
Gli inquirenti ipotizzano che tra il 2015 e il 2017 il vettore arabo abbia in realtà detenuto la maggioranza azionaria della nostra compagnia aerea. Scatterebbe il reato di falso in bilancio e la scure della Commissione Ue sulle comunicazioni societarie.L'inchiesta della procura di Civitavecchia sul fallimento di Alitalia è in moto. E c'è la possibilità che oltre al reato di bancarotta fraudolenta possa configurarsi presto anche quello di falso in bilancio. Gli investigatori, infatti, spulciando la relazione sulle cause di insolvenza del 28 gennaio del 2018, ipotizzano che Etihad, la compagnia di bandiera degli Emirati Arabi, abbia esercitato un controllo molto più ampio di quel 49% detenuto dopo gli accordi del 2014 con il governo di Matteo Renzi. La questione non è di poco conto. Perché nell'ultimo bilancio disponibile del 2015 (quello del 2016 non è mai stato depositato) sta scritto nero su bianco che «la società non è soggetta ad attività di direzione e coordinamento». Ma così sembra non essere stato. Tutto ruota intorno alle 200 pagine coperte da omissis della stessa relazione di gennaio. I consulenti Stefano Martinazzo e Ignazio Arcuri (già impegnati in passato sul caso David Mills, Windjet, Telecom, Infront e Mediatrade) le hanno desecretate e avrebbero trovato all'interno spunti interessanti sull'effettivo potere di Etihad sulla nostra compagnia di bandiera, tale da configurare una violazione dell'articolo 2622 del Codice Civile, ovvero «false comunicazioni sociali delle società quotate». Al momento gli indagati sono tre, cioè gli ultimi tre amministratori delegati della compagnia di bandiera: Silvano Cassano, Luca Montezemolo e Mark Ball Cramer. Durante le perquisizioni della Guardia di Finanza sono stati trovati documenti che spiegherebbero criticità e anomalie nella gestione che varia appunto dal 2015 al 2017, quando Etihad deteneva il 49%, ma il controllo di fatto era in mano ai soci della Cai-Midco (51%) fra cui Unicredit, Intesa San Paolo, Mps, Poste e altri azionisti privati come Atlantia. Gli inquirenti stanno cercando di capire i possibili sprechi che potrebbero essere stati fatti anche in quest'ultima gestione, dopo che nel solo periodo 2008-2014 sono state registrate perdite per 2 miliardi con più di un miliardo di euro di indebitamento finanziario. Si vaglia ogni ipotesi, dai rapporti con il fondo sovrano di Abu Dhabi Mubadala, già impegnato in Italia in Piaggio Aerospace, fino all'Airbus quadrimotore preso a noleggio da Etihad durante il governo di Renzi per quasi 150 milioni di euro. Come sostiene l'economista dell'Universtià Bicocca Ugo Arrigo, «Alitalia è stata nazionalizzata, ma a nostra insaputa, il 2 maggio 2017». Perché, spiega, « non si è trattato di una nazionalizzazione attiva, stabilita dal governo con un suo decreto, bensì di una nazionalizzazione passiva, decisa dagli azionisti uscenti i quali, dopo aver perso tutti i capitali investiti nell'azienda e portato il suo patrimonio netto in negativo, hanno chiesto il commissariamento e consegnato le chiavi aziendali al governo»«. I magistrati Mirko Piloni, Gustavo De Marinis, Allegra Migliorini, coordinati dal capo della procura Andrea Vardaro, quindi proseguono nelle indagini e presto potrebbero avere novità (e aiuto) dalla Commissione Europea. A Bruxelles infatti hanno aperto da qualche mese un'indagine approfondita per valutare se il prestito ponte di 900 milioni di euro che l'Italia ha concesso ad Alitalia costituisca un aiuto di Stato e, soprattutto, se sia conforme oppure in contrasto con le norme comunitarie. L'Unione europea teme che «la durata del prestito, che va da maggio 2017 fino almeno a dicembre 2018, superi la durata massima di sei mesi prevista dagli orientamenti per i prestiti di salvataggio». Non è una novità, perché appare molto simile al prestito ponte dal 300 milioni dato alla nostra compagnia di bandiera nel 2008. Allora la Commissione stabilì che si trattava di un aiuto di Stato illegittimi trattarsi di un aiuto di Stato illegittimo e ne richiese la restituzione. Anche adesso è probabile che nel prossimo autunno da Bruxelles possa arrivare l'ordine di imporre ai commissari di restituire allo Stato i 900 milioni. Già ma chi saranno i commissari? Nei giorni scorsi il nuovo ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha annunciato che potrebbero esserne nominati di nuovi. Al momento pare un'ipotesi sul tavolo, anche perché chi si occuperà del dossier dovrebbe essere il ministero dello Sviluppo economico, ovvero il vicepremier Luigi Di Maio. Ma è probabile che il dossier sarà in mano a Vito Cozzoli, il nuovo capo di gabinetto del Mise insieme con chi ha seguito fino adesso la vicenda, cioè il direttore generale Stefano Firpo.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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