
- Certificato il valore culturale della tradizione gastronomica. Giorgia Meloni: sono fiera. Il riconoscimento sarà un volano economico.
- Dopo un surplus di produzione in Nuova Zelanda e Usa, al dicastero dell’Agricoltura è stata raggiunta un’intesa che fissa una nuova quotazione a 54 centesimi al litro per il prezzo del latte.
Lo speciale contiene due articoli
Aveva ragione Archibald Cronin, stavolta le stelle stanno a guardare. La cucina italiana è patrimonio mondiale immateriale dell’umanità dell’Unesco (la decisione, scontata visto che il comitato tecnico aveva detto già sì, è arrivata ieri a Nuova Dehli dove era riunito il board intergovernativo) e segna la rivincita della «pizza e mortazza» sulla spuma di mortadella. Il circo Barnum della gastronomia ricchi premi e cotillon deve fare professione di umiltà. Questo titolo - ci hanno lavorato tre ministeri: Agricoltura e Sovranità alimentare con Francesco Lollobrigida che ha fatto di tutto per sostenere il comitato promotore composto da Accademia della cucina, La cucina italiana e la fondazione Casa Artusi; Affari esteri con Antonio Tajani che, felicissimo, ha presenziato alla proclamazione e Cultura con Alessandro Giuli e il sottosegretario Gianmarco Mazzi - premia le ricette di casa, la straordinaria diversità gastronomica dei nostri territori e nulla ha a che fare con le basse temperature, le sferificazioni, gli esperimenti da piccolo chimico.
La rincorsa per arrivare a questo traguardo è stata presa cinque anni fa e il «mastino» dei dossier, il professor Pier Luigi Petrillo - è anche il presidente dell’Organo degli esperti mondiali dell’Unesco - non ha mai mollato la presa, anche perché la cucina italiana non è stata designata come pratica gastronomica, ma come valore culturale in forza della biodiversità espressa dalle tante cucine territoriali in rapporto all’ambiente agricolo. Ecco perché le stelle stanno a guardare. Ha vinto la tradizione, il braciere e non il sifone, non gli artifici che affascinano il bel mondo autoreferenziale dei presunti esperti. Hanno vinto i cuochi artusiani contro gli chef «astrusiani» o i cosiddetti cuochi d’artificio; hanno prevalso i salumifici, i caseifici, gli oleifici, i panettieri, gli allevatori e cerealicoltori, ha vinto l’Italia che suda la terra, fa la sfoglia e innova.
La motivazione parla chiaro: «La cucina italiana è patrimonio mondiale dell’umanità perché va oltre i piatti, rappresentando una forma di vita, un’identità culturale e un modello di socialità, sostenibilità e diversità. I motivi principali includono la trasmissione di saperi e affetti tra generazioni, l’equilibrio tra uomo e ambiente (biodiversità, antispreco), la convivialità che unisce comunità e famiglie, e il legame profondo con i territori e i loro prodotti».
Ma ha anche un altissimo valore culturale ed economico. Lo ha colto Giorgia Meloni che in un messaggio sottolinea: «È una notizia che mi riempie d’orgoglio», ha detto il presidente del consiglio. «Siamo i primi al mondo a ottenere questo riconoscimento che onora la nostra identità. Per noi italiani la cucina non è solo cibo, non è solo un insieme di ricette. È molto di più: è cultura, tradizione, lavoro, ricchezza. La nostra cucina nasce da filiere agricole che coniugano qualità e sostenibilità. Custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in generazione. Cresce nell’eccellenza dei nostri produttori e si trasforma in capolavoro nella maestria dei nostri cuochi. E viene presentata dai nostri ristoratori con le loro straordinarie squadre. Già oggi esportiamo 70 miliardi di euro di agroalimentare, e siamo la prima economia in Europa per valore aggiunto nell’agricoltura. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per nuovi traguardi. Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida, ringrazio prima di tutto i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier». «Ma è una partita», ha concluso Meloni, «che abbiamo vinto insieme al popolo italiano, insieme ai nostri connazionali all’estero, insieme a tutti coloro che nel mondo amano la nostra cultura, la nostra identità e il nostro stile di vita».
A fare due conti la ricaduta economica è consistente. I ristoranti italiani - sono quasi 200.000, non tutti di qualità, e il bollino Unesco ora obbliga a maggior qualità, cura e aderenza alla tradizione - fatturano 100 miliardi, quelli all’estero sono il 19% della ristorazione mondiale, il sistema agroalimentare allargato vale 700 miliardi e dà lavoro a 4,5 milioni di italiani.
Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida - in una telefonata ha registrato il compiacimento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - che è orgoglioso assai per questo traguardo sottolinea: «Questo riconoscimento produrrà una crescita dal punto di vista economico eccezionale, porterà vantaggi in termini di occupazione e lavoro, rafforza la posizione del nostro Paese anche sul fronte della situazione internazionale e dei dazi, per due ragioni: una è la promozione che permette di avere garanzia di vendere di più e meglio; l’altra è il contrasto all’Italian sounding (vale 130 miliardi, quasi il doppio del nostro export ndr), cioè alle imitazioni che ci derubano di quel sapere che ci è stato tramandato ed è stato protetto per generazioni».
Il che rende ancora più urgente in sede europea ottenere l’etichetta d’origine, l’estensione della tutela dei prodotti a marchio e la clausola di reciprocità sulle importazioni. L’Italia contava già sull’arte dei pizzaioli, sulle viti ad alberello di Pantelleria, sulla dieta mediterranea così come la Francia ha il riconoscimento per il pasto gastronomico, il Messico e la Corea per una cucina regionale, il Giappone per la cucina tradizionale, ma nessuno mai ha avuto riconosciuta la cucina come simbolo identitario. A significare che le mille e mille ricette messe insieme definiscono un valore unico: il vivere all’italiana.
Accordo ponte sul prezzo del latte
Per il latte che approda a una tregua si apre la crisi del pomodoro. È un momento di forti oscillazioni dei prezzi sui mercati agricoli dovute in gran parte a rallentamenti di domanda e d’incremento d’offerta dovuto all’import. Un surplus di produzione in Nuova Zelanda (più 3,2%) e negli Usa (più 1,8%) dove gli allevatori hanno deciso di lanciare un’offensiva sui mercati mondiali ha fatto crollare le quotazioni. Con gravi ripercussioni sulle quotazioni del Grana Padano e del burro.
Ma anche Germania, Francia e Olanda ci hanno messo del loro con forti aumenti di produzione. Tutto perché negli ultimi mesi del 2024 e nei primi di quest’anno c’era stata una forte impennata del prezzo. Si è arrivati a pagare un litro spot (in cisterna sfuso) fino a 73 centesimi e tutti si sono buttati a incrementare la produzione (nelle nostre tre Regioni di maggior peso Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto le consegne sono aumentate del 2,6% con punte anche del 4), il che ha determinato un crollo verticale del prezzo arrivato sotto i 48 centesimi al litro, una quotazione ritenuta insostenibile.
Così martedì si è aperto un paracadute sulle stalle. Al ministero dell’Agricoltura è stato raggiunto un accordo ponte che fissa un prezzo minimo del latte spot (sfuso alla stalla) a 54 euro a ettolitro per le consegne di gennaio, di 53 euro per febbraio e di 52 a marzo. L’accordo prevede anche aiuti all’internazionalizzazione e all’integrazione della filiera, acquisti di latte e di formaggi per gli indigenti, un’intesa sulle produzioni medie per evitare sforamenti.
Si è trattato di un intervento di emergenza messo in piedi dal ministro Francesco Lollobrigida perché a gennaio scade circa il 10% dei contratti di acquisto da parte dell’industria alimentare e c’era il rischio che non venissero rinnovati a causa delle massicce importazioni in dumping. Complessivamente sodisfatte le organizzazioni agricole: Coldiretti parla di pericolo scampato anche se gli allevatori restano con la guardia alzata. Una proposta innovativa viene da Giovanni Guarneri - presidente del settore lattiero-caseario di Confcooperative che mette insieme 14.000 stalle per 8 miliardi di fatturato - che chiede un’organizzazione comune di mercato a livello europeo (un po’ come col vino) perché «diversamente tra qualche mese saremo di nuovo con gli stessi problemi».
Se il latte supera la crisi si apre ora quella del pomodoro. Nonostante ci sia stato l’accordo sul prodotto da industria per il pomodoro fresco si è aperta una fase di forte flessione dei prezzi: meno 17% a ottobre e meno 20% a novembre con incremento di domanda (più 10% a ottobre e più 7% a novembre) che non riesce a compensare la perdita di valore. E anche qui, come per il latte, i problemi vengono dall’import dai Paesi del Nord Africa e dai prodotti lavorati che arrivano dalla Cina.





