2021-05-08
Era sardo il pane che nutriva l’antica Roma
Radici ancorate a una solida tradizione rurale. Fu la generosità dei terreni a spingere i Cartaginesi verso la conquista dell'isola. I vantaggi della Città imperiale: poteva disporre di un granaio in mezzo al Mediterraneo, dove sfornarne diversi tipi bianchissimiIn un Paese che sta cercando di tornare alla normalità quotidiana aprendosi a sogni e progetti di vacanze serene, la Sardegna diventa protagonista. Con relative soprese, come ben descritto da Marco Guarnaschelli Scotti, una delle più autorevoli penne golose. «L'isola è un piccolo continente per le tante varietà di natura e paesaggio» concentrate entro i suoi duemila chilometri di confini costieri. «Gastronomicamente parlando ha un'immagine che oscilla dagli spaghetti all'aragosta dei turisti di costa ai malloreddus o, tutt'al più, al porceddu di un folklore superficialmente diffuso, ma c'è ben altro». «Una cucina di stratificazioni storiche» come ben sottolinea Nuccia Caredda nel suo puntuale Le Cucine di Sardegna (Tarka edizioni, 2017), con un Dna ricco di contaminazioni successive, dai fenici ai greci, romani, bizantini, catalani, ma anche genovesi, piemontesi, veneti per giungere a un melting pot turistico legato alla modernità. «Il tutto con radici ancorate ad una solida tradizione rurale poiché i sardi hanno intrecciato con la terra un dialogo che dura da sempre e che tramanda, di generazione in generazione, le lente conquiste della civiltà». Una ricchezza donata dalla natura con il grano. Come scrisse in tempi non sospetti Diodoro Siculo, fu la generosità dei terreni a spingere i Cartaginesi verso la conquista dell'isola. Non da meno i Romani poi, come documentato da Polibio, Orazio, Cicerone e molti altri, a mantenere ben salda la dominazione romana per i vantaggi derivanti alla città imperiale di poter disporre di un granaio al centro del Mediterraneo. Nei tempi successivi varie altre testimonianze da parte dei Livingstone del passato sulla ricchezza di usi e costumi legati, in primis, alla civiltà del pane, prodotto inteso anche come fattore di aggregazione sociale, laddove «le famiglie si riunivano attorno ai forni con i profumi che poi si spandevano per le vie del paese». Un esempio l'inglese William H. Smith, colpito dalla bianchezza inarrivabile delle pagnotte una volta spezzate a tavole in cui l'ospite era considerato un re, in quanto il sardo «non subisce il dovere dell'ospitalità, ma è animato da una sorta di furore ospitale», ipse dixit il milanese Paolo Mantegazza, medico e scrittore illuminato dell'Ottocento, nei suoi diari di bordo ospite di pranzi luculliani da maratoneti di forchetta. Era un tempo in cui «minacciare qualcuno di ridurlo al pane nero è cosa poco meno temuta che il mandarlo in galera». Rinforza la dose il principe asburgico Ferdinando IV, ospite del cognato Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, in esilio tra i nuraghi negli anni in cui Napoleone spadroneggiava dalle Alpi alla Laguna. «Il sardo ama mangiare molto pane e solo bianchissimo. Anche la povera gente, a costo di mangiarne meno, ma lo vuole bianco». Una varietà di lavorazioni e prodotti in cui non solo cambiano le forme ma anche i nomi, da un villaggio all'altro, tanto che la pagnotta era viva più che mai nello spirito del tempo, testimone a scandire il ciclo dell'anno, le ricorrenze sacre e profane (battesimi, matrimoni) con un forte simbolismo legato alle singole rifiniture. Quando un compaesano lasciava le contrade familiari per prendere i bastimenti che lo portavano nel continente, se non i continenti d'oltremare, l'augurio era «saludi e trigo», cioè salute e grano. Godere di buona salute e avere la forza di affrontare le dure fatiche del lavoro, lontano dagli affetti di sempre. Dopo le fatiche degli uomini al campo di semina e raccolta, la cabina di regia diventava domestica, con le donne regine della casa. Gino Bottiglioni ricorda come le brave massaie, sul fine settimana, valutavano le necessità per i giorni a seguire. Veniva selezionata la quantità necessaria di grano per dare il via poi ai rituali conseguenti. Alberto La Marmora era un generale dei Savoia, oltre che viaggiatore curioso. Annotò nei suoi diari come in moltissime case vi fosse una piccola macina di proprietà, mossa spesso da un paziente mulo (la mola asinara) e laddove questo mancava erano le braccia delle donne a girare le macine, cantando nella notte alla luna. Era questo uno dei segreti, perché «il movimento continuo delle piccole macine non riscalda la farina come quello dei molini mossi dall'acqua, assicurando quindi una qualità migliore». Ma tutto questo non è sufficiente se poi la farina ottenuta non continua nella liturgia che porterà al pane della tavola quotidiana. Ce lo descrive bene il Premio Strega 1972 Giuseppe Dessì, tra le pagine di Paese d'Ombre con il lavoro al setaccio delle donne di casa. «Si era chiusa nella stanza della farina e poi, con le sue mani agili e forti, lo attirava a sé e lo respingeva imprimendogli un moto rotatorio. Lo staccio, quasi animato di vita propria, appena sfiorato dalle sue dita, frullava come una trottola, vuotandosi rapidamente». L'escalation continua. Dalla mola asinara al setaccio a trottola per arrivare al forno. Quasi ogni casa ne era provvista, o nel cortile adiacente, se non addirittura con la bocca fornaiola direttamente in cucina, a tiro di fornelli. Il carasau lo conoscono tutti, ma pochi sanno che la sua forma a disco piatto e croccante è frutto di un doppio ripasso in forno dopo che, al primo giro, con il rigonfiamento della sfoglia, entrano in campo sa fresadora, donne dal taglio chirurgico, in grado di separare perfettamente i due dischi che poi, una volta raffreddati su panni di lino, saranno ripassati a 450 gradi. Era il piatto dei pastori che, come su smurzu, faceva da compagno di rancio campestre con formaggio o carciofi. Quello che restava nello zaino sminuzzato (cioè frattau), tornava a casa e veniva ammorbidito in brodo di pecora, un uovo 'n coppa per far festa. Stregò il palato di re Umberto I di Savoia. Si può trovare anche in altre versioni. Su salitu, una sorta di lasagna alternata a pomodoro fresco e formaggio. Variante street food. Passato solo una volta in forno, cioè più morbido, pane lentu, farcito a piacere. La leggenda di Sanluri (una delle capitali delle Sardegna granifera) rimanda alle origini del civraxiu, una maxipagnotta dalla forma a vulcano, tanto che la fioritura della crosta è motivo di vanto tra i panificatori. Si narra che, ai tempi della guerra con Cartagine, Ciro, un legionario, venne ferito. Soccorso da Nuri e Vargiu, madre vedova con il figlio, trovò rifugio e conforto. Decise di sdebitarsi. Non poteva accettare che la sua nuova famiglia si cibasse di un pane d'orzo cotto sui sassi roventi e decise di portare un tocco di nobiltà romana. Costruì un forno con mattoni di paglia e lino cuocendovi il pane di grano, dopo una attenta doppia lievitazione. Risultato: una crosta dorata e croccante, l'interno morbidissimo. Fu la loro fortuna. Da lì l'acronimo dei due nomi. Ci-Vargiu. Ideale a bruschetta con i ricci di mare mentre quello avanzato viene impanato e fritto. Suo cugino il pistoccu, sfoglie passate in forno di varie forme, ma di maggior spessore (3-4 mm contro uno del carasau), ideale nel pucciare il sughetto residuo della pecora in cappotto. Compagna di forno aveva la più semplice turredda, un pane di patate, sorta di salario materiale a chi affiancava la padrona di casa. Il pane di ghiande è un'altra sorpresa che riserva l'isola al viaggiatore curioso, sua culla l'Ogliastra. Strategico nei tempi di carestia a sostituire i più tradizionali pani di orzo o frumento. Una tecnica curiosa e complessa, ben descritta da Vittorio Angius, lavorata con argilla e cenere di vite, panetti asciugati su lastre di sughero e poi avvolti in foglie d'arancio. Et voilà le lande, sorta di morbido torrone nero per gli adulti o la fitta, focaccine tipo polenta scura per i bimbi. L'elenco del pane sardo potrebbe continuare per altre puntate a seguire, fate prima ad andare oltre il bagnasciuga e inoltrarvi a scoprire altre storie tra querce e nuraghi. Non ve ne pentirete.