
Kate che ammette il fotoritocco non è solo gossip: testimonia l’istituzionalizzazione delle fake news. Iniziata durante il Covid.Si potrebbe quasi sorridere di Kate e William che taroccano la foto. Si potrebbe ridurre tutto a gossip, Royal Family e tabloid. Ci si potrebbe perfino divertire nell’immaginare il principe ereditario e la moglie impegnati a «fare editing sulle foto come tutti i fotografi amatoriali» (parole loro), piccoli pasticcioni incoronati, apprendisti stregoni alle prese con la magica alchimia delle foto ritoccate. Si potrebbero scegliere toni divertiti per commentare il ritorno di Kate in famiglia dopo l’operazione di gennaio, lei serena e sorridente circondata dai tre figli, foto diffusa per tranquillizzare tutti nel giorno in cui la Gran Bretagna celebra la festa della mamma, e poi ritirata di corsa dopo che è stata scoperta la manipolazione. Ma non c’è niente di divertente, in tutto ciò. E non solo perché si sta parlando di una persona malata. Perché si sta parlando, soprattutto, di un sistema malato. Un sistema in cui chi sta al potere usa la menzogna come strumento di comunicazione. E lo fa nei momenti più delicati. E lo fa sugli argomenti più sensibili. E lo fa sulle cose più care. Proprio perché, purtroppo, è abituato a farlo sempre. Non c’è bisogno di aver letto Hannah Arendt per sapere che il potere mente. Mente sempre. Mente con gusto. Mente sulla foto di Kate come sulle foto dall’Ucraina, mente sulla salute della principessa come sulla salute dei vaccinati. E quello che stupisce è che in tutto il dibattito che si è acceso in questi ultimi anni sulle famigerate fake news, con i comitati Ue anti fake news, le regole anti fake news, gli esperti anti fake news, il dito è sempre stato puntato contro la produzione dal basso di menzogne mentre il vero problema è la produzione dall’alto. Il problema è quando la menzogna non nasce sulla Rete, in modo improvvisato, ma cala giù dai piani superiori, direttamente dalle istituzioni, con il timbro in ceralacca, il via libera ufficiale. Il vero problema non è l’invasato di turno che spaccia la foto falsa dal suo social. Il vero problema è William che spaccia la foto falsa da Kensington Palace. Il vero problema è Mario Draghi che spaccia la notizia falsa («Chi si vaccina non si contagia») da Palazzo Chigi. Le fake news più pericolose sono quelle che arrivano dai palazzi del potere. Perché sono le più difficili da scoprire. Oddio, per scoprire quella di Kate non ci è voluto molto. Gli errori erano tali e tanti, pezzi di golfini mancanti, mani scombinate, capelli tranciati di netto, che le principali agenzie fotografiche hanno ritirato l’immagine dopo poche ore. Ma, attenzione: solo a quel punto, cioè solo dopo che l’inganno è stato smascherato, i principi hanno ammesso la manipolazione. E l’hanno fatto perché sono stati costretti. Perché sono stati presi con le mani nella marmellata fotografica. E questo, ovviamente, oltre a lasciare un segno pesante sulla credibilità della monarchia, già piuttosto traballante, fa sorgere domande più generali: a quanti altri «editing» più o meno amatoriali hanno sottoposto foto e notizie? Quante volte non sono stati scoperti? Quante manipolazioni ha fatto la monarchia? E quante gli altri potenti? Di foto ufficiali taroccate è piena la storia, purtroppo. Dal comizio di Lenin, da cui fu cancellato Trockij, alla presa di Berlino da parte dei russi, che fu resa assai più epica di quel che era; dall’eroico Mussolini a cavallo, cui fu tolto l’aiutante che teneva fermo il ronzino, al sigaro sparito dalla bocca di Churchill; dal ritratto ufficiale di Lincoln (la testa era la sua, il corpo di una persona più prestante) alle folle oceaniche inventate dal fotografo per compiacere Kim Jong-un, non c’è Paese o epoca storica in cui i potenti non si siano fatti attrarre dall’editing delle foto. Ma, nonostante i mezzi tecnici meno adeguati, erano più difficili da scoprire perché se non altro, ci si affidava a professionisti. C’era in qualche modo un certo rispetto per quelli che venivano ingannati. I principi no. Non hanno avuto alcun rispetto. Hanno taroccato in modo «amatoriale» e plateale, con una spudoratezza da far paura. E quando sono stati scoperti hanno continuato a nascondere la verità. La foto vera, infatti, nonostante le esplicite richieste, non è stata ancora pubblicata.Il potere mente sempre, è vero. Ma l’arroganza del potere nel mentire non è mai stata così evidente e spudorata. Lo abbiamo visto, purtroppo, anche nei due eventi tragici che hanno contraddistinto gli ultimi anni. Per esempio: quando scoppiò la pandemia, nelle sedi istituzionali si sapeva che a Wuhan poteva esserci stata la fuga del virus dal laboratorio, ma si è imposto con fake news di dire il contrario. Poi nelle sedi istituzionali si sapeva che per il Covid c’erano cure alternative al vaccino ma si è imposto, con fake news, di dire il contrario, mettendo a tacere i vari professor Giuseppe De Donno che si ribellavano. E poi ancora nelle sedi istituzionali si sapeva che vaccinandosi non si sarebbe evitato il contagio, ma si è imposto con fake news di dire il contrario, persino nelle conferenze stampa ufficiali del già citato presidente del Consiglio, Mario Draghi. Lo stesso è successo con la guerra in Ucraina. Come quel mattino che ci siamo svegliati con la certezza dell’incidente nucleare alla centrale di Zaporizhzhia, ma non era vero: fake news istituzionale. Così come quando ci hanno raccontato che la strage al mercato di Kostiantynivka era stata provocata da un attacco russo, ma non era vero: fake news istituzionale. O come quando ci hanno raccontato che il gasdotto nel Mar Baltico era stato sabotato dai russi, ma non era vero: fake news istituzionale.Per questo il «tarocco» di Kate e William non può essere ridotto a mero gossip. Per questo non si può sorridere dei principi che giocano al «piccolo fotografo», che si trasformano in sfortunati maghetti della camera oscura. Perché questa vicenda dimostra che il potere, che da sempre mente, mai lo ha fatto in modo così plateale, con tanta arroganza e tanta spavalderia. Pensano di poter dire quello che vogliono solo perché lo dicono da un trono, più o meno regale. E non hanno capito che la gente si è un po’ stancata di farsi prendere per i fondelli. Dalle teste coronate. E non solo da loro.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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