
Il colosso di San Donato annuncia in pochi mesi l'ennesimo accordo con il Cairo. Con l'ultima concessione offshore Noor vincono tutti e due: l'Italia può crescere nel Mediterraneo Ovest, mentre Al Sisi diventa meno dipendente dal gas di Israele.Si fa sempre più forte la presenza di Eni in Egitto. Con due distinti comunicati diffusi nella giornata di ieri, il cane a sei zampe ha infatti reso pubbliche importanti novità che testimoniano il consolidamento del presidio all'ombra delle piramidi. La prima riguarda l'approvazione di una nuova licenza esplorativa offshore, denominata «Nour», nel prolifico bacino del delta del Nilo orientale, a circa 50 chilometri dalla costa. Eni prevede di procedere con la perforazione di un pozzo già nella seconda metà dell'anno. Trattandosi di un mandato esplorativo, ancora non è possibile stimare la produzione del sito, ma le premesse per ottenere risultati più che soddisfacenti ci sono tutte. Voci del ministero del petrolio egiziane, poi smentite, parlavano di una produzione pari a tre volte quella di Zohr, il maxi giacimento di gas scoperto da Eni nel 2015 e la cui produzione giornaliera si aggira intorno ai 200.000 barili di olio equivalente (boe) al giorno, di cui 75.000 in quota Eni. Se Nour dovesse fruttare quanto sperato, potrebbe rappresentare la spallata definitiva al problema dell'autosufficienza energetica del Cairo, costretto a oggi a importare gas dai paesi vicini a prezzi tutt'altro che di favore.E veniamo al secondo comunicato, che riguarda invece l'area nella quale è situato il giacimento offshore di Nooros. Quest'ultimo è stato scoperto nel luglio del 2015 e messo in produzione a settembre dello stesso anno. Oggi Nooros produce circa 215.000 barili equivalenti al giorno, il livello più alto mai raggiunto in un giacimento Eni in Egitto negli ultimi cinquant'anni e nel quale il colosso petrolifero italiano opera tramite la controllata Ieoc con una quota del 75% (il restante 25% è detenuto da British petroleum). Eni ha annunciato ieri l'approvazione da parte delle autorità egiziane di una nuova concessione, denominata «Nile Delta», che autorizza l'estensione di dieci anni dell'Abu madi development lease. La concessione prevede anche l'esecuzione di ulteriori attività di esplorazione all'intero di El Qar'a exploration lease. Gli asset oggetto dell'estensione, rende noto Eni, si trovano nella «Great nooros area», una delle aree più prolifiche del delta del Nilo. Le autorità egiziane hanno inoltre autorizzato l'estensione della concessione di Ras Qattara per altri cinque anni, alla quale seguirà una nuova campagna di perforazione dei campi inshore di Zarif e Faras. Attività, quest'ultima, destinata a sbloccare le restanti riserve di idrocarburi e a consentire ulteriori attività d'esplorazione all'interno del bacino del Deserto Occidentale.I nuovi accordi sono stati sottoscritti dal ministro egiziano del Petrolio, Tarek El Molla, e confermano la leadership di Eni sul territorio. L'iter autorizzativo, infatti, prevede la ratifica delle intese sia da parte del Parlamento che dal presidente della Repubblica, Abdel Fatah Al Sisi. D'altronde, il cane a sei zampe è presente in Egitto dal 1954 e oggi è il primo operatore petrolifero sul territorio nazionale con una produzione giornaliera di 300.000 barili. «Il settore petrolifero», ha commentato El Molla, «continua a produrre nuovi accordi e si conferma uno dei principali pilastri per attirare ulteriori investimenti, in particolare perché le potenzialità di numerose concessioni onshore e offshore sono elevate». Se tutto andrà secondo i piani, l'Egitto potrebbe addirittura tornare all'export già dalla fine di quest'anno. Ha destato qualche perplessità in questo senso l'accordo sottoscritto dal governo egiziano per acquistare 64 miliardi di metri cubi di gas da Tel Aviv. Sul piatto l'esecutivo avrebbe messo ben 15 miliardi dollari. Se il Paese punta a diventare un player fondamentale dell'area, perché dunque firmare un contratto del genere? La risposta, probabilmente, si può intuire allargando l'orizzonte in un'area che sta sperimentando nuovi equilibri energetici. Un accordo commerciale, osservano alcuni analisti, potrebbe servire da una lato per tenere a bada l'amico-nemico Israele e, contemporaneamente, a stringere la Palestina tra due fuochi. Non essendo noti i termini dell'accordo è anche possibile che, una volta raggiunta l'autonomia energetica, l'Egitto rilasci sul mercato (a condizioni più redditizie) lo stesso gas importato in precedenza. Sullo sfondo, un Mediterraneo sempre più vivace e ricco di competitor. Lo scorso febbraio Eni ha annunciato una «promettente» scoperta di gas tramite il pozzo Calypso 1 in un blocco offshore di Cipro. Dal canto suo, invece, Tarek El Molla ha firmatolo scorso aprile un accordo per collegare il paese a un altro pozzo cipriota, quello di Aphrodite. Un altro importante tassello nella strategia egiziana per trasformare il paese in un gas hub, nella quale Eni gioca già oggi un ruolo fondamentale.
Il signor Yehia Elgaml, padre di Ramy (Ansa)
A un anno dal tragico incidente, il genitore chiede che non venga dato l’Ambrogino d’oro al Nucleo operativo radiomobile impegnato nell’inseguimento del ragazzo. Silvia Sardone: «Basta con i processi mediatici nei loro confronti, hanno agito bene».
È passato ormai un anno da quando Ramy Elgaml ha trovato la morte mentre scappava, su uno scooter guidato dal suo amico Fares Bouzidi (poi condannato a due anni e otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale), inseguito dai carabinieri. La storia è nota: la notte del 24 novembre scorso, in zona corso Como, i due ragazzi non si fermano all’«alt» delle forze dell’ordine che avevano preparato un posto di blocco per verificare l’uso di alcolici nella zona della movida milanese. Ne nasce così un inseguimento di otto chilometri che terminerà solamente in via Ripamonti con lo schianto dello scooter, la morte del ragazzo e i carabinieri che finiscono nei guai, prima con l’accusa di omicidio stradale in concorso e poi con quelle di falso e depistaggio. Un anno di polemiche e di lotte giudiziarie, con la richiesta di sempre nuove perizie che sembrano pensate più per «incastrare» le forze dell’ordine che per scoprire la verità di quel 24 novembre.
I governi ricordino che il benessere è collegato all’aumento dell’energia utilizzata.
Quattro dritte ai politici per una sana politica energetica.
1 Più energia usiamo, maggiore è il nostro benessere.
Questo è cruciale comprenderlo. Qualunque cosa noi facciamo, senza eccezioni, usiamo energia. Coltivare vegetali, allevare animali, trasportare, conservare e preparare il cibo, curare la nostra salute, costruire le dimore dove abitiamo, riscaldarle d’inverno e rinfrescarle d’estate, spostarci da un posto all’altro, studiare fisica o violino, tutto richiede l’uso di energia. Se il nostro benessere consiste nella disponibilità di nutrirci, stare in salute, vivere in ambienti climatizzati, poterci spostare, realizzare le nostre inclinazioni, allora il nostro benessere dipende dalla disponibilità di energia abbondante e a buon mercato.
Stéphane Séjourné (Getty)
La Commissione vuole vincolare i fondi di Pechino all’uso di fornitori e lavoratori europei: «È la stessa agenda di Donald Trump». Obiettivo: evitare che il Dragone investa nascondendo il suo know how, come accade in Spagna.
Mai più un caso Saragozza. Sembra che quanto successo nella città spagnola, capoluogo dell’Aragona, rappresenti una sorta di spartiacque nella strategia masochistica europea verso la Cina. Il suicidio chiamato Green deal che sta sottomettendo Bruxelles a Pechino sia nella filiera di prodotto sia nella catena delle conoscenze tecnologiche si è concretizzato a pieno con il progetto per la realizzazione della nuova fabbrica di batterie per auto elettriche, che Stellantis in collaborazione con la cinese Catl costruirà in Spagna.
La Cop30 di Belém, Brasile (Ansa)
Il vertice ospitato da Luiz Inácio Lula da Silva nel caldo soffocante di Belém si chiude con impegni generici. Respinti i tentativi del commissario Wopke Hoekstra di forzare la mano per imporre più vincoli.
Dopo due settimane di acquazzoni, impianti di aria condizionata assenti e infuocati dibattiti sull’uso della cravatta, ha chiuso i battenti sabato scorso il caravanserraglio della Cop30. Il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva detto Lula ha voluto che l’adunata di 50.000 convenuti si tenesse nella poco ridente località di Belém, alle porte della foresta amazzonica, a un passo dall’Equatore. Si tratta di una città con 18.000 posti letto alberghieri mal contati, dove le piogge torrenziali sono la norma e dove il caldo umido è soffocante. Doveva essere un messaggio ai delegati: il mondo si scalda, provate l’esperienza. Insomma, le premesse non erano buone. E infatti la montagnola ha partorito uno squittìo, più che un topolino.





