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2025-07-01
Donald in pressing su Israele per la tregua a Gaza. Eliminate le sanzioni alla Siria
Ansa
Donald Trump continua a muoversi tra la crisi di Gaza e il nucleare iraniano. Due dossier, la cui risoluzione potrebbe portare al principale obiettivo accarezzato dalla Casa Bianca: il rilancio degli Accordi di Abramo. La situazione resta comunque per ora incerta.
Le relazioni tra Trump e Teheran si mantengono infatti abbastanza fredde. L’altro ieri, l’ambasciatore dell’Iran presso le Nazioni Unite, Amir-Saeid Iravani, ha escluso che il regime khomeinista possa rinunciare all’arricchimento dell’uranio. «L’arricchimento è un nostro diritto, un diritto inalienabile, e vogliamo attuarlo. Credo che l’arricchimento non si fermerà mai», ha affermato, contraddicendo così quelli che sono i desiderata della Casa Bianca. Non solo. Fox News ha riportato che, domenica, l’ayatollah iraniano, Naser Makarem Shirazi, avrebbe emesso una fatwa contro Benjamin Netanyahu e lo stesso Trump. Un Trump che, dal canto suo, ha negato di aver «offerto» qualcosa agli iraniani per farli tornare a negoziare. «Non sto nemmeno parlando con loro dal momento che abbiamo completamente distrutto i loro impianti nucleari», ha specificato, rivendicando inoltre di non aver assunto la politica adottata da Barack Obama nel 2015 per arrivare al Jcpoa.
Dall’altra parte, la Casa Bianca continua a esercitare pressioni su Netanyahu, affinché si possa chiudere la guerra a Gaza nei prossimi giorni. Il punto è che il premier israeliano sta incontrando delle difficoltà nel far digerire la richiesta all’ala destra della sua coalizione di governo: proprio ieri, sia il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, sia quello della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, si sono detti esplicitamente contrari a una tregua. Eppure, in quelle stesse ore, un funzionario israeliano ha rivelato che «Israele potrebbe ampliare l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza nel prossimo futuro, come parte di un piano più ampio e vasto». Ciò significa che nel governo di Netanyahu si sta registrando un dibattito serrato sulla questione della Striscia. E infatti il premier israeliano aveva convocato nuovamente il gabinetto dei ministri ieri sera, per cercare di superare le divisioni su questo dossier. Nel frattempo, il Qatar ha riferito che sono in corso tentativi per riprendere i negoziati in vista di un cessate il fuoco. «Non sono in corso colloqui per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, ma piuttosto contatti volti a elaborare un quadro che consenta la ripresa dei negoziati», ha affermato il ministero degli Esteri di Doha.
È in questo quadro che, sempre ieri, era atteso a Washington il ministro per gli Affari strategici israeliano Ron Dermer: fonti statunitensi hanno riferito al Times of Israel che l’amministrazione Trump ha intenzione di premere, durante i colloqui con lui, per arrivare rapidamente a una tregua. Al contempo, Dermer dovrebbe chiedere agli americani di intervenire sul Qatar affinché faccia a sua volta pressione su Hamas. È anche probabile che Dermer cercherà di aprire la strada a una visita nella capitale statunitense dello stesso Netanyahu: una visita che, secondo fonti diplomatiche israeliane, potrebbe avvenire già la prossima settimana. Non solo. Sul tavolo dei colloqui potrebbero esserci anche gli Accordi di Abramo, visto che, domenica, Trump in persona aveva detto che vari Paesi sarebbero pronti ad aderirvi. Ieri, oltre ad auspicare un trattato di pace con il Libano, il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa'ar, ha dichiarato che, in un’eventuale normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Damasco, «le alture del Golan rimarranno parte dello Stato di Israele». È pur vero che, secondo il quotidiano libanese Al-Akhbar, all’interno dell’attuale regime siriano non si registrerebbe un consenso unanime sulla necessità di formalizzare una distensione con lo Stato ebraico. Tuttavia, un funzionario israeliano, ieri, ha rivelato che Gerusalemme e Damasco starebbero tenendo dei «colloqui avanzati» per un’eventuale intesa bilaterale in materia di sicurezza: un’intesa che, se si concretizzasse, potrebbe avvicinare la Siria agli Accordi di Abramo. Non a caso, sempre ieri, la Casa Bianca ha confermato che Trump fosse pronto a firmare un ordine esecutivo volto a porre fine alle sanzioni a Damasco.
Chiaramente, agli occhi del presidente americano, chiudere la guerra a Gaza e scongiurare l’arricchimento dell’uranio iraniano rappresentano due precondizioni essenziali per arrivare a un rilancio degli Accordi di Abramo. È per questa ragione che sta agendo contemporaneamente su entrambi i tavoli. Hamas è storicamente spalleggiata da Teheran, mentre sia gli israeliani che i sauditi temono lo scenario di un regime khomeinista con la bomba atomica in mano. Ieri, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno inoltre emesso una dichiarazione congiunta, condannando le «minacce» iraniane al direttore dell’Aiea Rafael Grossi e intimando a Teheran di «ripristinare immediatamente la piena cooperazione» con l’agenzia dell’Onu: una cooperazione che, nei giorni scorsi, era stata auspicata anche da Washington e Mosca. Sullo sfondo, ma neanche troppo, si staglia infine la questione della ricostruzione di Gaza: un dossier a cui sono notevolmente interessati non soltanto i sauditi e gli israeliani, ma anche gli americani e i russi. Un dossier che si lega a sua volta al rilancio degli Accordi di Abramo.
Sumy circondata da 50.000 russi. Kiev nega: «Putin sta fallendo»
Continua l’avanzata russa in Ucraina: le forze armate di Mosca, sfruttando la superiorità numerica, sarebbero già schierati alle porte di Sumy. A riportarlo è il Wall street journal, secondo cui sono 50.000 i soldati russi stanziati a soli 19 chilometri dal capoluogo nordorientale ucraino, con un rapporto di tre a uno rispetto alle truppe di Kiev.
D’altro canto, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha già firmato il decreto per uscire dalla Convenzione di Ottawa sulle mine anti uomo, ha cercato di minimizzare le criticità, sostenendo che «il piano offensivo della Russia per la regione di Sumy sta fallendo e questo grazie a tutte le unità ucraine che operano in quella direzione». E ha aggiunto che prossimamente contatterà i leader europei riguardo a «ulteriori finanziamenti per la produzione di droni» nonché «per la produzione congiunta».
Invece l’entrata russa a Dnipropetrovsk si tinge di giallo. L’agenzia di stampa russa Ria Novasti aveva riportato le indiscrezioni secondo cui i soldati di Mosca avevano conquistato il villaggio di Dachne, all’interno della regione. Poco dopo però Kiev ha smentito, sostenendo che in realtà «non ci sia alcuna svolta», pur ammettendo che «i combattimenti sono in corso vicino al confine amministrativo».
Ma oltre al fronte di guerra, una fase critica avvolge lo stesso esecutivo ucraino: si susseguono voci sempre più insistenti di un possibile rimpasto, stando a quanto reso noto dai media ucraini. Sarebbero vicine, infatti, le dimissioni del primo ministro ucraino, Denys Shmyhal, oltre a quelle di altre figure del governo. Ad avvalorare l’ipotesi è anche la presenza di Zelensky a Roma il prossimo 10 e 11 luglio per la Conferenza della ricostruzione: accanto a lui non ci sarà Shmyhal, ma il vicepremier, Yulia Svyrydenko, considerata la potenziale sostituta.
Intanto, nel tentativo di far assumere a Kiev una posizione più forte al tavolo dei negoziati, ieri nella capitale ucraina è arrivato il ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, insieme agli esponenti dell’industria della difesa di Berlino. «Vogliamo creare una joint venture affinché l’Ucraina possa produrre più rapidamente e in quantità maggiore per la propria difesa», visto che la collaborazione tra i due Paesi «è una carta vincente» in «materia di armamenti» ha annunciato il capo diplomatico tedesco, che si è poi incontrato con il presidente ucraino. Sempre la Germania prevede che il diciottesimo pacchetto di misure di Bruxelles contro Mosca sarà adottato questa settimana, mentre è diventata ufficiale la proroga di sei mesi delle sanzioni dell’Ue contro la Russia, che saranno quindi in vigore fino al 31 gennaio del 2026.
Si inserisce invece un altro elemento di tensione nel rapporto altalenante tra Mosca e Washington. L’ultimo caso riguarda il senatore repubblicano statunitense, Lindsey Graham, promotore di un disegno di legge che ha nel mirino la Russia: prevede infatti l’imposizione di tariffe del 500% verso Paesi che comprano il petrolio russo. E secondo le stesse affermazioni del senatore, il presidente americano, Donald Trump, sarebbe favorevole a sottoporlo a votazione. Mosca ha risposto subito piccata, con il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha puntato il dito contro Graham: «Egli appartiene a un gruppo di russofobici cronici. Se fosse per lui, queste sanzioni sarebbero state imposte molto tempo fa». C’è però grande attesa riguardo alla terza fase di negoziati, con il portavoce russo che ha sottolineato che Mosca spera «in un chiarimento sulla data del terzo round entro pochi giorni».
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Trump lavora per rilanciare gli Accordi di Abramo e spinge Bibi a fermare la guerra. Ma l’ultradestra si oppone. L’Iran ribadisce: il programma nucleare non si fermerà.Voci di possibile rimpasto nel governo ucraino. Zelensky a Roma il 10 e 11 luglio. Lo speciale contiene due articoli.Donald Trump continua a muoversi tra la crisi di Gaza e il nucleare iraniano. Due dossier, la cui risoluzione potrebbe portare al principale obiettivo accarezzato dalla Casa Bianca: il rilancio degli Accordi di Abramo. La situazione resta comunque per ora incerta.Le relazioni tra Trump e Teheran si mantengono infatti abbastanza fredde. L’altro ieri, l’ambasciatore dell’Iran presso le Nazioni Unite, Amir-Saeid Iravani, ha escluso che il regime khomeinista possa rinunciare all’arricchimento dell’uranio. «L’arricchimento è un nostro diritto, un diritto inalienabile, e vogliamo attuarlo. Credo che l’arricchimento non si fermerà mai», ha affermato, contraddicendo così quelli che sono i desiderata della Casa Bianca. Non solo. Fox News ha riportato che, domenica, l’ayatollah iraniano, Naser Makarem Shirazi, avrebbe emesso una fatwa contro Benjamin Netanyahu e lo stesso Trump. Un Trump che, dal canto suo, ha negato di aver «offerto» qualcosa agli iraniani per farli tornare a negoziare. «Non sto nemmeno parlando con loro dal momento che abbiamo completamente distrutto i loro impianti nucleari», ha specificato, rivendicando inoltre di non aver assunto la politica adottata da Barack Obama nel 2015 per arrivare al Jcpoa.Dall’altra parte, la Casa Bianca continua a esercitare pressioni su Netanyahu, affinché si possa chiudere la guerra a Gaza nei prossimi giorni. Il punto è che il premier israeliano sta incontrando delle difficoltà nel far digerire la richiesta all’ala destra della sua coalizione di governo: proprio ieri, sia il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, sia quello della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, si sono detti esplicitamente contrari a una tregua. Eppure, in quelle stesse ore, un funzionario israeliano ha rivelato che «Israele potrebbe ampliare l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza nel prossimo futuro, come parte di un piano più ampio e vasto». Ciò significa che nel governo di Netanyahu si sta registrando un dibattito serrato sulla questione della Striscia. E infatti il premier israeliano aveva convocato nuovamente il gabinetto dei ministri ieri sera, per cercare di superare le divisioni su questo dossier. Nel frattempo, il Qatar ha riferito che sono in corso tentativi per riprendere i negoziati in vista di un cessate il fuoco. «Non sono in corso colloqui per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, ma piuttosto contatti volti a elaborare un quadro che consenta la ripresa dei negoziati», ha affermato il ministero degli Esteri di Doha.È in questo quadro che, sempre ieri, era atteso a Washington il ministro per gli Affari strategici israeliano Ron Dermer: fonti statunitensi hanno riferito al Times of Israel che l’amministrazione Trump ha intenzione di premere, durante i colloqui con lui, per arrivare rapidamente a una tregua. Al contempo, Dermer dovrebbe chiedere agli americani di intervenire sul Qatar affinché faccia a sua volta pressione su Hamas. È anche probabile che Dermer cercherà di aprire la strada a una visita nella capitale statunitense dello stesso Netanyahu: una visita che, secondo fonti diplomatiche israeliane, potrebbe avvenire già la prossima settimana. Non solo. Sul tavolo dei colloqui potrebbero esserci anche gli Accordi di Abramo, visto che, domenica, Trump in persona aveva detto che vari Paesi sarebbero pronti ad aderirvi. Ieri, oltre ad auspicare un trattato di pace con il Libano, il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa'ar, ha dichiarato che, in un’eventuale normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Damasco, «le alture del Golan rimarranno parte dello Stato di Israele». È pur vero che, secondo il quotidiano libanese Al-Akhbar, all’interno dell’attuale regime siriano non si registrerebbe un consenso unanime sulla necessità di formalizzare una distensione con lo Stato ebraico. Tuttavia, un funzionario israeliano, ieri, ha rivelato che Gerusalemme e Damasco starebbero tenendo dei «colloqui avanzati» per un’eventuale intesa bilaterale in materia di sicurezza: un’intesa che, se si concretizzasse, potrebbe avvicinare la Siria agli Accordi di Abramo. Non a caso, sempre ieri, la Casa Bianca ha confermato che Trump fosse pronto a firmare un ordine esecutivo volto a porre fine alle sanzioni a Damasco.Chiaramente, agli occhi del presidente americano, chiudere la guerra a Gaza e scongiurare l’arricchimento dell’uranio iraniano rappresentano due precondizioni essenziali per arrivare a un rilancio degli Accordi di Abramo. È per questa ragione che sta agendo contemporaneamente su entrambi i tavoli. Hamas è storicamente spalleggiata da Teheran, mentre sia gli israeliani che i sauditi temono lo scenario di un regime khomeinista con la bomba atomica in mano. Ieri, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno inoltre emesso una dichiarazione congiunta, condannando le «minacce» iraniane al direttore dell’Aiea Rafael Grossi e intimando a Teheran di «ripristinare immediatamente la piena cooperazione» con l’agenzia dell’Onu: una cooperazione che, nei giorni scorsi, era stata auspicata anche da Washington e Mosca. Sullo sfondo, ma neanche troppo, si staglia infine la questione della ricostruzione di Gaza: un dossier a cui sono notevolmente interessati non soltanto i sauditi e gli israeliani, ma anche gli americani e i russi. Un dossier che si lega a sua volta al rilancio degli Accordi di Abramo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/donald-in-pressing-su-israele-2672516830.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sumy-circondata-da-50-000-russi-kiev-nega-putin-sta-fallendo" data-post-id="2672516830" data-published-at="1751389335" data-use-pagination="False"> Sumy circondata da 50.000 russi. Kiev nega: «Putin sta fallendo» Continua l’avanzata russa in Ucraina: le forze armate di Mosca, sfruttando la superiorità numerica, sarebbero già schierati alle porte di Sumy. A riportarlo è il Wall street journal, secondo cui sono 50.000 i soldati russi stanziati a soli 19 chilometri dal capoluogo nordorientale ucraino, con un rapporto di tre a uno rispetto alle truppe di Kiev.D’altro canto, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha già firmato il decreto per uscire dalla Convenzione di Ottawa sulle mine anti uomo, ha cercato di minimizzare le criticità, sostenendo che «il piano offensivo della Russia per la regione di Sumy sta fallendo e questo grazie a tutte le unità ucraine che operano in quella direzione». E ha aggiunto che prossimamente contatterà i leader europei riguardo a «ulteriori finanziamenti per la produzione di droni» nonché «per la produzione congiunta». Invece l’entrata russa a Dnipropetrovsk si tinge di giallo. L’agenzia di stampa russa Ria Novasti aveva riportato le indiscrezioni secondo cui i soldati di Mosca avevano conquistato il villaggio di Dachne, all’interno della regione. Poco dopo però Kiev ha smentito, sostenendo che in realtà «non ci sia alcuna svolta», pur ammettendo che «i combattimenti sono in corso vicino al confine amministrativo». Ma oltre al fronte di guerra, una fase critica avvolge lo stesso esecutivo ucraino: si susseguono voci sempre più insistenti di un possibile rimpasto, stando a quanto reso noto dai media ucraini. Sarebbero vicine, infatti, le dimissioni del primo ministro ucraino, Denys Shmyhal, oltre a quelle di altre figure del governo. Ad avvalorare l’ipotesi è anche la presenza di Zelensky a Roma il prossimo 10 e 11 luglio per la Conferenza della ricostruzione: accanto a lui non ci sarà Shmyhal, ma il vicepremier, Yulia Svyrydenko, considerata la potenziale sostituta. Intanto, nel tentativo di far assumere a Kiev una posizione più forte al tavolo dei negoziati, ieri nella capitale ucraina è arrivato il ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, insieme agli esponenti dell’industria della difesa di Berlino. «Vogliamo creare una joint venture affinché l’Ucraina possa produrre più rapidamente e in quantità maggiore per la propria difesa», visto che la collaborazione tra i due Paesi «è una carta vincente» in «materia di armamenti» ha annunciato il capo diplomatico tedesco, che si è poi incontrato con il presidente ucraino. Sempre la Germania prevede che il diciottesimo pacchetto di misure di Bruxelles contro Mosca sarà adottato questa settimana, mentre è diventata ufficiale la proroga di sei mesi delle sanzioni dell’Ue contro la Russia, che saranno quindi in vigore fino al 31 gennaio del 2026. Si inserisce invece un altro elemento di tensione nel rapporto altalenante tra Mosca e Washington. L’ultimo caso riguarda il senatore repubblicano statunitense, Lindsey Graham, promotore di un disegno di legge che ha nel mirino la Russia: prevede infatti l’imposizione di tariffe del 500% verso Paesi che comprano il petrolio russo. E secondo le stesse affermazioni del senatore, il presidente americano, Donald Trump, sarebbe favorevole a sottoporlo a votazione. Mosca ha risposto subito piccata, con il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha puntato il dito contro Graham: «Egli appartiene a un gruppo di russofobici cronici. Se fosse per lui, queste sanzioni sarebbero state imposte molto tempo fa». C’è però grande attesa riguardo alla terza fase di negoziati, con il portavoce russo che ha sottolineato che Mosca spera «in un chiarimento sulla data del terzo round entro pochi giorni».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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