2021-06-10
I verbali segreti di Speranza
Fino all'ultimo l'esponente di Leu ha tentato di opporsi alla divulgazione dei resoconti della task force Covid. Ora si capisce perché: le carte mettono impietosamente a nudo non solo la totale impreparazione, ma anche le sue bugie su piano pandemico e dispositivi Ci è voluto circa un anno e mezzo, ma alla fine un poco di chiarezza sono stati costretti a farla. Nella tarda serata di martedì il ministero della Salute ha reso disponibili - come richiesto a gran voce da esponenti dell'opposizione, una parte della stampa e pure da un Tar - i verbali della famigerata «Task force antiCovid» istituita a gennaio del 2020 da Roberto Speranza. Il ministro ha provato in ogni modo a nascondere le carte. Di fronte alle pressioni di Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, parlamentari di Fratelli d'Italia, i collaboratori di Speranza sono arrivati al punto di affermare che la task force si riuniva in maniera «informale», motivo per cui il contenuto degli incontri non poteva essere reso pubblico. Ora, leggendo i documenti, capiamo il perché di tanta ritrosia e di tanti silenzi. I verbali finora tenuti segreti svelano tutte le clamorose falle della risposta italiana al coronavirus. Per prima cosa mancava un piano contro la pandemia. Speranza ha più volte ripetuto che il piano pandemico in vigore (aggiornato al 2006) non sarebbe stato utile contro il Covid. Eppure in più di una occasione gli esperti della task force ripetono che servirebbe aggiornare il piano vigente e utilizzarlo. La prima volta il tema viene toccato alla fine di gennaio, poi viene ripreso in numerose riunioni intorno alla metà febbraio. Sono tanti i professionisti della salute che ribadiscono la necessità di avere un piano contro la possibile epidemia. Più di uno suggerisce che vada aggiornato il piano esistente e a un certo punto (siamo al 16 febbraio 2020) il dottor Maraglino del ministero informa che «martedì 18 febbraio si riunirà il tavolo per l'aggiornamento del piano pandemico. Si lavorerà in sottogruppi per accelerare i lavori». Tradotto: tutti sapevano che il piano non era aggiornato, tanto da mobilitarsi per tentare di rimediare (anche se ormai era decisamente troppo tardi). Ma allora viene da chiedersi: perché Speranza ha sostenuto a ripetizione che il piano pandemico non sarebbe servito a contrastare il Covid? I suoi consiglieri spiegavano addirittura che l'andamento del nuovo virus ricordava quello di una influenza. Dunque, a maggior ragione, per quale motivo insistere a ripetere che lo «scudo» sarebbe stato inutile? Altra questione clamorosa è quella riguardante i dispositivi di protezione, cioè le mascherine. Nel verbale datato 2 febbraio 2020, la task force inizia a preoccuparsi del reperimento delle protezioni facciali. Si dice che le informazioni in merito alla disponibilità «non arrivano celermente» e si fa presente che «tutte le maggiori aziende hanno aumentato la produzione». Insomma, si comincia a capire che bisogna darsi una mossa e trovare mascherine da utilizzare. Solo che, poco meno di due settimane dopo, il 15 febbraio 2020, dall'Italia parte un volo su cui sono presenti due tonnellate di mascherine dirette in Cina come «dono». E il 6 marzo 2020 Speranza dichiara: «Non abbiamo problemi di mascherine al momento in Italia». Incredibile. A quanto risulta, le relazioni con Pechino erano una fonte di grande preoccupazione per Speranza e soci. Tanto che, l'11 febbraio 2020, il ministro spiega alla task force: «Il governo continuerà a promuovere iniziative di sostegno umanitario [...] di solidarietà al popolo cinese». Capito? Si sapeva che le mascherine erano difficili da reperire, ma intanto - in nome della «solidarietà» - se ne spedivano tonnellate in Cina, salvo poi dire agli italiani che era tutto a posto. Quando in realtà - come notava sempre l'11 febbraio 2020 il viceministro Pierpaolo Sileri - mancavano dati su quasi tutto, pure sui numeri delle terapie intensive e dei respiratori disponibili. Sì: l'incertezza regnava sovrana. Non avevamo dati, non avevamo protezioni. Ma ci preoccupavamo molto degli aiuti umanitari verso gli amici cinesi, o di correggere le «fake news» riguardanti la situazione del virus in Africa. Qualcuno, prima o poi, dovrà rispondere di tutto ciò.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)