
Il segretario di Stato Rubio invita a non dimenticare le tragiche repressioni, mentre Trump elogia Xi: «Mi è sempre piaciuto». A breve è prevista una telefonata tra i due. Intanto Pechino è vicina a chiudere uno storico affare con la franco-tedesca Airbus.Il primo colpo l’ha sferrato il segretario di Stato Usa Marco Rubio che in occasione del 36esimo anniversario delle tragiche vicende di Piazza Tienanmen ha invitato il mondo intero a non dimenticare in che modo erano state represse le manifestazioni di migliaia di persone a Pechino: «Il Partito comunista cinese», ha evidenziato una delle figura di spicco dell’amministrazione Usa, «cerca in modo attivo di censurare i fatti, ma il mondo non dimenticherà mai. Oggi noi commemoriamo il coraggio del popolo cinese ucciso mentre cercava di esercitare le proprie libertà fondamentali, così come di coloro che continuano a subire persecuzioni mentre cercano di ottenere giustizia per gli eventi del 4 giugno 1989». Poi è arrivato il presidente Trump che come da copione ha usato bastone a carote in un mix che quasi sempre all’esterno appare poco decifrabile. Nel giorno dell’aumento delle tariffe sulle importazioni di alluminio e acciaio, portate dal 25 al 50%, il magnate si è speso in un post quantomai elogiativo verso il grande nemico della Casa Bianca, il presidente cinese Xi Jinping. «Mi piace, il presidente cinese Xi, mi è sempre piaciuto e mi piacerà sempre», ha scritto su Truth, «ma è molto tosto, ed è estremamente duro farci un accordo».L’ennesima puntata di un gioco di nervi che va avanti da mesi. Gioco di nervi che prevede ovviamente la risposta stizzita della controparte: «Le affermazioni degli Stati Uniti distorcono volutamente la verità storica», ha immediatamente replicato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Lin Jian, «attaccano deliberatamente il sistema politico della Cina e la sua via allo sviluppo. Ci sarà una protesta solenne». Nulla di nuovo sotto il cielo di Washington e Pechino verrebbe ad dire. Anche perché il botta e risposta arriva alla vigilia dell’annunciata telefonata tra Xi Jinping e Trump. Insomma, lo scambio di accuse appare più come una presa di posizione in attesa del meeting telefonico che altro. In gioco ci sono gli equilibri mondiali e più nel dettaglio le reiterate richieste che Trump rivolge a Pechino. Da un lato quella di ridurre il deficit commerciale che è arrivato vicino a quota 300 miliardi di dollari e di fermare le esportazioni di prodotti chimici utilizzati per fabbricare il fentanyl che negli Stati Uniti provoca migliaia di morti ogni anno. Dall’altro, la Casa Bianca pretende l’eliminazione delle pratiche, dal furto di proprietà intellettuale fino al trasferimento forzato di tecnologia, che mettono in pericolo non solo l’economia ma anche la sicurezza nazionale. Infine c’è la questione dei cittadini cinesi entrati negli Stati Uniti, sia legalmente (c’è la minaccia di revocare i visti agli studenti) che illegalmente. Sullo sfondo la minaccia di imporre nuovamente i dazi del 145% sulla Cina. Minaccia che per quanto sia possibile fare pronostici con The Donald dovrebbe essere abbastanza spuntata. Del resto, Pechino continua a fare il suo gioco. Ieri Bloomberg dava notizia delle intenzioni delle compagnie aeree cinesi di ordinare centinaia di nuovi aerei ad Airbus (il numero oscillerebbe tra le 300 e le 500 unità) e l’annuncio potrebbe arrivare a luglio in occasione delle celebrazioni dei 50 anni di relazioni diplomatiche tra la Cina e l’Unione europea. Sarebbe un bel colpo, una commessa storica sia per la portata economica dell’operazione - potrebbe essere sigillato dal presidente francese Emmanuel Macron e dal cancelliere tedesco Friedrich Merz che sono tra i leader europei che dovrebbero visitare Pechino il mese prossimo - sia il significato politico. Non sfugge che Parigi e Berlino abbiamo i maggiori poteri di controllo all’interno della composita governance di Airbus, così come non sfugge che Boeing, lo storico rivale americano, non riceve una commessa di peso da Pechino da quasi dieci anni. Le carte si mescolano di continuo, con mosse che quasi sempre puntano a colpire in modo indiretto (così vanno interpretate anche le tariffe all’Ue e Londra) Pechino, il vero avversario di Washington. E in questa chiave geopolitica va letta anche l’ultima esternazione del portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian: «La Nato lasci perdere l’Asia», ha sottolineato, «non ne abbiamo bisogno». E se non fosse chiaro ha spiegato: «La Nato è un’organizzazione militare regionale e difensiva, priva dell’autorità per estendere la propria sfera d’azione al di là dei confini geografici previsti dal suo trattato fondativo. La Cina si oppone con fermezza all’avanzata della Nato nell’Indo-Pacifico, perché ciò crea tensioni, incita alla contrapposizione e mina la pace e la stabilità regionale e persino mondiale», ha detto Lin. Insomma, «i Paesi dell’Asia-Pacifico non accolgono favorevolmente l’asiatizzazione della Nato». L’ennesima mossa di un’estenuante guerra di nervi che si spera possa trovare una tregua dopo la telefonata tra i due leader.
2025-09-16
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