
Il rapporto di Reporter senza frontiere 2025 registra 67 giornalisti uccisi, quasi l’80% in guerre o per mano della criminalità organizzata. Gaza è il teatro più pericoloso, seguita da Messico, Ucraina e Sudan. La denuncia: impunità diffusa e assenza di protezioni efficaci.
Il nuovo rapporto di Reporters without borders (Rsf) non lascia spazio a miti consolatori: il 2025 è stato un anno tragicamente letale per chi fa informazione. Secondo l’ong, 67 professionisti dei media sono stati uccisi nell’ultimo anno, e quasi quattro su cinque (almeno 53) lo sono stati in contesti di guerra o per mano di reti criminali. È una cifra che non si limita a misurare le vittime: indica un sempre più inquietante e preciso disegno di silenziare coloro che dedicano la loro esistenza a diffondere la verità.
La statistica più agghiacciante del report è chiara e netta: quasi la metà (43%) dei giornalisti uccisi nel periodo considerato è avvenuta nella Striscia di Gaza, secondo Rsf il più pericoloso teatro operativo per i giornalisti nel 2025.
Se i bombardamenti in corso a Gaza continuano a mietere vittime di ogni sorta, in Messico il nemico è meno riconoscibile ma altrettanto letale: gruppi di criminalità organizzata e cartelli hanno fatto del giornalismo locale un target sistematico. Rsf segnala che il Messico è diventato il secondo Paese più pericoloso per i giornalisti nel 2025, con almeno nove cronisti uccisi nel corso dell’anno. Qui la strategia di dissuasione è chirurgica: omicidi mirati, sparizioni e intimidazioni, tutto il necessario per rendere il diritto di informazione il principale rischio alla vita quotidiana. Le notizie devono essere sepolte sotto un’irremovibile coltre di paura.
Non si torna indenni neppure dai teatri di guerra tradizionali. In Ucraina, gli scontri tra le forze armate di Kiev e quelle di Mosca continuano a essere intensi e senza quartiere. I giornalisti, stranieri e locali, si sono trovati troppo spesso a dovere trovare rifugio per non finire nel fuoco incrociato. In questo scenario è avvenuto, in diverse occasioni, che i reporter venissero presi di mira deliberatamente, rendendo estremamente pericoloso l’esercizio della loro professione. Allo stesso modo, il conflitto sudanese tra forze regolari e milizie paramilitari ha reso il Paese «eccezionalmente letale»: complessi scenari di guerra urbana e attacchi indiscriminati hanno causato vittime tra i cronisti e reso difficilissima la copertura indipendente.
Una tragica tendenza sottolineata da Rsf: la maggior parte delle vittime erano giornalisti che lavoravano nel proprio paese. Solo due stranieri risultano tra i morti nel periodo preso in esame. Questo ribalta la narrazione romantica del corrispondente «eroe» e mostra come la repressione, la violenza e l’imperversare del crimine colpiscano in primo luogo chi resta a raccontare vicino a casa, spesso con meno protezioni e meno visibilità internazionale.
Reporter senza frontiere punta il dito contro diverse cause oramai divenute sistemiche.
Ormai troppi eserciti e molteplici forze paramilitari non rispettano più la distinzione combattente/civile, beffandosi di qualsivoglia norma di diritto internazionale. L’impunità strutturale che sostiene queste realtà criminali con l’avvio di pochissime indagini, molte delle quali si conclude in un nulla di fatto, non fa altro che esasperare un quadro già tragico.
La costante e continua espansione dilagante dei cartelli criminali, che vanno sempre più a sostituirsi allo Stato, crea dei vuoti di giurisdizione e ordine dove la prima vittima divengono i dispensatori di verità. Da non sottovalutare nemmeno il potere delle campagne diffamatorie, di sorveglianza e l’intero apparato di attacchi digitali che oggi, ancora più di ieri, minano la sicurezza di testate e cronisti, riducendo di molto le reti di protezione professionale.
In molti casi, l’uccisione di un collega non è un singolo episodio isolato, ma la punta visibile di un’azione organizzata col chiaro obiettivo di spegnere sul nascere inchieste scomode o paralizzare il giornalismo nativo.
Questo resoconto è il mezzo con il quale Reporter senza frontiere e le realtà che si occupano della libertà di stampa ci parlano.
Il rapporto non è solo un «conta-vittime»: è un appello a istituzioni e governi. Rsf invoca indagini indipendenti, protezioni materiali e meccanismi internazionali più efficaci per chi lavora in zone a rischio; richiede specialmente che gli Stati belligeranti rispondano dei danni causati ai giornalisti e che la comunità internazionale metta pressione su governi e milizie per rispettare il diritto umanitario. Senza misure concrete (protezioni, responsabilità, e cooperazione giudiziaria globale) il bilancio dei morti potrà solo che peggiorare.
Le cifre del 2025 raccontano una verità buia e scomoda: dove la violenza cresce, muore anche la possibilità collettiva di conoscere. Uccidere un giornalista non è soltanto togliere una vita; è cancellare testimoni, bloccare inchieste, piegare la società all’opacità. Se vogliamo che la verità continui a circolare, nelle strade di Gaza come nei villaggi messicani, servono più che parole: servono protezioni, giustizia e la volontà politica di fare della sicurezza dei giornalisti una priorità. Rsf ha fatto il suo conteggio. Tocca al mondo rispondere.





