True
2019-07-23
Depositate le intercettazioni su Siri. Incredibile: gli «omissis» si leggono
Ansa
Dalle carte dell'inchiesta sul professor Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia, in affari con il re dell'eolico siciliano Vito Nicastri, che secondo gli investigatori sarebbe uno dei finanziatori della latitanza del superboss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, spuntano nuove intercettazioni che rimandano a nomi importanti in Vaticano. E non solo. E spuntano anche, in uno dei punti più delicati dell'inchiesta, quelli che bisognava maneggiare con grande cura, degli «omissis» farlocchi su Armando Siri. Nella relazione della Dia in versione digitale, infatti, basta cliccare su un quadratone rosso, piazzato posticcio per coprirne il testo, per scoprire quello che c'è sotto: le trascrizioni delle intercettazioni di Arata che parla di Siri. E finalmente c'è il testo ufficiale. Quello riportato qua e là dai giornaloni ogni volta con un virgolettato diverso.
La svista sull'omissis, involontaria, ma certamente evitabile, in realtà non cambia le carte in tavola. Si sapeva già che Arata parlava di un emendamento che gli interessava. E che c'erano stati scambi di informazioni su cosa fare per modificare il provvedimento (che alla fine non è stato neppure approvato). Il testo, insomma, è questo: «Per me quello che non mi fa dormire la notte è il fronte incentivi... la grande soluzione di tutti i problemi nostri è il fronte incentivi... allora... l'emendamento che non è stato fatto bene mi ha detto il viceministro, che mi ha chiamato prima, che gli do 30.000 euro tanto perché sia chiaro tra di noi... io ad Armando Siri ve lo dico gli do 30.000 euro». L'uomo con cui parla, il figlio del re dell'eolico, gli dice pure: «Sì, l'hai già detto». E lui rimarca: «Gli do 30.000 euro... però... è un amico come lo sei tu... però gli amici mi fai una cosa io ti pago... e quindi è più incentivato». I due, da quanto era emerso nelle precedenti carte dell'inchiesta, sapevano anche di essere sotto indagine e avevano trovato le microspie in un auto. Il voler sottolineare a tutti i costi la questione dei 30.000 euro appare sospetta. A conti fatti, comunque, le carte in tavola non cambiano. Arata parla di soldi da dare a Siri, dei quali non c'è traccia. E Siri, stando agli atti dell'inchiesta, non ne era a conoscenza. Ma gli omissis non sono saltati solo dalle pagine su Siri. Basta scalare qualche altra pagina e cliccare sul solito quadratone rosso per scoprire un'altra storia. Anche questa da maneggiare con cura. Arata e suo
figlio Federico tentarono di avvicinare, senza risultati, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, tramite l'ambasciatore americano. Dalle intercettazioni gli investigatori hanno ricostruito che gli indagati si stavano muovendo per sponsorizzare Siri per un incarico governativo.
Dalle 310 pagine della Dia che l'aggiunto della capitale, Paolo Ielo, e il pm Mario Palazzi, hanno depositato al gip Emanuela Attura in vista dell'incidente probatorio del prossimo 25 luglio salta fuori anche questo. Un aspetto delicatissimo che non poteva essere di certo nascosto con un semplice francobollo digitale. Di solito nelle inchiesta giudiziarie gli omissis vengono effettuati con un taglio netto del testo. Che invece c'è. Ed è questo: «Nella serata del 17 maggio 2018, Federico Arata chiama il padre Paolo», si legge nel documento, «dicendogli senza mezzi termini che Siri lo aveva chiamato poco prima chiedendogli di contattare l'ambasciatore americano in Italia (verosimilmente Lewis Michael Eisenberg) affinché costui intervenisse sul presidente Mattarella per sponsorizzarlo per un incarico governativo, poi aggiungeva che aveva provato a chiedere al cardinale Raymond Leo Burke (col quale si è anche sentito, ndr) di avvicinare il suddetto ambasciatore, senza ottenere l'effetto sperato, atteso che il cardinale gli aveva riferito di non avere rapporti con quel diplomatico». E addirittura si vantava di averne parlato direttamente con Salvini. Così diceva il 23 maggio 2018: «Salvini non sa dove mettere Armando, poi io gli ho detto che deve fare il viceministro con la delega all'energia e lui lo ha chiesto a Salvini e Salvini ha chiamato anche casa nostra ieri [...] voleva sapere quale delega voleva...». La Dia di Trapani precisa che «non sono state registrate interlocuzioni telefoniche fra Arata e Salvini». E anche questo dettaglio permette di pesare meglio e in modo complessivo le relazioni millantate dal professore. E di nomi pesanti ne escono diversi. Quasi uno per ogni capitolo dell'informativa: Gianni Letta e Silvio Berlusconi. «Armando l'ho fatto chiamare io da Berlusconi», si vanta ancora una volta Arata, «devo dire che Letta è sempre un amico». Nella girandola delirante di nomi e posizioni da coprire c'è anche un tentativo di infilare il figlio Federico agli Esteri, «come garanzia per tutti». Anche questo tentativo, ovviamente, non si è concretizzato.
Ma sul pateracchio che emerge dall'inchiesta il vicepremier Luigi Di Maio chiede chiarezza. Anche perché nelle intercettazioni si parla anche di lui. E su Facebook ha precisato: «Ho sentito, attraverso notizie di stampa, che c'è stato un momento, quando si stava formando il governo, in cui qualcuno, come Arata, ha dichiarato di volermi controllare, nominando un sottosegretario o uno nel mio gabinetto al ministero degli Esteri, perché si diceva che sarei andato alla Farnesina. Credo sia una cosa gravissima. Se qualcuno, esterno al governo, ha provato in qualche modo a orientare e manipolare scelte di governo, su questo si deve fare massima chiarezza».
E sui 30.000 euro avevamo ragione
Il bello dell'italiano, a differenza di altre lingue, è che è difficile confondersi. Ogni parola ha un suo specifico significato, ogni coniugazione verbale ha una sua logica, ogni parafrasi proietta un suo mondo. Per questo, le nuove rivelazioni nell'inchiesta per corruzione, in cui è indagato l'ex sottosegretario Armando Siri, sono la conferma di quel che La Verità ha scritto tre mesi fa a proposito delle «intercettazioni false» pubblicate, all'epoca, dai maggiori quotidiani.
Ieri, Repubblica e Corriere della Sera hanno riportato il contenuto di una conversazione registrata dagli inquirenti il 10 settembre scorso. Paolo Arata, imprenditore amico di Siri e socio occulto di Vito Nicastri, boss dell'eolico in Sicilia sospettato di legami con il superlatitante Matteo Messina Denaro, parlando col figlio Francesco e con Manlio Nicastri, «rampollo» di Vito, dice testuale: «Gli do 30.000 euro, perché sia chiaro tra di noi... io ad Armando Siri, ve lo dico...». Il riferimento alla somma, per gli investigatori, è legata all'attività di promozione che il politico della Lega avrebbe dovuto svolgere a favore di un emendamento di interesse dei Nicastri. Il senso di questa dichiarazione sarebbe stata poi confermata ai magistrati titolari del fascicolo, il pm Mario Palazzi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, proprio da padre e figlio. L'intercettazione del 10 settembre però continua a essere - grammaticalmente e sintatticamente - diversa da quelle che furono pubblicate all'esplosione dell'indagine, e che il nostro giornale - raccogliendo lo sfogo del procuratore aggiunto Ielo - definì «false». Non nel loro significante, come specificammo bene, ma nella forma che, come sanno gli operatori della legge, è sostanza. Soprattutto alla luce del fatto che si erano trasformate in titoli cubitali con tanto di virgolette che avevano innescato la bagarre politica. Ecco quelle trascritte ad aprile da Repubblica e attribuite a Francesco Arata: «Mi ci sono voluti 30.000 euro» e «questo affare mi è costato 30.000 euro». Frasi che non sono mai emerse, nel corso dei mesi, dai brogliacci del fascicolo semplicemente perché nessuno degli indagati le ha mai proferite. Frasi che sono diverse anche da quelle mandate in edicola ieri, e che offrono una chiave d'interpretazione della storia distorta perché il senso delle parole è di un affare chiuso, e non già di un possibile proponimento di un soggetto nei confronti di un terzo. Che Siri sia innocente o meno lo deciderà la magistratura, ma lo spunto di riflessione del nostro giornale nasceva da una considerazione che riproponiamo. «Quello che dà più fastidio agli inquirenti non è il senso delle frasi contenute tra i caporali, significato che, come nel caso di Siri, si può dedurre dai provvedimenti di perquisizione, ma è la decisione di trasformarlo nelle vive parole degli indagati: perché un conto è riportare le tesi dell'accusa, un altro è pubblicare frasi che non sono mai state pronunciate. A seccare ulteriormente i pm è anche il fatto che il virgolettato trasmette l'idea che chi dovrebbe custodire il segreto, l'abbia divulgato. Un sospetto grave». Nessuna violazione del segreto, per fortuna. Solo frasi letteralmente inventate.
Continua a leggereRiduci
Nei nuovi dialoghi, Paolo Arata millanta pressioni su Silvio Berlusconi, Enrico Letta e il cardinal Raymond Leo Burke per piazzare il leghista. Ma nelle carte spunta la beffa: le parti da secretare, perché riguardano un senatore, si possono consultare. E sui 30.000 euro avevamo ragione. Anche nel materiale diffuso ieri non c'è traccia del virgolettato del boss dell'eolico riportato più volte dai media. Restano invece le solite vanterie dell'imprenditore. Lo speciale comprende due articli. Dalle carte dell'inchiesta sul professor Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia, in affari con il re dell'eolico siciliano Vito Nicastri, che secondo gli investigatori sarebbe uno dei finanziatori della latitanza del superboss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, spuntano nuove intercettazioni che rimandano a nomi importanti in Vaticano. E non solo. E spuntano anche, in uno dei punti più delicati dell'inchiesta, quelli che bisognava maneggiare con grande cura, degli «omissis» farlocchi su Armando Siri. Nella relazione della Dia in versione digitale, infatti, basta cliccare su un quadratone rosso, piazzato posticcio per coprirne il testo, per scoprire quello che c'è sotto: le trascrizioni delle intercettazioni di Arata che parla di Siri. E finalmente c'è il testo ufficiale. Quello riportato qua e là dai giornaloni ogni volta con un virgolettato diverso. La svista sull'omissis, involontaria, ma certamente evitabile, in realtà non cambia le carte in tavola. Si sapeva già che Arata parlava di un emendamento che gli interessava. E che c'erano stati scambi di informazioni su cosa fare per modificare il provvedimento (che alla fine non è stato neppure approvato). Il testo, insomma, è questo: «Per me quello che non mi fa dormire la notte è il fronte incentivi... la grande soluzione di tutti i problemi nostri è il fronte incentivi... allora... l'emendamento che non è stato fatto bene mi ha detto il viceministro, che mi ha chiamato prima, che gli do 30.000 euro tanto perché sia chiaro tra di noi... io ad Armando Siri ve lo dico gli do 30.000 euro». L'uomo con cui parla, il figlio del re dell'eolico, gli dice pure: «Sì, l'hai già detto». E lui rimarca: «Gli do 30.000 euro... però... è un amico come lo sei tu... però gli amici mi fai una cosa io ti pago... e quindi è più incentivato». I due, da quanto era emerso nelle precedenti carte dell'inchiesta, sapevano anche di essere sotto indagine e avevano trovato le microspie in un auto. Il voler sottolineare a tutti i costi la questione dei 30.000 euro appare sospetta. A conti fatti, comunque, le carte in tavola non cambiano. Arata parla di soldi da dare a Siri, dei quali non c'è traccia. E Siri, stando agli atti dell'inchiesta, non ne era a conoscenza. Ma gli omissis non sono saltati solo dalle pagine su Siri. Basta scalare qualche altra pagina e cliccare sul solito quadratone rosso per scoprire un'altra storia. Anche questa da maneggiare con cura. Arata e suo figlio Federico tentarono di avvicinare, senza risultati, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, tramite l'ambasciatore americano. Dalle intercettazioni gli investigatori hanno ricostruito che gli indagati si stavano muovendo per sponsorizzare Siri per un incarico governativo. Dalle 310 pagine della Dia che l'aggiunto della capitale, Paolo Ielo, e il pm Mario Palazzi, hanno depositato al gip Emanuela Attura in vista dell'incidente probatorio del prossimo 25 luglio salta fuori anche questo. Un aspetto delicatissimo che non poteva essere di certo nascosto con un semplice francobollo digitale. Di solito nelle inchiesta giudiziarie gli omissis vengono effettuati con un taglio netto del testo. Che invece c'è. Ed è questo: «Nella serata del 17 maggio 2018, Federico Arata chiama il padre Paolo», si legge nel documento, «dicendogli senza mezzi termini che Siri lo aveva chiamato poco prima chiedendogli di contattare l'ambasciatore americano in Italia (verosimilmente Lewis Michael Eisenberg) affinché costui intervenisse sul presidente Mattarella per sponsorizzarlo per un incarico governativo, poi aggiungeva che aveva provato a chiedere al cardinale Raymond Leo Burke (col quale si è anche sentito, ndr) di avvicinare il suddetto ambasciatore, senza ottenere l'effetto sperato, atteso che il cardinale gli aveva riferito di non avere rapporti con quel diplomatico». E addirittura si vantava di averne parlato direttamente con Salvini. Così diceva il 23 maggio 2018: «Salvini non sa dove mettere Armando, poi io gli ho detto che deve fare il viceministro con la delega all'energia e lui lo ha chiesto a Salvini e Salvini ha chiamato anche casa nostra ieri [...] voleva sapere quale delega voleva...». La Dia di Trapani precisa che «non sono state registrate interlocuzioni telefoniche fra Arata e Salvini». E anche questo dettaglio permette di pesare meglio e in modo complessivo le relazioni millantate dal professore. E di nomi pesanti ne escono diversi. Quasi uno per ogni capitolo dell'informativa: Gianni Letta e Silvio Berlusconi. «Armando l'ho fatto chiamare io da Berlusconi», si vanta ancora una volta Arata, «devo dire che Letta è sempre un amico». Nella girandola delirante di nomi e posizioni da coprire c'è anche un tentativo di infilare il figlio Federico agli Esteri, «come garanzia per tutti». Anche questo tentativo, ovviamente, non si è concretizzato. Ma sul pateracchio che emerge dall'inchiesta il vicepremier Luigi Di Maio chiede chiarezza. Anche perché nelle intercettazioni si parla anche di lui. E su Facebook ha precisato: «Ho sentito, attraverso notizie di stampa, che c'è stato un momento, quando si stava formando il governo, in cui qualcuno, come Arata, ha dichiarato di volermi controllare, nominando un sottosegretario o uno nel mio gabinetto al ministero degli Esteri, perché si diceva che sarei andato alla Farnesina. Credo sia una cosa gravissima. Se qualcuno, esterno al governo, ha provato in qualche modo a orientare e manipolare scelte di governo, su questo si deve fare massima chiarezza». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/depositate-le-intercettazioni-su-siri-incredibile-gli-omissis-si-leggono-2639306690.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-sui-30-000-euro-avevamo-ragione" data-post-id="2639306690" data-published-at="1765437497" data-use-pagination="False"> E sui 30.000 euro avevamo ragione Il bello dell'italiano, a differenza di altre lingue, è che è difficile confondersi. Ogni parola ha un suo specifico significato, ogni coniugazione verbale ha una sua logica, ogni parafrasi proietta un suo mondo. Per questo, le nuove rivelazioni nell'inchiesta per corruzione, in cui è indagato l'ex sottosegretario Armando Siri, sono la conferma di quel che La Verità ha scritto tre mesi fa a proposito delle «intercettazioni false» pubblicate, all'epoca, dai maggiori quotidiani. Ieri, Repubblica e Corriere della Sera hanno riportato il contenuto di una conversazione registrata dagli inquirenti il 10 settembre scorso. Paolo Arata, imprenditore amico di Siri e socio occulto di Vito Nicastri, boss dell'eolico in Sicilia sospettato di legami con il superlatitante Matteo Messina Denaro, parlando col figlio Francesco e con Manlio Nicastri, «rampollo» di Vito, dice testuale: «Gli do 30.000 euro, perché sia chiaro tra di noi... io ad Armando Siri, ve lo dico...». Il riferimento alla somma, per gli investigatori, è legata all'attività di promozione che il politico della Lega avrebbe dovuto svolgere a favore di un emendamento di interesse dei Nicastri. Il senso di questa dichiarazione sarebbe stata poi confermata ai magistrati titolari del fascicolo, il pm Mario Palazzi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, proprio da padre e figlio. L'intercettazione del 10 settembre però continua a essere - grammaticalmente e sintatticamente - diversa da quelle che furono pubblicate all'esplosione dell'indagine, e che il nostro giornale - raccogliendo lo sfogo del procuratore aggiunto Ielo - definì «false». Non nel loro significante, come specificammo bene, ma nella forma che, come sanno gli operatori della legge, è sostanza. Soprattutto alla luce del fatto che si erano trasformate in titoli cubitali con tanto di virgolette che avevano innescato la bagarre politica. Ecco quelle trascritte ad aprile da Repubblica e attribuite a Francesco Arata: «Mi ci sono voluti 30.000 euro» e «questo affare mi è costato 30.000 euro». Frasi che non sono mai emerse, nel corso dei mesi, dai brogliacci del fascicolo semplicemente perché nessuno degli indagati le ha mai proferite. Frasi che sono diverse anche da quelle mandate in edicola ieri, e che offrono una chiave d'interpretazione della storia distorta perché il senso delle parole è di un affare chiuso, e non già di un possibile proponimento di un soggetto nei confronti di un terzo. Che Siri sia innocente o meno lo deciderà la magistratura, ma lo spunto di riflessione del nostro giornale nasceva da una considerazione che riproponiamo. «Quello che dà più fastidio agli inquirenti non è il senso delle frasi contenute tra i caporali, significato che, come nel caso di Siri, si può dedurre dai provvedimenti di perquisizione, ma è la decisione di trasformarlo nelle vive parole degli indagati: perché un conto è riportare le tesi dell'accusa, un altro è pubblicare frasi che non sono mai state pronunciate. A seccare ulteriormente i pm è anche il fatto che il virgolettato trasmette l'idea che chi dovrebbe custodire il segreto, l'abbia divulgato. Un sospetto grave». Nessuna violazione del segreto, per fortuna. Solo frasi letteralmente inventate.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
Continua a leggereRiduci
Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
Continua a leggereRiduci
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast dell'11 dicembre con Carlo Cambi