2021-11-13
Esagerato Galeazzi, cambiò volto e voce alle telecronache della Rai ingessata
Giampiero Galeazzi (Ansa)
Urla, sudore, preparazione. Troppo ingombrante per non mutare lo stile di Viale Mazzini, faceva irruzione nelle case degli italianiQuesto rovescio di Ivan Lendl è una bomba al Nepal». È stata l'unica concessione alla gaffe del mezzobusto. Con la voce roca che sembrava smerigliata da 1.000 sigarette, Giampiero Galeazzi è entrato nelle case degli italiani per 40 anni senza bussare. La sua presenza era un'irruzione, la sirena di una petroliera, il segnale che dentro il televisore stava per accadere qualcosa di straordinario nello sport (tennis, canottaggio, calcio), nel varietà (dieci anni a Domenica In con Mara Venier). Addirittura nella politica, visto che immortalò la stretta di mano fra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov a Reykjavik per la fine della Guerra fredda. Si trovava in Islanda per la partita di Champions league fra Valur e Juventus, allora la sindrome del «già che sei lì» era un destino di molti.Giornalista, conduttore televisivo, icona della Rai, tifoso della Lazio e poi showman suo malgrado (ma in fondo gli piaceva eccome), Galeazzi è morto ieri al policlinico Gemelli di Roma dove era ricoverato in terapia intensiva da settimane. Aveva 75 anni ed era malato da tempo di diabete. È stato un punto di riferimento dello sport italiano vissuto, raccontato, celebrato e sofferto. È stato il primo e l'ultimo cantore scapigliato di una stagione analogica della narrazione, prima che gli algoritmi sostituissero l'anima di una professione antica. Lascia due figli giornalisti, a conferma che certe persone insegnano per contatto, sono più larghe della vita. E del girovita. «Chi è questo bisteccone?», chiede Gilberto Evangelisti a Renato Venturini vedendo nella redazione di via del Babuino quel giovanotto romano dalla stazza imponente che vuole «fare la radio». Anni Settanta, gavetta veloce dopo la laurea in economia e una fugace esperienza a Torino, all'ufficio marketing della Fiat. Poi il ritorno sul Tevere, alla Canottieri Roma, dove suo padre è istruttore. Quella è stata la sua giovinezza, cresciuto a remi e racchette. «Vedevo Nicola Pietrangeli giocare e ho visto passare di qua tutto il generone romano», rivela in un'intervista a Giancarlo Dotto. E via elencando: «Professionisti, commercianti, nullafacenti, ricchi veri e ricchi immaginari». Da lì alla Rai il passo è relativamente breve. Comincia come tutti gli stagisti (allora il nome era garzoni di bottega) della sua generazione: «Portavo i cappuccini a Sandro Ciotti e leggevo i risultati della Serie C», ricordava nelle conversazioni piacione riprodotte nello slang romanesco anche sui giornali, per non perdere il profumo da amatriciana delle sue parole. Poi snocciolava il quadriumvirato dei maestri assoluti ai quali ha rubato il mestiere: Guglielmo Moretti, Enrico Ameri, Rino Icardi, Claudio Ferretti. Oggi sarebbe gente da Pulitzer settimanale. È speciale Galeazzi, e scandalizza gli ingessati, della serie «ve lo meritate Alberto Sordi». Affronta le telecronache come melodrammi lirici, è il compagnone preferito di Diego Maradona (geniale l'idea di fargli intervistare i compagni sotto la doccia dopo il primo scudetto del Napoli), prende sottobraccio allenatori schivi come Nils Liedholm e Ottavio Bianchi sollevandoli da terra nella foga e così impedendo loro di divincolarsi per non rispondere. È spettacolare l'orso Baloo mentre trasferisce nella capitale il genere romanzo popolare che sta spopolando a Milano con Beppe Viola. Via il doppiopetto, via le frasi ingessate e gli arcaismi liceali. Con loro arriva, dentro il servizio pubblico delle calzamaglie, l'impressionismo bohèmien. «Si guarda a sinistra, si guarda a destra. Vince l'Italia» (Sydney 2000, oro di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi nel K2). Ha remato tanto e ha mangiato tanto, Galeazzi, per diventare Bisteccone. Figlio di un campione europeo di canottaggio, lui stesso appassionato e praticante, in diretta non sbaglia un colpo di remo. Alle Olimpiadi di Monaco, prima radiocronaca, dice: «Qui c'è molto vento e le bandiere sembrano di legno». Rigide, immobili, un'immagine magrittiana. Sta facendo le prove generali per quando passa alla tv. Dribbling, Novantesimo minuto, Domenica Sportiva, soprattutto i Giochi di Seul. E lì tre ragazzi campani entrano nella leggenda grazie alla sua colonna sonora, Carmine e Giuseppe Abbagnale, Peppiniello Di Capua. «Quando vedo una barca italiana», raccontava, «non posso solo fare la cronaca perché mi sento là dentro. Mi hanno istruito a dare le sensazioni. Nun me tengo dentro gnente. Gli ultimi 500 metri me li sono fatti in piedi, sono arrivato con il fiatone. Non guardavo più il monitor ma solo il bacino». Sei olimpiadi e sei mondiali di calcio da inviato, gli ultimi in Sudafrica nel 2010. Alla vigilia rivela: «Sarà il mio canto del cigno, morirò con Nelson Mandela». Lo storico urlo di accompagnamento degli Abbagnale al traguardo non avrebbe dovuto esserci. «La sera prima stavo giocando a carte con Evangelisti quando arrivò la notizia di uno sciopero della Rai. A quel punto, invece di andare a letto, girai per Seul nei bar frequentati dai militari americani. Quando tornai in albergo all'alba scoprii che l'agitazione era stata revocata. Mi precipitai a fare la telecronaca senza neppure il foglio dei finalisti».Mara Venier lo lancia come showman. Lui gigioneggia e ingrassa, fa struggere le massaie e passa dalle cucine dei ristoranti ad assaggiare i piatti. Bisteccone arriva a 170 chili, poi scende a 162, di meno è una sofferenza. «M'hanno rovinato dieci anni di Domenica In. Mangiavo la sera e non andavo più al circolo a fare la partitella. In poco tempo mi sono ritrovato addosso un set di valigie da 50 chili». Più o meno come quelle che a Italia 90, prima della semifinale Italia-Argentina, scarica nella hall dell'Hotel Vesuvio davanti a Castel dell'Ovo. È come una diva di Hollywood e dice al portiere: «Sul conto mi metta anche il garage, ho appena lasciato l'auto al parcheggiatore». Sguardo digito-interrogativo e imbarazzo alla reception: «Dottor Galeazzi, noi non abbiamo il garage». In quel momento la sua Merdedes 500 si sta allontanando, guidata da un ladro.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)