«Giorgia Meloni venga a dire in aula da che parte sta. Se ha deciso di indossare la maglia dell’Europa o il cappellino di Trump». Così diceva Elly Schlein in un’intervista a Repubblica di metà febbraio. «Una Meloni che va con il cappello in mano in America per alleggerire i dazi sarebbe un disastro», aggiungeva appena due mesi fa Elisabetta Gualmini, europarlamentare del Pd. «Giorgia Meloni dimostri chiaramente di essere consapevole che gli interessi del Paese si fanno all’interno di un’Europa unita, integrata e quindi forte. Rifiuti senza incertezze la logica dei rapporti bilaterali come pare preferire l’amministrazione americana e scelga la strada del protagonismo, del patriottismo europeo, non quella del vassallaggio e della subordinazione», concludeva perentoria Anna Ascani, altra amazzone del Pd.
Sì, a rileggerle ora, a distanza di poche settimane, le dichiarazioni dello Stato maggiore della sinistra sembrano appartenere a un secolo fa. Invece sono il frutto di un’impostazione ideologica, tutta anti Trump e interamente votata a un’Italia assoggettata a Bruxelles. Peccato che la Ue di Ursula von der Leyen sulla vitale questione dei dazi non abbia portato a casa nulla, se non inconcludenti dichiarazioni di principio. Mentre l’Europa si impuntava su questioni formali e sull’idea che la trattativa dovesse essere collettiva e dunque senza alcun negoziato fra i Paesi che fanno parte dell’Unione, altri facevano gli affari loro.
La Gran Bretagna, il Giappone, l’India e perfino la Cina, mettendo da parte le dichiarazioni di principio, si sono sedute al tavolo per cercare un accordo sui dazi. Solo l’Europa ha preferito tenere il punto, mostrando i muscoli, convinta di avere il coltello dalla parte del manico. Passati quasi due mesi però ci si accorge del nulla di fatto. Come ha spiegato Giuseppe Liturri ieri sulla Verità, la Ue non ha una posizione univoca, perché gli interessi all’interno dell’Unione sono diversi a seconda del Paese. Risultato: a poche settimane dall’entrata in vigore dei dazi, non abbiamo idea di come evitarli. Le minacce fatte circolare subito dopo l’annuncio dell’introduzione delle imposizioni fiscali da parte di Trump non sembrano aver sbloccato la situazione. Anzi. Dopo un’infinità di chiacchiere, la Ue si sarebbe resa conto di non avere molte armi per vincere il braccio di ferro con gli Stati Uniti.
Dunque, come se ne esce? La sinistra come sempre un’idea ce l’ha. Peccato che sia l’esatto contrario di quel che sosteneva due mesi fa. Se prima il Partito democratico, attraverso le dichiarazioni di alcune delle sue più importanti esponenti, era fermamente contrario a qualsiasi trattativa fra Giorgia Meloni e Donald Trump, adesso si sprecano gli appelli, ovviamente sotto forma di monito, affinché il presidente del Consiglio tratti con il suo «amico» Trump. Cioè: ciò che in precedenza era visto come un pellegrinaggio senza dignità, ora è auspicato come viaggio della salvezza. E naturalmente, se prima criticava il viaggio a Washington, ora la sinistra ammonisce Giorgia Meloni perché tarda a rivolgersi al «suo amico» Donald.
Le maestrine dalla penna rossa (Schlein, Gualmini, Ascani) che criticavano Meloni per il rapporto amichevole con Trump, invitandola ad annacquare le sue relazioni dentro la Ue, adesso criticano il premier proprio perché non si dà da fare per indurlo a una retromarcia. Così siamo passati dall’accusa di delegittimare la Ue a quella di non aiutare la Ue. Tutto ciò, ovviamente, senza un minimo di autocritica. Quello che a febbraio attaccava il capo del governo per il viaggio in America alla corte di The Donald e quello che ora attacca il presidente del Consiglio perché non ritorna in America per trattare con Trump è sempre lo stesso Pd. Un partito che tiene il piede in due scarpe, ma in nessuna delle due dimostra di tenere un cervello.





