2018-11-29
Di Maio senior non assolve Renzi e la Boschi
Il leader grillino ha chiarito che non era a conoscenza di abusi nell'azienda del padre. La vicenda comunque non è paragonabile a quelle targate Pd. Nei casi Consip e Banca Etruria i problemi dei «babbi di» sono entrati a Palazzo Chigi con figli e amici.Luigi Di Maio non ha lavorato in nero nell'azienda di suo padre. Era regolarmente assunto, 981 euro al mese in busta paga. Lo ha dimostrato ieri pubblicando tutti i documenti su Internet. E tanta trasparenza gli fa onore perché la questione sollevata martedì sera dalla trasmissione tv delle Iene era tutt'altro che irrilevante. Così come non è irrilevante sapere se, quando nel 2013 è diventato socio al 50% nell'azienda di suo padre, era a conoscenza del fatto che ci fossero delle cause con ex dipendenti per lavoro nero. Non si tratta di dettagli della vita privata né di gossip: sono, invece, una faccenda seria. E come tale infatti anche il vicepremier l'ha trattata fin dal primo momento. Questo, va detto, gli fa onore, pur restando un dubbio irrisolto: ma perché non ha ceduto quella partecipazione nell'azienda paterna nel momento esatto in cui è diventato ministro?In ogni caso, il lavoro nero non è uno scherzo. Mai. Tanto meno se in ballo ci sono infortuni. Tanto meno tanto meno (due volte) se riguarda la famiglia del ministro del Lavoro. Quante volte, negli ultimi mesi, abbiamo affrontato il tema degli irregolari, soprattutto al Sud, magari legandolo proprio al reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia di Di Maio al governo? Il ministro del Lavoro su questi temi ha poteri ispettivi. Propone leggi. Fa decreti. Porta avanti iniziative che inevitabilmente vanno a incrociare con la regolarità o meno delle prestazioni professionali. Non può in alcun modo essere considerato inutile o secondario sapere se, nel suo armadio o in quello della sua famiglia, ci sono scheletri relativi a un argomento di cui deve occuparsi in sede istituzionale.Lo diciamo perché nelle ultime ore è cresciuto il coro delle Badesse del Pofferbacco, vestali di una politica presunta alta, che fingono di scandalizzarsi davanti a queste denunce come verginelle improvvisamente catapultate alla prima del film Io speriamo che me la chiavo. Le avete sentite anche voi in tv? Li avete letti sui giornali? Ma no, ma dai, ma insomma, signora mia, così non si fa, dove siamo arrivati, giù le mani dai papà, i papà sono sacri, le mamme figuriamoci, le colpe dei genitori non ricadono sui figli. Ecco: se avessimo messo una tassa sulla frase «le colpe dei padri non ricadono sui figli» in queste ore avremmo già trovato il modo di soddisfare Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici senza modificare la manovra.Ma è una stupidaggine. Perché quelle che si imputano ai figli non sono le colpe dei padri. Ma i comportamenti che essi possono avere, se fanno politica, in conseguenza alla colpe dei padri. Per chiarirci: nessuno può ovviamente pensare che Di Maio sia responsabile del fatto che il padre facesse lavorare in nero chicchesia, ma è responsabile delle sue eventuali azioni nell'azienda del padre (per il passato) e di quello che (nel presente) potrebbe fare come ministro relativamente alle aziende del padre. Il tema è lui, chiaro? Per questo i cittadini devono sapere, per questo Le Iene hanno fatto benissimo a fare l'inchiesta e per questo Di Maio ha fatto benissimo a reagire come ha reagito, senza trincerarsi dietro barriere e silenzi. Con la massima trasparenza.Lo diciamo per ribadire che non è sbagliato il clamore mediatico di oggi. È sbagliato, piuttosto, il silenzio generale di ieri. Dov'erano tutti quelli che si scatenano ora con Di Maio quando al centro dello scandalo c'erano i papà di Maria Elena Boschi e di Matteo Renzi? Perché tacevano? Perché quelle inchieste sono state portate avanti solo da pochissimi (fra cui questo quotidiano) nell'imbarazzo di tutti gli altri? E dire che le accuse, in quelle vicende, erano ancora più gravi rispetto a quella di oggi. Infatti finora nessuno ha mostrato responsabilità personali di Di Maio né il ministro ha organizzato vertici segreti, cene riservate o fughe di notizie per bloccare le inchieste. Al contrario la Boschi, mentre la banca di suo padre stava facendo crac a danno dei risparmiatori, andava in giro a parlare con i vertici degli organismi di controllo (Consob e Bankitalia), oltre che con responsabili di altre banche (e lo faceva da ministro, pur non avendone la competenza). E Luca Lotti, il più fedele amico di Renzi, mentre il babbo di quest'ultimo era sotto inchiesta per il maxi appalto Consip, avrebbe favorito (così dice l'accusa) la fuga di notizie che di fatto rese vana quell'indagine.Voi capite che la differenza è enorme. E dunque è una balla sesquipedale quella che viene continuamente ripetuta come verità assoluta, per cui non bisogna perdere tempo con queste storie perché le «colpe dei padri non ricadono sui figli». Se mio padre è vicepresidente di una banca in via di fallimento, e io parlo di quella banca nella mia veste di ministro con figure istituzionali, e magari faccio parte di governi che su quelle banche legiferano, il problema non è il padre: sono io. E se mio padre è implicato in un'inchiesta su un maxi appalto pubblico, e il mio migliore amico, magari ministro del governo di cui io sono premier, favorisce una fuga di notizie che rende vana quell'inchiesta, il problema non è il padre: sono io. O per lo meno il mio amico.Per cui mentre diciamo che è giusto far chiarezza, fino in fondo, sulla vicenda Di Maio, ci ribelliamo con forza all'idea che il caso del suo papà sia paragonabile a quello dei papà di Renzi o della Boschi. Perché questi ultimi due erano (e restano) estremamente più gravi, anche se non hanno avuto lo stesso successo mediatico (chissà perché, vero?). Sinceramente, per altro, troviamo penosa, oltre che controproducente, la lagna di Matteo e Maria Elena, che continuano a parlare di «fango» e di «campagne d'odio», come se davvero le vicende dei loro cari congiunti si fossero chiuse con una medaglia d'onore al valor civile per entrambi. Non è così, e lo sanno benissimo. Su babbo Pier Luigi Boschi, senza contare le multe che gli sono state appioppate dalla Consob, resta in piedi un'inchiesta per bancarotta, che per un banchiere non è poco. E su babbo Tiziano Renzi è stata chiesta l'archiviazione per la vicenda Consip (dove non si è potuto indagare per le ragioni di cui sopra e dove in ogni caso il giudice l'ha definito «non credibile») ma resta il rinvio a giudizio in un'altra inchiesta per fatturazioni false e un'indagine aperta in un'altra ancora. E per quanto riguarda il lavoro nero, beh, ha poco da parlare: è stato condannato, infatti, con diverse sentenze a risarcire strilloni che mandava in giro in modo irregolare.Auguriamo, naturalmente, a tutti e due i babbi di uscire prossimamente dalle aule di giustizia puliti e illibati come angioletti. Ma per il momento le inchieste dicono altro. E i loro figlioletti adorati, ex premier Matteo ed ex ministro Maria Elena, sbagliano a tirarli fuori dalle scartoffie da tribunali per darli in pasto all'opinione pubblica. Perché è evidente a tutti che il parallelo non sta in piedi: il papà di Di Maio non è nemmeno indagato, i loro sì; le accuse a Di Maio si riferiscono a un periodo in cui lui era privato cittadino, loro sono finiti nella bufera per quel che facevano al governo. E dunque chiunque abbia voglia di leggere e di informarsi capisce al volo quello che finora magari non aveva capito. Sul papà di Di Maio? No, su quelli di Renzi e della Boschi. Poveretti quei due, pensavano di andare all'attacco e invece si sono fatti soltanto l'ultimo autogol. Evidentemente ormai hanno perso anche la testa, oltre che la faccia.