2022-06-25
Due secoli prima di Cristo, le orecchiette
Già l’agronomo e letterato Marco Terenzio Varrone citava la pasta identitaria della Puglia. Abbinamento classico con le cime di rapa ma tante le varianti. Altra tradizione, il pesce crudo. Lo si consuma più che in Giappone. E una golosità: il polpo alla pignata.Se ciceri e tria è un piatto molto «etnico», ben radicato nella tradizione salentina, le orecchiette, come ha ben sottolineato Giuseppe Ruggi, «sono identitarie per Bari (e quindi tutta la Puglia) come la pizza per Napoli o il panettone per Milano». Uno spettacolo in diretta, imperdibile per il turista curioso, le «signore delle orecchiette», tra i vicoli di Bari Vecchia. Una manualità dedicata, trasmessa da madre in figlia. Dal rotolo di pasta di staccano con il coltello pezzettini delle dimensioni di un polpastrello. Li si trascina sul piano ruvido di legno e poi, alla fine, li si rovescia con il pollice. Ne deriva una forma molto caratteristica in cui la superficie ruvida diventa calamita per i vari ingredienti che si possono abbinare. Le prime citazioni già in epoca romana, grazie all’agronomo e letterato Marco Terenzio Varrone, nel II secolo a.C. che racconta di una pasta «dalla forma rotondeggiante e l’interno concavo». Ulteriore traccia in un atto notarile del XVI secolo quando, nell’atto di cessione di un panificio, di padre in figlia, si cita la produzione di tali «recchjetedde». Rivendicazioni diverse su come siano giunte ora sino a noi. Per alcuni di origine provenzale, arrivate con gli angioini, per altri frutto, per certi versi, della presenza ebraica, rifacendosi alla versione dolce, ossia le orecchie di Haman. Un prodotto che, grazie a forma e lavorazione, presenta una essicazione rapida, ben conservabile nel tempo. Nomi diversi, chiancarelle nel tarantino, come orecchie del prete, nel brindisino, dalla forma più grande e ottenute da grano tenero. L’abbinamento classico con le cime di rapa, il protocollo a volerle bollite assieme nella stessa acqua della pasta, per la migliore contaminazione reciproca. Nell’entroterra, un tempo, molto usato il ragù di carne di cavallo, da bestie oramai arrivate al termine della loro missione terrena. Nel Salento un classico abbinate a pomodoro, polpette di carne e ricotta forte. Vi è poi chi esplora nuove strade, come Angelo Sabatelli di Putignano che le accompagna con le acciughe. A proposito di ricotta forte, una tradizione radicata sin dal 1600, ben ricordata da Girolamo Marciano. Si riponeva nell’ombra delle madie della ricotta. A mano a mano che questa inacidiva si rimpolpava con ricotta fresca. Questo per circa due mesi. Dopo di che il tutto veniva conservato entro vasi di terracotta ricoperto da foglie di vite o di fico sì da assumere «un colore cretaceo argilloso e un sapore abbruciante gratissimo al gusto». Questo negli annali di storia. Ora si è più rapidi, con una lavorazione a base di aceto e pepe. Tornando agli usci socchiusi di Bari vecchia con le orecchiette che vi scrutano discrete dai laboratori domestici inevitabile la citazione della loro regina, ossia Nunzia Caputo, ambasciatrice divenuta Pasta Lady nella grande mela. Tempo fa, in un noto ristorante barese, venne sequestrata una partita di orecchiette in quanto «emerse» senza relativa «certificazione a norma di legge». Il segreto di Pulcinella per una realtà, quella delle signore delle orecchiette, già ben raccontata da Dolce e Gabbana in un loro spot cosmetico Pasta, Amore e Emotioneyes che aveva visto protagoniste, accanto alle pastaie locali, anche le figlie di Sylvester Stallone. Si impadronì della notizia una cronista del New York Times. In breve Nunzia venne imbarcata in aereo assieme al sindaco di allora, Antonio Decaro, ed entrambi furono protagonisti al Travel show, un evento specificatamente dedicato al turismo e alle mille bellezze che si possono scoprire nel mondo. Nunzia Caputo non si è montata la testa, convinta della sua missione di ambasciatrice di memorie identitarie, tanto da aver suggerito più volte di insegnare l’arte delle orecchiette anche nei percorsi scolastici. Si chiude in bellezza il capitolo pastaiolo con la citazione delle ricchitelle maritate, ovvero una sorniona lettura goliardica dell’unione, sullo stesso piatto, delle orecchiette, la cui forma rinvia ad una «accogliente identità femminile» con i maccheroncini, ovviamente ambasciatori della miglior identità maschile. Conseguente vederli come piatto principe proposto nei pranzi di nozze. Dalla pasta alle creature di Nettuno il passo è breve. Anche qui ci aiuta una bella intuizione di Luigi Sada a descrivere una «Puglia in cui il cielo è, per intensità di colori, mare capovolto e il mare, per trasparenza delle acque, il cielo» in terra. Rinforza il messaggio Sandro Romano sottolineando come «la Puglia, e Bari in particolare, è l’unico posto al mondo in cui si consuma più pesce crudo che in Giappone». Provare per credere. Il tutto favorito anche dalla pastura di cui si nutrono i pesci, con la ricca vegetazione presente lungo la costa oltre alle polle di acqua dolce che, con i loro getti subacquei, attutiscono il salmastro delle acque marine. Una tradizione di lunga data. Fu proprio qui che il patrizio romano Sergio Flavio apprese l’arte di come allevare le orate. Ne fece tesoro e avviò un suo allevamento attorno a Pozzuoli autoribattezzandosi Sergio Orata. Storico piatto dei pescatori lu quataru, una zuppa di pesce il cui nome rinvia al tradizionale paiolo di rame usato dai pescatori sulle loro navi. Una tradizione che vede capitale Porto Cesareo, da alcuni definita le Maldive del Salento. Tradizione vuole che si usasse il pesce di scarto «chiattisciato», ossia il primo ad entrare nelle reti da pesca e quindi rosicchiato da altri microrganismi marini se non lesionato nel suo dimenarsi per riacquistare la libertà perduta. In questo modo viene marinato naturalmente dall’acqua, grazie anche al lento dissanguarsi delle sue fibre. Si pappa poi tutto al piatto con pane abbrustolito. Altro centro di gravità permanente e golosa il polpo alla pignata. Una storia a parte. Lo si può incrociare lungo i vicoli di paese, offerto da ambulanti dedicati. La cosa curiosa è che in molti casi, avvicinandosi al pentolone, potete pensare di aver spagliato indirizzo, vedendo tappi di sughero «navigare di bolina» tra le acque. In realtà è un’ingegnosa trovata per evitare di scottarsi le dita nel pescare il tutto da offrirvi poi a consolazione di papille. Il sughero, tramite uno spago, è legato ad uno dei tentacoli, e così la pesca per asporto è risolta. Ma quello che pochi sanno, tranne gli addetti ai lavori, è come avviene la cosiddetta «arricciatura» dei tentacoli. Una liturgia dalle regole precise, anche se un po’ tribali. Tradizione vuole che il pescatore, dopo aver adescato la preda, lo sbatta ripetutamente sugli scogli, ideali quelli del molo di san Nicola, dalla superficie liscia. I tentacoli così si allentano progressivamente. Ma lo splatter non finisce qui. Armati di paletta di legno li si «ammorbidisce» ulteriormente, così da schiarirne le carni. Vengono lavati più volte con l’acqua marina. Poi, quasi a volersi scusare per tanta violenza, i pescatori iniziano «a cullarli» ripetutamente entro un cesto modellato con rami di ulivo. Ecco che così avviene la resa finale, l’arricciamento. Consolazione finale dopo tanta pena. Alcuni pescatori tengono da parte il fegato, la malandra, pappata poi fritta.Dopo tanta crudità narrativa non poteva mancare la rilettura poetica del tutto, ben narrata da Vito Bellomo con la «malasorte du pupu barese». Posto che anche i bambini possono pescarlo armati della polparola, una lenza armata di un’esca che sa di gamberetto, così ce lo umanizza il poeta «il polpo, tenero di cuore, è del gambero innamorato tanto che, per pescarlo, non occorre tanta esperienza. Basta uno spago, un pezzo di gambero e tanta pazienza».
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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