Mosca minaccia di non fornire più cereali ai Paesi ostili. Intanto si sveglia persino Confindustria: «Bolletta energetica insostenibile per le imprese, si fermano le produzioni». Ci vorrebbe un fondo europeo d’emergenza rapido. Ma la Commissione e la Bce latitano.
Mosca minaccia di non fornire più cereali ai Paesi ostili. Intanto si sveglia persino Confindustria: «Bolletta energetica insostenibile per le imprese, si fermano le produzioni». Ci vorrebbe un fondo europeo d’emergenza rapido. Ma la Commissione e la Bce latitano.È la battaglia del grano. Si rischia che il conflitto esondi dal teatro ucraino e diventi una guerra per fame. Gli osservatori non tengono conto che la Turchia, che si candida a paciere, dipende per il 67% del suo pane da Mosca, lo stesso vale per la Cina. Mentre l’Europa con Ursula Von der Leyen fa la faccia dura, la «convenienza alimentare» fa premio sui principi. Siamo tornati al Conte Ugolino: più dell’onor poté il digiuno. Anche Joe Biden ha tentennato sulle sanzioni agricole quando gli hanno spiegato che se Vladimir Putin blocca l’esportazione dei fertilizzanti (la Russia è il primo produttore sia di urea che di potassio) anche il grano americano non cresce. Quanto all’Italia, il problema non è di scarsità (dalla Russia compriamo 153.000 tonnellate tra frumento e grano duro) quanto di esplosione di prezzi. Putin aveva già annunciato il 10 marzo le contro-sanzioni: stop a forniture di acciaio, di metalli, di zucchero, di cereali e fertilizzanti ai Paesi ostili. Come per il gas si era pensato a un effetto annuncio. Ma con l’agricoltura la faccenda è un po’ diversa. Gli analisti non sanno valutare bene le conseguenze. Ieri il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni, in quota Pd, ha liquidato così la faccenda: «Non ha grandi conseguenze sulla sicurezza alimentare europea, potrebbe avere un influsso più problematico sui prezzi e in Africa». Le cose non stanno esattamente così. Oggi Putin può condurre la sua minaccia per tre ragioni: dal grano russo dipende il mercato mondiale dei cereali visto che in questo caso la superpotenza è Mosca e non Washington; non siamo in epoca di raccolta, mentre già si sono fatte le semine e se l’Ucraina - ha in coltivazione oggi solo 7 milioni di ettari contro i 15 consueti - non produce, la crisi alimentare diventa drammatica; le scorte mondiali, comprese quelle della Fao, che servono a sfamare i Paesi più poveri, sono sotto il livello di guardia e a rifornirle sono sostanzialmente solo due «granai» quello di Kiev e quello di Mosca. C’è poi una quarta ragione da tenere in conto: gli andamenti climatici nel resto del mondo non consentono ai grandi produttori di avere margini per compensare il mancato apporto della produzione ucraina e l’eventuale chiusura dell’export russo. Insomma, se con il gas si possono trovare alternative, con il grano o c’è o non c’è, e per averlo bisogna aspettare un anno. La faccenda è diventata terribilmente complicata perché, ieri, Dmitry Medvedev, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, ha ripetuto: «Venderemo cibo e prodotti agricoli solo ai Paesi amici. Fortunatamente ne abbiamo molti e non sono in Europa e Nord America. Non forniremo i nostri prodotti agricoli ai nostri nemici, da cui non compreremo nulla». Stando ai riflessi italiani - come certifica la Coldiretti - noi importiamo solo il 2,3% del nostro fabbisogno da Mosca anche se i prezzi sia del frumento che del grano duro si sono infiammati a causa del conflitto. Metà del grano che ci serve (è circa il 50% del nostro fabbisogno) lo compriamo da Ungheria e Romania, che già nelle scorse settimane - senza che Bruxelles battesse ciglio nonostante quei Paesi beneficino dei contributi agricoli europei - hanno provato a bloccare le esportazioni per lucrare sui differenziali di prezzo. Basta guardare a cosa capita nei nostri negozi. In un mese - da febbraio a marzo - l’Istat ha registrato un aumento medio del pane del 5,8% e della pasta del 13%. Il frumento è quotato oltre 426 euro a tonnellata (un anno fa era a 241), il grano duro sta a 519,50 euro (un anno fa era a 291). Questi prezzi sono destinati a salire ancora. I listini dei cereali ormai sono più sensibili di quelli di Borsa alle variazioni del clima di guerra. L’Europa - che anche di fronte a questa emergenza non rinuncia all’idea che agricoltura e ambiente siano incompatibili e dunque vuole produrre di meno - ha lasciato che Ucraina e Russia fossero i primi operatori del mondo sui cereali. Da loro dipende un quarto dell’export. Se Putin chiude i granai lo shock è devastante. Perciò Denys Shmyhal, primo ministro ucraino, accusa Mosca di tenere bloccate nel mar nero 94 navi cariche di grano e olio di girasole e di voler distruggere i granai ucraini. Mosca può giocarsi la carta del frumento su tutto lo scacchiere mondiale. Dalla sua produzione dipende l’Egitto (compra il 60% di grano da Mosca e il 24% da Kiev) ed oggi è in gravissima difficoltà. Il pane a Il Cairo è già aumentato del 50%. Tutta l’area mediorientale dipende dal grano russo in particolare l’Algeria, ed ecco che chi va sperando di trovare gas da quelle parti deve saperlo. Il Libano è già quasi alla fame, così tutto il corno d’Africa e in parte l’Indonesia. Se l’Occidente cerca alleanze in quei Paesi, è bene che ci ripensi. Ma l’aspetto diplomatico più interessante riguarda la Turchia. Ankara è il secondo importatore di cereali al mondo e il 67% delle sue forniture viene dalla Russia (dall’Ucraina compra solo l’11%). Forse conviene domandarsi se le trattative che Recep Erdogan sta portando avanti sono nell’interesse della Nato o per evitare la rivolta del pane. Non aver considerato la variabile frumento è probabilmente un marchiano errore strategico. Perché c’è un’altra sponda che Putin tiene aperta grazie alla sua farina: è quella della Cina. Xi Jinping da mesi sta stoccando mais e grano (e questo ha infiammato i prezzi ben prima dell’invasione dell’Ucraina) ed è il primo cliente di Mosca. Anche questa «diplomazia della trebbiatrice» dovrebbe aver consigliato a Ursula Von der Leyen più cautela nel rimproverare Pechino. Non tutti sono pronti a stare al freddo e a dieta per i principi. Stavolta Putin ,giocando sulla fame, può infiammare il mondo. Se i Paesi più poveri non avranno accesso al cibo causa rialzo dei prezzi, il livello dello scontro potrebbe sì diventare mondiale.
Donald Trump (Ansa)
Luci e ombre nel primo anniversario della rielezione alla Casa Bianca: promosso in Medio Oriente, rimandato sull’Ucraina. Borsa ai massimi ma «sopravvalutata». L’inflazione cresce e la Fed mantiene i tassi alti. Stallo record sulla legge di bilancio.
Gli elettori della Virginia chiamati a scegliere il nuovo governatore si sono espressi: «Trump you are fired! (sei licenziato, ndr). In uno stato però tendenzialmente blu, che nel 2024 aveva scelto Kamala Harris. E confermando il trend, ha optato per la democratica Spanberger. Sebbene il governatore uscente fosse repubblicano. Colpa dello shutdown a detta di molti. Cosa sia lo vedremo alla fine. E comunque negli ultimi 20 anni i democratici alla guida della Virginia sono stati scelti cinque volte su sette. Ma al netto delle elezioni in Virginia, e dando per scontato che la città di New York e lo Stato del New Jersey votassero democratico (per intendersi sono un po’ come Bologna e la Toscana per il Pd), a un anno esatto dalla sua rielezione alla Casa Bianca qual è il bilancio della seconda presidenza Trump?
Buchi nella sicurezza, errori di pianificazione e forse una o più talpe interne. Questi i fattori che hanno sfruttato i ladri che hanno colpito al Louvre di Parigi. Ma dove sono i gioielli e chi sono i responsabili?
Elly Schlein (Ansa)
Nicola Fratoianni lo chiama per nome, Elly Schlein vi vede una «speranza», Stefano Patuanelli rilancia la patrimoniale.
Brutte notizie per Gaetano Manfredi, Silvia Salis, Ernesto Maria Ruffini e tutti gli altri aspiranti (o presunti tali) federatori del centrosinistra: il campo largo italiano ha trovato il suo nuovo leader. Si chiama Zohran Mamdani, ha 34 anni, è il nuovo sindaco di New York, che del resto si trova sullo stesso parallelo di Napoli. La sua vittoria ha mandato in solluchero i leader (o sedicenti tali) della sinistra italiana, che vedono nel successo di Mamdani, non si riesce bene a capire per quale motivo, «una scintilla di speranza» (Alessandro Alfieri, senatore Pd). Ora, possiamo capire che l’odio (si può dire odio?) della sinistra italiana per Donald Trump giustifichi il piacere di vedere sconfitto il tycoon, ma a leggere le dichiarazioni di ieri sembra che il giovane neo sindaco di New York le elezioni le abbia vinte in Italia.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 6 novembre con Carlo Cambi






