2018-04-06
Per Di Maio
resta Salvini l’alleato preferito
ANSA
La curiosità di vedere se Maurizio Martina si smarca da Matteo Renzi, certo, ma soprattutto la voglia di dimostrarsi aperti al dialogo tanto con la Lega quanto con il Pd. Nella convinzione che provare platealmente a spaccare il partito del Nazareno servirebbe solo a ricompattarlo. «Ci penseranno loro da soli, scannandosi per la segreteria», si ripetono i vertici del M5s. «Noi intanto dovremmo aver sventato soluzioni pasticciate», si dicono i pentastellati, dopo che Luigi Di Maio e i capogruppo Danilo Toninelli e Giulia Grillo sono scesi dal Quirinale per il primo, garbatissimo, round con il presidente Sergio Mattarella.
Che Di Maio e soci abbiano deciso di puntare tutto sulla propria compattezza è emerso chiaramente ieri pomeriggio. Dopo aver passato le ultime due settimane a trattare più o meno sottobanco con la Lega di Matteo Salvini, in attesa che le regionali del Friuli sanciscano il lancio dell'Opa finale del Carroccio su Forza Italia, ecco che Di Maio va a raccontare al presidente della Repubblica che, per il M5s, Pd o Lega pari sono. «Noi non siamo né di destra né di sinistra e quindi possiamo allearci con entrambi, in alternativa, a seconda dei programmi comuni», ha spiegato il candidato premier grillino. Che poi, uscito dall'incontro con l'uomo del Colle, ha fatto sapere ai dem: «Stiamo parlando di Pd nella sua interezza, perché noi non ci permettiamo di dividere nessuno». Il timore del M5s è che il Pd si ricompatti immediatamente, se solo percepisce di essere sotto attacco. Mentre «è chiaro che se Martina prende coraggio, Renzi magari se ne va da solo», riassume un senatore dei 5 stelle.
Ma basta guardare i numeri per vedere che un Pd che perdesse pezzi non sarebbe l'alleato ideale per una coalizione che voglia durare cinque anni, anche contando i deputati di Leu. Anche perché dall'altra parte, se si fa un governo con la Lega «alla fine ci staranno anche quelli di Fdi e chissà quanti forzisti, in fuga dal declino di Berlusconi». Insomma, con Salvini nascerebbe un esecutivo più solido e duraturo. E Di Maio è quello che preferirebbe. L'improvvisa apertura al Pd è servita soprattutto a rintuzzare possibili avance del Quirinale. «Sarebbe molto divertente sapere che cosa ha detto esattamente Giorgio Napolitano al suo successore», osservano nello stato maggiore del M5s, ma il sospetto grillino è che banche, finanza e partner europei tifino per un governo tecnico, che si regga sui voti di Forza Italia, Pd e grillini. E allora Di Maio a Mattarella ha detto molto chiaramente, invece, che non è disposto a partecipare ad alcun pateracchio, ovvero a governissimi, governi tecnici, governi di scopo o del presidente. E il leader 5 stelle impiegherà i prossimi giorni per incontrare (e stanare) tanto Salvini quanto Martina, prima di tornare al Colle. Ma il candidato premier pentastellato ha approfittato dell'inedita ribalta di ieri anche per mandare messaggi ai mercati e fuori dai confini nazionali, nella volontà di porsi come un punto di riferimento più moderato e in qualche modo più affidabile di Salvini, che per aver appoggiato l'Ungheria di Orban e la Russia di Vladimir Putin è indubbiamente guardato con maggior diffidenza, tanto a Bruxelles quanto a Washington. «Con noi al governo ci tengo a ribadire», ha scritto Di Maio sul blog delle Stelle, «che l'Italia manterrà gli impegni internazionali già assunti: resterà alleata dell'occidente, resterà nella Nato, nell'Unione europea e nell'unione monetaria». Un tributo necessario anche per non interrompere la buona predisposizione dei mercati, visto che dal 5 marzo a oggi la Borsa ha continuato a salire e il temuto spread con i titoli pubblici tedeschi è addirittura sceso da 134 a 125 punti base».
E a proposito di affari, il M5s è rimasto impressionato anche dalla rapidità con la quale si stanno muovendo le cose sul triangolo Mediaset-Telecom-Vivendi, con la Cassa depositi e prestiti che improvvisamente decide di scendere in campo per sbarrare la strada ai francesi nell'ex monopolista telefonico e Silvio Berlusconi che si allea con Sky e Rupert Murdoch. «Ci hanno avvisato? Sì, a cose fatte», dice sotto garanzia di anonimato uno degli uomini che segue le partite di potere economico per il M5s. E se ieri il Movimento è stato così netto nell'affermare che non vede Forza Italia come un interlocutore politico è stato anche per questo, perché, per dirla con il fondatore Beppe Grillo, «alla fine Berlusconi pensa solo alla roba sua». E ancora una volta il fattore Cavaliere, condannato per frode fiscale e sotto processo per corruzione giudiziaria, ha avuto peso nell'agenda esibita ieri dal M5s per provare a costruire un patto con Lega o Pd: «Ci sono soluzioni che aspettiamo da 30 anni, lotta alla corruzione, eliminazione dei privilegi e sprechi della politica, sburocratizzazione, riduzione delle tasse, gestione del fenomeno migratorio, lotta alla povertà e creazione di posti di lavoro». Il tutto mentre Grillo postava sul suo blog un lungo inno dedicato alla solidarietà e alla lotta contro la diseguaglianza economica, nel quale spiccava una citazione dell'anarchico russo Petrr Kopotkin, quello per il quale «il povero di oggi non può essere il povero di domani». Ma in politica il nemico di ieri può essere l'alleato di domani.
Napolitano fa le sue consultazioni e spinge il Pd nelle braccia del M5s
Giorgio Napolitano non molla. Dopo l'intervento a gamba tesa da presidente pro tempore del Senato, ora il novantaduenne presidente emerito della Repubblica ha iniziato a farsi sentire anche all'interno del Partito democratico in vista del secondo giro di consultazioni.
Del resto l'apertura del leader pentastellato Luigi Di Maio a tutto il Pd («Non ho mai voluto spaccare il Pd», ha detto ieri dal Colle), compreso quindi l'ex segretario Matteo Renzi, traccia forse un nuovo schema di gioco, dove i dem potrebbero tornare in partita dopo settimane di Aventino. A quanto pare l'obiettivo non dichiarato del vecchio dirigente del Pci è quello di stanare Matteo Renzi dall'ambiguo ruolo di questi ultimi giorni (le dimissioni sono vere o finte?), portando il Nazareno a dialogare con i grillini o con il centrodestra: magari costruire un percorso che possa portare alla formazione di un nuovo esecutivo. È il vecchio schema delle Botteghe Oscure, quello del cosiddetto senso dello Stato e delle istituzioni, ma soprattutto di come quando il Paese ne abbia bisogno sia più importante la sostanza rispetto alla forma.
Si tratta di una linea portata avanti in queste settimane dal ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, ma soprattutto dal ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando, da sempre in ottimi rapporti con l'ex capo dello Stato: fu lui a sponsorizzarlo come Guardasigilli nel governo di Enrico Letta. Sarebbe proprio Orlando in queste ore a capeggiare la fronda contro i renziani, fermi sulle loro posizioni, con l'ex premier convinto più che mai di restare all'opposizione. La linea è più o meno quella espressa ieri dal segretario reggente Maurizio Martina: «L'esito elettorale per noi negativo non ci consente di formulare ipotesi di governo che ci riguardino». Ma allo stesso tempo il ministro dell'Agricoltura uscente ha anche aperto a quattro punti, tra cui un reddito di cittadinanza rimodulato e a una forte impronta europeista. Il problema resta sempre Renzi.
Claudio Velardi, ex Pci, da tempo mente critica all'interno del Pd con la sua Fondazione Ottimisti & Razionali, dopo le aperture di Di Maio con un tweet invitava i dem a sfidare i grillini. «Il Pd metta subito nero su bianco 5-6 punti irrinunciabili di programma coerenti con le cose fatte e dette, e sfidi il M5s. Prima di sedersi a qualunque tavolo». Si tratta di un'ipotesi che potrebbe prendere in considerazione Renzi? Del resto, l'idea di una scissione interna ai democratici, con la possibilità di creare un En Marche nello stile del presidente francese Emanuel Macron, sembra in questo momento accantonata. «Renzi non vuole fare En marche», diceva appunto ieri la deputata dem Alessia Morani. E cosa vuole fare? Si domandano in tanti dentro e fuori il parito. Al momento non si sa, ma dopo il primo giro di consultazioni appare evidente che lo schema di gioco sta cambiando e che il tempo del galateo istituzionale è finito.
Napolitano dovrebbe incontrare per la seconda volta il capo dello Stato Sergio Mattarella la prossima settimana, prima del nuovo giro di colloqui con i partiti che dovrebbe essere decisivo per la formazione di un nuovo governo o per le elezioni anticipate. La visita di Napolitano a Mattarella è da prassi istituzionale, ma segnala il consueto interventismo da parte di Re Giorgio nelle dinamiche della politica italiana. D'altra parte dopo le sciabolate contro Renzi a Palazzo Madama («Il voto ha bocciato l'auto esaltazione dei governi»), nelle poche dichiarazioni rese in pubblico il due volte capo dello Stato ha fatto intendere subito che lo schema di gioco per nominare i presidenti di Camera e Senato, cioè l'intesa tra il leader leghista Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non valeva per formare un nuovo governo («No, quella maggioranza é servita per le Camere, punto e basta») e soprattutto ha chiesto responsabilità al Pd. «In questo momento Renzi è il miglior alleato di Di Maio, perché stando fermo potrà far dire al Movimento 5 stelle che loro ci hanno provato ma non c'è stato nulla da fare. E così potrà addossare al Pd la responsabilità di un governo Lega-M5s», spiega un deputato di centrosinistra fuori dai microfoni.
Da sempre interprete del pensiero di Napolitano è il vecchio amico Emanuele Macaluso, storica firma dell'Unità, che da una settimana continua a bombardare il Pd sul ruolo che dovrebbe tenere durante questa fase di costruzione di un nuovo esecutivo. Proprio ieri nel suo consueto corsivo sottolineava quale ruolo avesse in questo momento Renzi, circondato dal suo Gglio magico e alternativo a un partito che ragiona in termini di collegialità. «Renzi c'è o non c'è?», si domanda Macaluso. Perché, ragiona, «c'è da chiedersi a questo punto come andranno le cose nel Pd e se sarà veramente in grado di condurre quell'opposizione di cui tutti parlano. Lo dico perché a me pare che la confusione e, soprattutto, le guerriglie tra i vari gruppi continuino senza tregua. E come notano molti che hanno guardato sempre con simpatia il centrosinistra e lo hanno sempre votato, l'anomalia più evidente è quella delle dimissioni date e non date da Matteo Renzi. Se non si chiarisce sino in fondo questa questione, anche nell'assemblea convocata per il 21 aprile, la situazione del Pd resterà confusa e il partito sarà impotente ad affrontare le nuove frontiere della politica così come sono state determinate dalle elezioni».
Alessandro Da Rold
Il Cav restituisce il veto ai grillini e si gode la situazione di stallo

LaPresse
Esce dall'incontro con Sergio Mattarella, sorridente, tranquillo, con l'aria di chi pensa: «Rieccomi, che pensavate?». Silvio Berlusconi non molla il centro del ring. L'uomo sa meglio di chiunque altro che l'immagine, in politica, è tutto, e bisogna ammettere che la «rivoluzione rosa» di Forza Italia, dal punto di vista comunicativo, funziona. I nuovi capigruppo di Camera e Senato, Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, alla destra e alla sinistra del capo, premurose, attente, sobrie, consegnano alle telecamere e ai fotografi un quadro accattivante. Il poker di donne della nuova Forza Italia si completa con Elisabetta Alberti Casellati e Mara Carfagna; la prima, presidente del Senato, potrebbe ricevere, se le consultazioni andassero per le lunghe, un incarico esplorativo dal presidente Mattarella; la seconda, vicepresidente della Camera, è pronta per ricoprire il ruolo di terza carica dello Stato nel caso di una vittoria del centrodestra se si dovesse tornare presto alle urne. Il rinnovamento è completato dalla quinta carta in mano a Berlusconi: Antonio Tajani, presidente dell'Europarlamento, in procinto di assumere il ruolo di vice Silvio. Tajani è già in campo: domani sarà lui a presentare, a Campobasso, la lista di Forza Italia per le regionali in Molise del prossimo 22 aprile.
«Alle elezioni», sottolinea Berlusconi, «ha prevalso nettamente il voto basato sulla protesta, sul dispetto, sul malcontento, sulla delusione». Il veto del M5s su di lui viene rispedito al mittente: «Non siamo disponibili», sottolinea Berlusconi, «a soluzioni di governo nelle quali prevalgano l'invidia e l'odio sociale, il pauperismo e il giustizialismo». Un governo di questo tipo, aggiunge Berlusconi, «metterebbe in grave difficoltà il nostro Paese, in Europa, innescherebbe una spirale recessiva fatta di disoccupazione crescente, tasse elevate, fuga di imprese e capitali, di fallimenti a catena a partire dal settore bancario». Porte chiuse per Luigi Di Maio, al quale invece, un'ora dopo, si rivolgerà con toni opposti Matteo Salvini, ribadendo che per lui il M5s resta l'interlocutore privilegiato per cercare di formare un governo. Il leader di Forza Italia, invece, sembra rivolgersi al centrosinistra, quando fa appello agli europeisti. Nostalgia di Nazareno? «Per affrontare le urgenze del nostro Paese», dice Berlusconi, «è necessario un governo fondato su un programma coerente e in grado di lavorare, un governo che deve partire dalla coalizione che ha vinto le elezioni, il centrodestra, e dal leader della forza politica più votata nella coalizione, la Lega. Per poter governare abbiamo bisogno di una maggioranza e per raggiungerla siamo disposti al dialogo. Siamo disponibili», sottolinea Berlusconi, «a partecipare, con una presenza di alto profilo, a soluzioni serie basate su accordi chiari con altri soggetti politici, su cose concrete e fattibili, credibili in sede europea. Quell'Europa», aggiunge Berlusconi, «verso la quale è certamente necessario un atteggiamento fermo e autorevole per tutelare gli interessi italiani meglio di come è stato fatto finora, ma che non perdonerebbe certo populismi, dilettantismi e improvvisazioni». La «presenza di alto profilo» significa che, se Forza Italia parteciperà a un governo, lo farà da protagonista, con ministri politici e rappresentativi.
Chi pensa a «tecnici di area», a una presenza «nascosta» dei berluscones in un governo la cui maggioranza si reggesse però sui voti determinanti di Forza Italia, può rassegnarsi. Qualcuno nella Lega, infuriandosi, ha interpretato questa frase come l'apertura a un «governo del presidente». In realtà, Berlusconi è convinto che la soluzione alla quale si potrebbe approdare, dopo il prossimo giro di consultazioni, è un governo di larghe intese che tenga dentro tutti (pallino di Mattarella svelato dalla Verità), quindi anche la Lega, tranne il M5s. Il Pd? Accetterebbe di buon grado, secondo Berlusconi, di far parte di un esecutivo guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. Matteo Salvini ci starebbe? Non si sa. Quello che si sa è che i rapporti con l'alleato sono buoni, anche se non manca una buona dose di reciproca diffidenza. Berlusconi è convinto che se Salvini scaricasse Forza Italia per fare il vicepremier di Luigi Di Maio, o comunque il socio di minoranza di un governo M5s-Lega, si ritroverebbe in un vicolo cieco, non potendo realizzare nemmeno uno dei punti del programma sottoposto agli elettori. Intanto, il Berlusconi paladino dell'Europa sta sistemando nel modo migliore gli affari di famiglia. Il governo guidato da Paolo Gentiloni sta arginando l'influenza di Vivendi, colosso francese guidato da Vincent Bollorè, fiero avversario di Berlusconi, su Telecom Italia e su Mediaset. Bollorè è all'angolo, dopo l'accordo tra Sky e la stessa Mediaset. Amici influenti di Romano Prodi, a livello europeo, stanno lavorando con discrezione e efficacia per aiutare «l'amico Silvio». Il Cavaliere è tornato. Anzi, è sempre rimasto lì, al centro del ring.
Carlo Tarallo
Renzi freme per tornare in pista e si sente con il Colle
Matteo Renzi è pronto a cambiare linea per rispondere alla chiamata del Colle ma soltanto quando sarà chiaro a tutti, avversari interni ed esterni, che Luigi Di Maio e Matteo Salvini avranno fallito. Lo spiegano i fedelissimi del toscano neosenatore di Rignano che in queste ore hanno avuto modo di parlarci: «Ovvio che Matteo voglia tornare in pista, ma alle sue condizioni. Non può certo perdere la faccia accodandosi ad ogni costo ad un qualsivoglia governo di tutti come invece vorrebbero altri nel Pd. Ma non è questo che serve per il rilancio del Partito democratico», spiegano dalle parti del Giglio magico.
La verità è che tra il Pd e il Quirinale gli emissari si muovono ormai da giorni tanto che si parla di un «patto» tra Matteo Renzi e il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per far rientrare in gioco il Pd: se il leader dei 5 stelle e quello del Carroccio dovessero fallire nella composizione di un esecutivo e ci fosse un richiamo alla responsabilità da parte del Colle, il centrodestra unito - con l'appoggio esterno del Pd - consentirebbe di dare avvio al governo. Magari con un premier che non sia Salvini. Perché in fin dei conti anche Matteo Renzi (che di fatto continua a dettare la linea al proprio partito) vorrebbe evitare di ricorrere nuovamente alle urne. Teme che continuerebbero ad intestargli un'eventuale ulteriore sconfitta anche senza essere più, almeno formalmente, il segretario del partito. «Nel partito il renzicidio non è ancora stato compiuto ed ogni mossa viene ancora vissuta come pro o contro l'ex segretario», spiegano fonti del Nazareno.
Quindi anche una futura sconfitta elettorale in eventuali elezioni anticipate rischierebbe di essere intestata al neosentaore di Rignano che peraltro ha ancora il pieno controllo dei gruppi parlamentari del partito e nel dibattito interno non intende mollare di un centimetro né ora né mai. E qualcuno teme addirittura che, con i tempi lunghi, potrebbe anche riprendersi il partito per cambiarne il dna, farne un movimento alla Emmanuel Macron, anzi alla Renzi, favorendo ulteriori fuoriuscite di avversari interni per poi tenersi solo i fedelissimi da unire magari a quel che, tra qualche tempo, resterà di Forza Italia. La scommessa del toscano di andare «oltre il Pd» risiede proprio in questo: non uscire dal partito ma cambiarlo dall'interno per capitalizzare al centro la nascita di un eventuale governo populista-sovranista Lega-5 stelle. Per questo un big come Walter Veltroni ha fatto sapere a stretto giro che sarebbe grave andare oltre il Pd: «Lo ritengo molto grave. Io invece penso che il Pd sia un punto di approdo decisivo per la lunga storia del centrosinistra italiano. E credo che il Pd vada rafforzato, ritrovando la sua ispirazione iniziale. Il Pd, la sua gente, sono molto di più di questo confuso balbettio e meritano molto di più. Spero, con tutto il cuore, che questo avvenga. Per il Pd e per il Paese».
Ma la tentazione del segretario dimissionario rimane forte. Anche dalle parti del presidente emerito, Giorgio Napolitano, si guarda con diffidenza ad un simile progetto renziano: «Sarebbe l'ennesimo tentativo velleitario», spiega chi gli è vicino, «come anche quello di lasciare la centenaria storia del Partito socialista europeo per seguire il partitino di Macron, una mera invenzione di marketing politico, che potrebbe scomparire da un momento all'altro».
Marco Antonellis
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Il grillino parla di dialogo con il Pd. Così placa le ansie del Quirinale mentre tratta con la Lega.Ma intanto Napolitano fa le sue consultazioni e spinge il Pd nelle braccia del M5s Berlusconi manda avanti il Carroccio, rimbalza il leader 5 stelle e tiene il punto su Forza Italia: «Al governo figure di alto profilo». In attesa che maturi la soluzione del «tutti dentro». E Renzi freme per tornare in pista e si sente con il Colle. Lo speciale contiene quattro articoli. La curiosità di vedere se Maurizio Martina si smarca da Matteo Renzi, certo, ma soprattutto la voglia di dimostrarsi aperti al dialogo tanto con la Lega quanto con il Pd. Nella convinzione che provare platealmente a spaccare il partito del Nazareno servirebbe solo a ricompattarlo. «Ci penseranno loro da soli, scannandosi per la segreteria», si ripetono i vertici del M5s. «Noi intanto dovremmo aver sventato soluzioni pasticciate», si dicono i pentastellati, dopo che Luigi Di Maio e i capogruppo Danilo Toninelli e Giulia Grillo sono scesi dal Quirinale per il primo, garbatissimo, round con il presidente Sergio Mattarella. Che Di Maio e soci abbiano deciso di puntare tutto sulla propria compattezza è emerso chiaramente ieri pomeriggio. Dopo aver passato le ultime due settimane a trattare più o meno sottobanco con la Lega di Matteo Salvini, in attesa che le regionali del Friuli sanciscano il lancio dell'Opa finale del Carroccio su Forza Italia, ecco che Di Maio va a raccontare al presidente della Repubblica che, per il M5s, Pd o Lega pari sono. «Noi non siamo né di destra né di sinistra e quindi possiamo allearci con entrambi, in alternativa, a seconda dei programmi comuni», ha spiegato il candidato premier grillino. Che poi, uscito dall'incontro con l'uomo del Colle, ha fatto sapere ai dem: «Stiamo parlando di Pd nella sua interezza, perché noi non ci permettiamo di dividere nessuno». Il timore del M5s è che il Pd si ricompatti immediatamente, se solo percepisce di essere sotto attacco. Mentre «è chiaro che se Martina prende coraggio, Renzi magari se ne va da solo», riassume un senatore dei 5 stelle. Ma basta guardare i numeri per vedere che un Pd che perdesse pezzi non sarebbe l'alleato ideale per una coalizione che voglia durare cinque anni, anche contando i deputati di Leu. Anche perché dall'altra parte, se si fa un governo con la Lega «alla fine ci staranno anche quelli di Fdi e chissà quanti forzisti, in fuga dal declino di Berlusconi». Insomma, con Salvini nascerebbe un esecutivo più solido e duraturo. E Di Maio è quello che preferirebbe. L'improvvisa apertura al Pd è servita soprattutto a rintuzzare possibili avance del Quirinale. «Sarebbe molto divertente sapere che cosa ha detto esattamente Giorgio Napolitano al suo successore», osservano nello stato maggiore del M5s, ma il sospetto grillino è che banche, finanza e partner europei tifino per un governo tecnico, che si regga sui voti di Forza Italia, Pd e grillini. E allora Di Maio a Mattarella ha detto molto chiaramente, invece, che non è disposto a partecipare ad alcun pateracchio, ovvero a governissimi, governi tecnici, governi di scopo o del presidente. E il leader 5 stelle impiegherà i prossimi giorni per incontrare (e stanare) tanto Salvini quanto Martina, prima di tornare al Colle. Ma il candidato premier pentastellato ha approfittato dell'inedita ribalta di ieri anche per mandare messaggi ai mercati e fuori dai confini nazionali, nella volontà di porsi come un punto di riferimento più moderato e in qualche modo più affidabile di Salvini, che per aver appoggiato l'Ungheria di Orban e la Russia di Vladimir Putin è indubbiamente guardato con maggior diffidenza, tanto a Bruxelles quanto a Washington. «Con noi al governo ci tengo a ribadire», ha scritto Di Maio sul blog delle Stelle, «che l'Italia manterrà gli impegni internazionali già assunti: resterà alleata dell'occidente, resterà nella Nato, nell'Unione europea e nell'unione monetaria». Un tributo necessario anche per non interrompere la buona predisposizione dei mercati, visto che dal 5 marzo a oggi la Borsa ha continuato a salire e il temuto spread con i titoli pubblici tedeschi è addirittura sceso da 134 a 125 punti base». E a proposito di affari, il M5s è rimasto impressionato anche dalla rapidità con la quale si stanno muovendo le cose sul triangolo Mediaset-Telecom-Vivendi, con la Cassa depositi e prestiti che improvvisamente decide di scendere in campo per sbarrare la strada ai francesi nell'ex monopolista telefonico e Silvio Berlusconi che si allea con Sky e Rupert Murdoch. «Ci hanno avvisato? Sì, a cose fatte», dice sotto garanzia di anonimato uno degli uomini che segue le partite di potere economico per il M5s. E se ieri il Movimento è stato così netto nell'affermare che non vede Forza Italia come un interlocutore politico è stato anche per questo, perché, per dirla con il fondatore Beppe Grillo, «alla fine Berlusconi pensa solo alla roba sua». E ancora una volta il fattore Cavaliere, condannato per frode fiscale e sotto processo per corruzione giudiziaria, ha avuto peso nell'agenda esibita ieri dal M5s per provare a costruire un patto con Lega o Pd: «Ci sono soluzioni che aspettiamo da 30 anni, lotta alla corruzione, eliminazione dei privilegi e sprechi della politica, sburocratizzazione, riduzione delle tasse, gestione del fenomeno migratorio, lotta alla povertà e creazione di posti di lavoro». Il tutto mentre Grillo postava sul suo blog un lungo inno dedicato alla solidarietà e alla lotta contro la diseguaglianza economica, nel quale spiccava una citazione dell'anarchico russo Petrr Kopotkin, quello per il quale «il povero di oggi non può essere il povero di domani». Ma in politica il nemico di ieri può essere l'alleato di domani. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-salvini-alleato-consultazioni-2556491693.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="napolitano-fa-le-sue-consultazioni-e-spinge-il-pd-nelle-braccia-del-m5s" data-post-id="2556491693" data-published-at="1765403821" data-use-pagination="False"> Napolitano fa le sue consultazioni e spinge il Pd nelle braccia del M5s Giorgio Napolitano non molla. Dopo l'intervento a gamba tesa da presidente pro tempore del Senato, ora il novantaduenne presidente emerito della Repubblica ha iniziato a farsi sentire anche all'interno del Partito democratico in vista del secondo giro di consultazioni. Del resto l'apertura del leader pentastellato Luigi Di Maio a tutto il Pd («Non ho mai voluto spaccare il Pd», ha detto ieri dal Colle), compreso quindi l'ex segretario Matteo Renzi, traccia forse un nuovo schema di gioco, dove i dem potrebbero tornare in partita dopo settimane di Aventino. A quanto pare l'obiettivo non dichiarato del vecchio dirigente del Pci è quello di stanare Matteo Renzi dall'ambiguo ruolo di questi ultimi giorni (le dimissioni sono vere o finte?), portando il Nazareno a dialogare con i grillini o con il centrodestra: magari costruire un percorso che possa portare alla formazione di un nuovo esecutivo. È il vecchio schema delle Botteghe Oscure, quello del cosiddetto senso dello Stato e delle istituzioni, ma soprattutto di come quando il Paese ne abbia bisogno sia più importante la sostanza rispetto alla forma. Si tratta di una linea portata avanti in queste settimane dal ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, ma soprattutto dal ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando, da sempre in ottimi rapporti con l'ex capo dello Stato: fu lui a sponsorizzarlo come Guardasigilli nel governo di Enrico Letta. Sarebbe proprio Orlando in queste ore a capeggiare la fronda contro i renziani, fermi sulle loro posizioni, con l'ex premier convinto più che mai di restare all'opposizione. La linea è più o meno quella espressa ieri dal segretario reggente Maurizio Martina: «L'esito elettorale per noi negativo non ci consente di formulare ipotesi di governo che ci riguardino». Ma allo stesso tempo il ministro dell'Agricoltura uscente ha anche aperto a quattro punti, tra cui un reddito di cittadinanza rimodulato e a una forte impronta europeista. Il problema resta sempre Renzi. Claudio Velardi, ex Pci, da tempo mente critica all'interno del Pd con la sua Fondazione Ottimisti & Razionali, dopo le aperture di Di Maio con un tweet invitava i dem a sfidare i grillini. «Il Pd metta subito nero su bianco 5-6 punti irrinunciabili di programma coerenti con le cose fatte e dette, e sfidi il M5s. Prima di sedersi a qualunque tavolo». Si tratta di un'ipotesi che potrebbe prendere in considerazione Renzi? Del resto, l'idea di una scissione interna ai democratici, con la possibilità di creare un En Marche nello stile del presidente francese Emanuel Macron, sembra in questo momento accantonata. «Renzi non vuole fare En marche», diceva appunto ieri la deputata dem Alessia Morani. E cosa vuole fare? Si domandano in tanti dentro e fuori il parito. Al momento non si sa, ma dopo il primo giro di consultazioni appare evidente che lo schema di gioco sta cambiando e che il tempo del galateo istituzionale è finito. Napolitano dovrebbe incontrare per la seconda volta il capo dello Stato Sergio Mattarella la prossima settimana, prima del nuovo giro di colloqui con i partiti che dovrebbe essere decisivo per la formazione di un nuovo governo o per le elezioni anticipate. La visita di Napolitano a Mattarella è da prassi istituzionale, ma segnala il consueto interventismo da parte di Re Giorgio nelle dinamiche della politica italiana. D'altra parte dopo le sciabolate contro Renzi a Palazzo Madama («Il voto ha bocciato l'auto esaltazione dei governi»), nelle poche dichiarazioni rese in pubblico il due volte capo dello Stato ha fatto intendere subito che lo schema di gioco per nominare i presidenti di Camera e Senato, cioè l'intesa tra il leader leghista Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non valeva per formare un nuovo governo («No, quella maggioranza é servita per le Camere, punto e basta») e soprattutto ha chiesto responsabilità al Pd. «In questo momento Renzi è il miglior alleato di Di Maio, perché stando fermo potrà far dire al Movimento 5 stelle che loro ci hanno provato ma non c'è stato nulla da fare. E così potrà addossare al Pd la responsabilità di un governo Lega-M5s», spiega un deputato di centrosinistra fuori dai microfoni. Da sempre interprete del pensiero di Napolitano è il vecchio amico Emanuele Macaluso, storica firma dell'Unità, che da una settimana continua a bombardare il Pd sul ruolo che dovrebbe tenere durante questa fase di costruzione di un nuovo esecutivo. Proprio ieri nel suo consueto corsivo sottolineava quale ruolo avesse in questo momento Renzi, circondato dal suo Gglio magico e alternativo a un partito che ragiona in termini di collegialità. «Renzi c'è o non c'è?», si domanda Macaluso. Perché, ragiona, «c'è da chiedersi a questo punto come andranno le cose nel Pd e se sarà veramente in grado di condurre quell'opposizione di cui tutti parlano. Lo dico perché a me pare che la confusione e, soprattutto, le guerriglie tra i vari gruppi continuino senza tregua. E come notano molti che hanno guardato sempre con simpatia il centrosinistra e lo hanno sempre votato, l'anomalia più evidente è quella delle dimissioni date e non date da Matteo Renzi. Se non si chiarisce sino in fondo questa questione, anche nell'assemblea convocata per il 21 aprile, la situazione del Pd resterà confusa e il partito sarà impotente ad affrontare le nuove frontiere della politica così come sono state determinate dalle elezioni». Alessandro Da Rold <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-salvini-alleato-consultazioni-2556491693.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-cav-restituisce-il-veto-ai-grillini-e-si-gode-la-situazione-di-stallo" data-post-id="2556491693" data-published-at="1765403821" data-use-pagination="False"> Il Cav restituisce il veto ai grillini e si gode la situazione di stallo LaPresse Esce dall'incontro con Sergio Mattarella, sorridente, tranquillo, con l'aria di chi pensa: «Rieccomi, che pensavate?». Silvio Berlusconi non molla il centro del ring. L'uomo sa meglio di chiunque altro che l'immagine, in politica, è tutto, e bisogna ammettere che la «rivoluzione rosa» di Forza Italia, dal punto di vista comunicativo, funziona. I nuovi capigruppo di Camera e Senato, Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, alla destra e alla sinistra del capo, premurose, attente, sobrie, consegnano alle telecamere e ai fotografi un quadro accattivante. Il poker di donne della nuova Forza Italia si completa con Elisabetta Alberti Casellati e Mara Carfagna; la prima, presidente del Senato, potrebbe ricevere, se le consultazioni andassero per le lunghe, un incarico esplorativo dal presidente Mattarella; la seconda, vicepresidente della Camera, è pronta per ricoprire il ruolo di terza carica dello Stato nel caso di una vittoria del centrodestra se si dovesse tornare presto alle urne. Il rinnovamento è completato dalla quinta carta in mano a Berlusconi: Antonio Tajani, presidente dell'Europarlamento, in procinto di assumere il ruolo di vice Silvio. Tajani è già in campo: domani sarà lui a presentare, a Campobasso, la lista di Forza Italia per le regionali in Molise del prossimo 22 aprile. «Alle elezioni», sottolinea Berlusconi, «ha prevalso nettamente il voto basato sulla protesta, sul dispetto, sul malcontento, sulla delusione». Il veto del M5s su di lui viene rispedito al mittente: «Non siamo disponibili», sottolinea Berlusconi, «a soluzioni di governo nelle quali prevalgano l'invidia e l'odio sociale, il pauperismo e il giustizialismo». Un governo di questo tipo, aggiunge Berlusconi, «metterebbe in grave difficoltà il nostro Paese, in Europa, innescherebbe una spirale recessiva fatta di disoccupazione crescente, tasse elevate, fuga di imprese e capitali, di fallimenti a catena a partire dal settore bancario». Porte chiuse per Luigi Di Maio, al quale invece, un'ora dopo, si rivolgerà con toni opposti Matteo Salvini, ribadendo che per lui il M5s resta l'interlocutore privilegiato per cercare di formare un governo. Il leader di Forza Italia, invece, sembra rivolgersi al centrosinistra, quando fa appello agli europeisti. Nostalgia di Nazareno? «Per affrontare le urgenze del nostro Paese», dice Berlusconi, «è necessario un governo fondato su un programma coerente e in grado di lavorare, un governo che deve partire dalla coalizione che ha vinto le elezioni, il centrodestra, e dal leader della forza politica più votata nella coalizione, la Lega. Per poter governare abbiamo bisogno di una maggioranza e per raggiungerla siamo disposti al dialogo. Siamo disponibili», sottolinea Berlusconi, «a partecipare, con una presenza di alto profilo, a soluzioni serie basate su accordi chiari con altri soggetti politici, su cose concrete e fattibili, credibili in sede europea. Quell'Europa», aggiunge Berlusconi, «verso la quale è certamente necessario un atteggiamento fermo e autorevole per tutelare gli interessi italiani meglio di come è stato fatto finora, ma che non perdonerebbe certo populismi, dilettantismi e improvvisazioni». La «presenza di alto profilo» significa che, se Forza Italia parteciperà a un governo, lo farà da protagonista, con ministri politici e rappresentativi. Chi pensa a «tecnici di area», a una presenza «nascosta» dei berluscones in un governo la cui maggioranza si reggesse però sui voti determinanti di Forza Italia, può rassegnarsi. Qualcuno nella Lega, infuriandosi, ha interpretato questa frase come l'apertura a un «governo del presidente». In realtà, Berlusconi è convinto che la soluzione alla quale si potrebbe approdare, dopo il prossimo giro di consultazioni, è un governo di larghe intese che tenga dentro tutti (pallino di Mattarella svelato dalla Verità), quindi anche la Lega, tranne il M5s. Il Pd? Accetterebbe di buon grado, secondo Berlusconi, di far parte di un esecutivo guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. Matteo Salvini ci starebbe? Non si sa. Quello che si sa è che i rapporti con l'alleato sono buoni, anche se non manca una buona dose di reciproca diffidenza. Berlusconi è convinto che se Salvini scaricasse Forza Italia per fare il vicepremier di Luigi Di Maio, o comunque il socio di minoranza di un governo M5s-Lega, si ritroverebbe in un vicolo cieco, non potendo realizzare nemmeno uno dei punti del programma sottoposto agli elettori. Intanto, il Berlusconi paladino dell'Europa sta sistemando nel modo migliore gli affari di famiglia. Il governo guidato da Paolo Gentiloni sta arginando l'influenza di Vivendi, colosso francese guidato da Vincent Bollorè, fiero avversario di Berlusconi, su Telecom Italia e su Mediaset. Bollorè è all'angolo, dopo l'accordo tra Sky e la stessa Mediaset. Amici influenti di Romano Prodi, a livello europeo, stanno lavorando con discrezione e efficacia per aiutare «l'amico Silvio». Il Cavaliere è tornato. Anzi, è sempre rimasto lì, al centro del ring. Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-salvini-alleato-consultazioni-2556491693.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="renzi-freme-per-tornare-in-pista-e-si-sente-con-il-colle" data-post-id="2556491693" data-published-at="1765403821" data-use-pagination="False"> Renzi freme per tornare in pista e si sente con il Colle Matteo Renzi è pronto a cambiare linea per rispondere alla chiamata del Colle ma soltanto quando sarà chiaro a tutti, avversari interni ed esterni, che Luigi Di Maio e Matteo Salvini avranno fallito. Lo spiegano i fedelissimi del toscano neosenatore di Rignano che in queste ore hanno avuto modo di parlarci: «Ovvio che Matteo voglia tornare in pista, ma alle sue condizioni. Non può certo perdere la faccia accodandosi ad ogni costo ad un qualsivoglia governo di tutti come invece vorrebbero altri nel Pd. Ma non è questo che serve per il rilancio del Partito democratico», spiegano dalle parti del Giglio magico. La verità è che tra il Pd e il Quirinale gli emissari si muovono ormai da giorni tanto che si parla di un «patto» tra Matteo Renzi e il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per far rientrare in gioco il Pd: se il leader dei 5 stelle e quello del Carroccio dovessero fallire nella composizione di un esecutivo e ci fosse un richiamo alla responsabilità da parte del Colle, il centrodestra unito - con l'appoggio esterno del Pd - consentirebbe di dare avvio al governo. Magari con un premier che non sia Salvini. Perché in fin dei conti anche Matteo Renzi (che di fatto continua a dettare la linea al proprio partito) vorrebbe evitare di ricorrere nuovamente alle urne. Teme che continuerebbero ad intestargli un'eventuale ulteriore sconfitta anche senza essere più, almeno formalmente, il segretario del partito. «Nel partito il renzicidio non è ancora stato compiuto ed ogni mossa viene ancora vissuta come pro o contro l'ex segretario», spiegano fonti del Nazareno. Quindi anche una futura sconfitta elettorale in eventuali elezioni anticipate rischierebbe di essere intestata al neosentaore di Rignano che peraltro ha ancora il pieno controllo dei gruppi parlamentari del partito e nel dibattito interno non intende mollare di un centimetro né ora né mai. E qualcuno teme addirittura che, con i tempi lunghi, potrebbe anche riprendersi il partito per cambiarne il dna, farne un movimento alla Emmanuel Macron, anzi alla Renzi, favorendo ulteriori fuoriuscite di avversari interni per poi tenersi solo i fedelissimi da unire magari a quel che, tra qualche tempo, resterà di Forza Italia. La scommessa del toscano di andare «oltre il Pd» risiede proprio in questo: non uscire dal partito ma cambiarlo dall'interno per capitalizzare al centro la nascita di un eventuale governo populista-sovranista Lega-5 stelle. Per questo un big come Walter Veltroni ha fatto sapere a stretto giro che sarebbe grave andare oltre il Pd: «Lo ritengo molto grave. Io invece penso che il Pd sia un punto di approdo decisivo per la lunga storia del centrosinistra italiano. E credo che il Pd vada rafforzato, ritrovando la sua ispirazione iniziale. Il Pd, la sua gente, sono molto di più di questo confuso balbettio e meritano molto di più. Spero, con tutto il cuore, che questo avvenga. Per il Pd e per il Paese». Ma la tentazione del segretario dimissionario rimane forte. Anche dalle parti del presidente emerito, Giorgio Napolitano, si guarda con diffidenza ad un simile progetto renziano: «Sarebbe l'ennesimo tentativo velleitario», spiega chi gli è vicino, «come anche quello di lasciare la centenaria storia del Partito socialista europeo per seguire il partitino di Macron, una mera invenzione di marketing politico, che potrebbe scomparire da un momento all'altro». Marco Antonellis
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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