Michele De Pascale (Ansa)
Creata dalla Regione una destinazione d’uso per inserire oneri aggiuntivi nel caso degli immobili destinati ad affitti brevi, ma la norma è a forte rischio incostituzionalità.
L’Emilia-Romagna bastona i proprietari di casa. È infatti durissima la reazione dei capigruppo di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e Rete civica alla legge regionale sugli affitti brevi approvata in Assemblea legislativa. In dettaglio, il progetto di legge proposto dalla giunta introduce nei piani urbanistici comunali una nuova destinazione d’uso, denominata «locazione breve», che ricade nella categoria turistica-ricettiva. L’obiettivo è quello di «distinguere gli immobili destinati a questo tipo di attività dal patrimonio abitativo ordinario».
La maggioranza di centrosinistra, sostengono i capigruppo, ha blindato il testo respingendo tutti gli emendamenti dell’opposizione, lasciando irrisolti i punti più controversi e aprendo la strada a un’applicazione disomogenea sul territorio.
Per Rete civica il problema centrale è la retroattività e la protezione dei diritti già maturati, soprattutto per chi opera nel rispetto degli adempimenti e del Cin. «Anche con gli emendamenti della maggioranza la retroattività non è stata tolta in modo inequivocabile», ha affermato Elena Ugolini, capogruppo di Rete civica. «Nella legge ci sono tanti punti contraddittori che genereranno sicuramente contenziosi proprio su un tema che la maggioranza aveva dichiarato di voler risolvere senza ambiguità», spiega.
Fratelli d’Italia allarga il tiro, contestando un impianto «frammentario» e l’uso di strumenti urbanistici per governare un fenomeno che, a loro giudizio, dovrebbe stare dentro una cornice turistica organica, con il rischio di contenziosi e di profili di illegittimità. «Siamo contrari a questa legge sia nel merito sia nel metodo: è un provvedimento confuso, inefficace e con profili di incostituzionalità», ha proseguito Marta Evangelisti di Fdi, «Serve una regolamentazione seria e organica, non interventi frammentari».
Forza Italia insiste sugli effetti economici e sociali: la distinzione tra uso abitativo e locazione breve introdurrebbe oneri aggiuntivi e una compressione indiretta della proprietà privata, senza che ciò produca automaticamente più affitti di lungo periodo; a pagare sarebbero soprattutto piccoli proprietari e l’indotto turistico. «Una legge debole nei presupposti, confusa negli strumenti e che avrà effetti nefasti su vari settori. Non tutela i piccoli proprietari, non favorisce il turismo e non risolve il problema abitativo», ha dichiarato per Forza Italia Pietro Vignali, «il testo prevede una compressione del diritto alla proprietà privata perché introduce una distinzione tra uso abitativo e locazione breve, attribuendovi oneri aggiuntivi».
La Lega, infine, attacca l’assenza di dati pubblici e di una valutazione d’impatto, rivendicando emendamenti «di salvaguardia» per chi già affitta e per gli alloggi messi a disposizione dalle aziende, tutti respinti. «Oggi la sinistra ci chiede di votare una legge senza numeri: senza una base conoscitiva chiara, senza dati pubblici a sostegno, senza una valutazione seria dell’impatto economico che avrà su chi guarda a questo tipo di affitti per integrare il reddito».
Del resto, questo è un periodo di caccia alle streghe per chi opera nelle locazioni brevi. Proprio martedì scorso la Corte costituzionale ha respinto diverse questioni di legittimità sollevate dal governo contro la legge della Toscana che riconosce a Regione e Comuni la competenza di regolamentare gli affitti brevi. Il pronunciamento è rilevante perché potrebbe fare da riferimento per altre amministrazioni locali e regionali in Italia che stanno valutando interventi analoghi.
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Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
In Francia e Germania crolla il consenso per gli aiuti. Il 75% dei tedeschi boccia Merz, fautore della «rapina» a Mosca, scongiurata ad alto prezzo. Solo la stampa loda Bruxelles. Che forse smetterà di sabotare il dialogo.
I 90 miliardi di prestito, anzi, di regalo all’Ucraina, poiché sono soldi che non rivedremo mai, rappresentano il prezzo da pagare per aver schivato la masochistica confisca degli asset russi congelati. La cupio dissolvi dell’Europa è una patologia talmente avanzata, da richiedere cure costosissime: 220 euro a testa, compresi i 3 miliardi di euro l’anno di interessi sulle obbligazioni emesse per finanziare Kiev, che inizieranno a gravare sul bilancio dell’Unione dal 2028. Il tutto, infrangendo un tabù - quello del debito comune - che era rimasto intangibile persino di fronte alle esigenze di finanziamento della sanità, delle pensioni e del welfare nel Vecchio continente. Il tutto, al solo scopo di tenere in piedi una nazione che ha perso la guerra e che, comunque, non ha risolto il problema del suo fabbisogno di cassa: nel 2026 le serviranno 71 miliardi, noi gliene garantiamo 45, ossia la metà della somma biennale stanziata dal Consiglio nella notte tra giovedì e venerdì. Volodymyr Zelensky, ieri, è stato chiaro: il denaro sarà restituito «solo se la Russia pagherà le riparazioni necessarie». A Roma direbbero: ciao, core…
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
Quando serviva spendere per sostenere la nostra economia, Bruxelles era per il «no». Adesso, tra nuovo debito e interessi, la Ue sborserà circa 100 miliardi in favore dell’Ucraina: una somma che dovremo versare noi per prestiti che non verranno mai restituiti.
Pare che l’accordo raggiunto dai vertici europei per finanziare l’Ucraina, e consentirle così di continuare la guerra contro i russi, abbia fatto contenti tutti. Festeggia sia chi non voleva abbandonare a sé stesso il Paese aggredito da Putin, sia chi temeva che l’uso delle riserve di Mosca congelate da quattro anni nelle banche occidentali si trasformasse in un boomerang. L’intesa raggiunta dai premier dei 27 Stati che compongono l’Unione consentirà a Kiev di ottenere 90 miliardi in due anni, una cifra che permetterà agli ucraini di sopravvivere, armarsi e resistere. Ma si tratta davvero della soluzione che ha consentito a chiunque di raggiungere il proprio scopo? Non direi. Perché è vero che non toccando gli asset di Mosca si è evitata la ritorsione sulle proprietà che le imprese occidentali ancora detengono in Russia. Ed è altrettanto certo che lasciando i miliardi di Putin nei caveau della società belga che li custodisce si è evitato un contenzioso giudiziario che, oltre ad andare avanti per anni, avrebbe minato alla radice la fiducia nei risparmiatori, in quanto avrebbe sancito il diritto a sequestrare e usare i fondi a prescindere dalle intenzioni dei legittimi proprietari. Chi si fiderà a lasciare in custodia il proprio oro e i propri depositi se il custode potrebbe non restituirli? E, soprattutto, qual è l’organismo terzo che può autorizzare a metter mano ai soldi lasciati in deposito?
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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