contesto dell’invasione». C’è un punto «c» più contraddittorio degli altri in senso liberale: sarebbe consentito l’elogio dell’ucraino battaglione Azov di inclinazioni neonaziste, normalmente bandito dai social. Della serie: i nemici dei miei nemici sono miei amici, finché mi fa comodo. Nudi alla Meta(verso). Nel senso che la policy a elastico è l’ulteriore conferma di tre peccati originali della macchina da like: la presunta neutralità dei social media è una favola per analfabeti funzionali; la libertà di espressione è un rubinetto da aprire o chiudere a seconda dei desiderata e della visione del mondo del capo; la strategia di comunicazione geopolitica viene decisa dal proprietario delle autostrade digitali, vale a dire il Pentagono.Al di là del contesto comunque sorprendente, la discesa in campo dei giganti digitali come riservisti del pensiero è qualcosa che va oltre il folclore. E non ha niente a che vedere con il confusionismo conformista caro all’Occidente sul divano, come potrebbe essere l’appello ai «due gradi in meno dei termosifoni», utile come cantare dal terrazzo mentre il Covid uccideva il nonno. La decisione di Menlo Park si inserisce piuttosto nell’alveo del progressismo distruttore: arrivare alla purezza del pensiero (unico, privo di sfumature) distruggendo o ridicolizzando la stessa libertà di pensiero. In fondo l’olezzo è sempre lo stesso: il disprezzo delle idee, tranne quelle centrifugate allo zenzero dei sociopatici della Silicon Valley. Anche se Putin fa di tutto per attirarselo, l’odio a senso unico promulgato per legge dai campioni delle libertà sorprende. Stesso filone del Black Lives Matter (se non ti inginocchi sei un razzista), dell’ecologismo militante (l’uomo malvagio è quello civilizzato) e della dittatura delle minoranze (l’eterno risarcimento per esserlo). Così i social diventano un pomposo tribunale che non ha niente di virtuale e che condiziona i cittadini, non solo nella scelta dell’enoteca o del contorno per il pollo alla diavola. Ma dell’opinione su una guerra. La decisione di schierare la divisione Facebook è piaciuta zero al Cremlino che per reazione ha scatenato la tempesta perfetta. Il portavoce Dmitry Peskov ha fatto sapere: «Prenderemo provvedimenti se i network gestiti da Meta non fermeranno gli appelli alla violenza contro i russi, compreso il personale militare». In poche ore due conseguenze: l’ente regolatore russo dei media ha limitato l’accesso a Instagram (dopo avere bloccato nei giorni scorsi Facebook e Twitter). E l’ambasciata russa a Washington ha chiesto a Joe Biden di «porre freno alle attività estremiste del gruppo di Zuckerberg». Il vice responsabile del Comitato per le tecnologie e comunicazioni, Anton Gorelkin, ha denunciato la major americana: «Quello che stanno facendo è chiamato incitamento all’odio razziale, che in Russia si qualifica come estremismo». L’escalation sul fronte della guerra asimmetrica ha risvegliato dal sonno ancestrale anche l’Onu. «Il cambio di policy di Facebook desta allarme», ha dichiarato il portavoce dell’alto commissario per i Diritti Umani, Michelle Bachelet. «Il potenziale ampliamento della violenza sui post è preoccupante e la questione verrà affrontata con l’azienda». Sono anni difficili e con queste mosse Zuckerberg si candida a diventare la Greta Thunberg del pensiero unico globale. Oggi si venera e domani si odia, tutti insieme. Indro Montanelli insegnava che «è molto più facile e comodo essere pecora del gregge che essere uomo». Non aveva idea dei followers.