2020-01-17
Due lettere potevano salvare Bettino. Ma sia Borrelli sia Ciampi non vollero
Don Verzè, fondatore del San Raffaele, tentò di riportare il leader socialista a curarsi nel proprio ospedale. Scrisse al procuratore e al presidente, che neanche rispose. L'impresa disperata dell'operazione in Tunisia.Bettino Craxi poteva essere salvato. Detto così si potrebbe pure girare la pagina, ma qui non vogliamo fare una fotografia politica, dipingere uno scenario da editoriale buttato giù vent'anni dopo aver visto quell'ultimo garofano, lanciato dalla figlia Stefania, galleggiare nelle acque del Mediterraneo piatto davanti al piccolo cimitero di Hammamet. Poteva essere salvato come uomo, come malato, con un briciolo di pietas. C'è un film che ne parla, c'è una memoria non ancora condivisa, c'è il sindaco di Milano Beppe Sala che non riesce neppure a mettere all'ordine del giorno del Consiglio comunale un dibattito sul personaggio. Eppure.Eppure poteva essere salvato e ci sono due lettere che testimoniano il tentativo di salvarlo di un prete visionario, fuori dagli schemi, don Luigi Verzé. Il fondatore del San Raffaele conosce bene la realtà italiana e il vento impetuoso di Mani pulite avendolo sperimentato anche in corsia; conosce bene le fragilità di una politica indebolita, resa quasi impotente dalle inchieste giudiziarie e dal massimalismo della piazza; conosce bene le condizioni di Craxi. La situazione generale è molto preoccupante, il diabete lo affligge, il cuore è molto affaticato e una brutta forma di tumore avanza. Lui sa che per tenerlo in vita bisogna farlo rientrare in Italia e ricoverarlo nel suo ospedale, eccellenza internazionale, il sogno realizzato della sua vita laggiù in quel pratone di Cimiano dove Milano diventa tangenziale. E dove un giorno vide salire due anatre dagli acquitrini e decise che avrebbe realizzato lì la sua impresa.Per la giustizia italiana Craxi è un latitante che disse: «O torno da uomo libero oppure muoio in esilio». Così don Verzé prende carta e penna e scrive al procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, diventato da poco procuratore generale. Fra i due c'erano stati scontri epici quando i pm (febbraio 1999) avevano arrestato alcuni primari dell'ospedale. Otto mesi dopo il sacerdote è vellutato. «Eccellenza, Craxi non sta bene, anzi sta piuttosto male. È da tempo, nella mia ignoranza, che avrei voluto chiederle quali, in termini di sua sicurezza personale, potrebbero essere le condizioni per portarlo al San Raffaele di Milano o di Roma. So di affidare questa mia domanda, impostami dal mio senso umano, al cuore di una personalità nella quale ho profonda fiducia. Sono a sua disposizione, solo occorre fare molto presto». Alla lettera lui allega un referto del medico curante del leader socialista, Ornella Melogli, persona stimata dallo stesso Borrelli. La risposta è pacata, scritta a mano, ma i codici e il burocratese non ammettono deroghe. «Signor Presidente, per le persone soggette a necessità di cure non praticabili in ambiente carcerario esistono gli istituti del rinvio dell'esecuzione della pena e della detenzione domiciliare. Ma la competenza appartiene al tribunale di sorveglianza, non già agli uffici del pubblico ministero. E comunque il rientro non volontario in Italia comporterebbe l'assoggettamento dell'onorevole Craxi ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui: due sentenze definitive di condanna e un'ordinanza di custodia cautelare (...). Dovrà l'interessato valutare il rischio che questo assoggettamento da virtuale divenga reale. Sarebbe opportuno che il problema, anziché essere affidato al clamore e alle approssimazioni della stampa e della Tv, fosse attentamente valutato sotto il profilo giuridico dai validi avvocati difensori di cui il personaggio dispone». È un diligente allineamento alla legge, Borrelli non può (e non vuole) garantire nulla. Don Verzé non si dà per vinto anche se rimane una sola strada percorribile: andare a operare Craxi in Tunisia. È la più pericolosa anche per una task force di specialisti, ma il 29 novembre l'équipe parte con il prete in testa su un aereo messo a disposizione da Silvio Berlusconi. È composta da Patrizio Rigatti (primario di urologia), dagli aiuti Giorgio Guazzoni e Luigi Broglia, dalla Melogli (diabetologa), più anestesista, ferrista e tecnico di sala operatoria. Il clima politico è pessimo, l'ondata giustizialista non si placa e nel giorno del viaggio al San Raffaele arrivano due telefonate minatorie. Il corto circuito ha prodotto un'Italia disumana perché ad Hammamet non c'è Satana, ma un uomo pubblico italiano che sta morendo davanti al mondo.L'intervento si fa nella stanza di un ospedale militare che somiglia a una caserma. Don Verzé consegna a Craxi un messaggio di papa Wojtyla, lui si commuove e affida al sacerdote una breve risposta per il pontefice: «Beatissimo Padre, soffro molto. E dono la mia vita per il bene del mio Paese. Mi benedica». L'intervento dura quattro ore e riesce, del contesto si sa tutto: luce fioca, lampade penzolanti dal soffitto, ambiente da trincea. Ma dopo qualche tempo di illusorio miglioramento il paziente peggiora, le condizioni generali diventano pessime. Allora don Verzé decide di riprendere la penna in mano e scrive al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. «Eccellentissimo Signor Presidente, come saprà questo istituto scientifico Ospedale San Raffaele si è fatto carico delle condizioni di salute dell'on. Craxi. Io stesso me ne sono voluto rendere conto de visu e in loco. Non sono né politico, né magistrato, sono sacerdote e cittadino di questo Paese. Le scrivo dunque in quanto coscienza civica e insieme cristiana. L'on. Craxi è condannato a morte vicina con due motivazioni. 1) Lo stato fisico di cui le allego la riservatissima e reale descrizione clinica (...). 2) L'atteggiamento di parte del suo Paese che gli pesa insopportabilmente, sottraendogli di conseguenza il locus inferioris resistentiae all'aggressione fisio-patologica (...). Questa mia lettera confidenziale non intende scaricare la mia coscienza di fronte alla storia di questo mio Paese. Sono pronto a servire e rimango quindi a sua disposizione». Una copia della lettera viene inviata a papa Giovanni Paolo II, è l'estremo appello di un uomo di fede. La risposta dal Quirinale alla missiva è il silenzio, ma attraverso una nota ufficiale si fa sapere che la posizione del capo dello Stato impone «il rispetto pieno, formale e sostanziale delle leggi e delle procedure». Il pomeriggio del 19 gennaio 2000 Stefania Craxi comunica in lacrime a don Luigi che suo padre è spirato. Lui annota sul diario del giorno che tiene da quando era bambino, la frase: «Sono gonfio di rabbia». Craxi continua a dormire il grande sonno in quel cimitero tunisino sulla spiaggia, con la tomba rivolta verso l'Italia.