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2022-08-24
CR7 non è finito: è Ronaldo che si è perso
Cristiano Ronaldo (Ansa)
Diavolo d’un Platone! A lui si deve buona parte del modo di pensare la vita in Occidente, individuando prospettive che ci riparino dalla rapina del nulla, dal timore della fine. Il filosofo greco capì che per proteggere le cose dal rischio della disgregazione, era opportuno collocarle, come puro ideale, nel mondo delle idee, un mondo iperuranico, perfetto, immutabile, a cui attingere per districarsi nella vita mondana. Le idee in alto, le cose in basso, nel mondo. Lo stesso vale per gli uomini, per gli eroi soprattutto. Pensiamo a Orlando. In alto stava il suo senno, che corrispondeva all’ideale del cavaliere perfetto, in terra stavano i suoi umori di uomo incline all’incazzatura, e quando il cavaliere pugnace capisce di non essere ricambiato in amore dalla bella e furba Angelica, eccolo diventare Orlando Furioso, uomo che il senno lo smarrisce - dunque smarrisce il centro di gravità permanente - sulla Luna, combinando pasticci sulla Terra. Ai giorni nostri, sta accadendo qualcosa di analogo all’eroe del pallone Cristiano Ronaldo, idealmente CR7. La scissione, non ancora compiuta, ma possibile, avviene da un po’ di stagioni a questa parte. Da un lato c’è CR7, l’ideale di atleta perfetto: meticoloso ai limiti dell’ossessione, trascorre la vita tra cibi proteici, allenamenti allo spasimo, sedute di crioterapia, iniziative imprenditoriali redditizie, determinato nell’infrangere record. Poi c’è Cristiano, l’uomo, esposto alle fragilità del tempo che galoppa, e se qualche partita comincia a non girare come dovrebbe o come sarebbe girata in passato, il rischio di perdere il suo centro umano e psicologico diventa concreto. Ci vengono in aiuto alcuni episodi recenti. Il primo è avvenuto durante la terza giornata di Premier League. Si confrontavano Manchester United e Liverpool all’Old Trafford, la formazione di partenza dei Red Devils di Erik Ten Hag non contemplava il campione portoghese tra i titolari e, durante il riscaldamento, Ronaldo si è avvicinato alla postazione dei commentatori tecnici di Sky Sports, salutando con discreto calore gli amici Roy Keane, Gary Neville e Rio Ferdinand, ignorando di proposito Jamie Carragher, ex capitano del Liverpool, adesso opinionista. Addirittura, quando Carragher ha improvvisato una stretta di mano, Cristiano ha fatto di tutto per dribblarlo, manco fosse stato impegnato in una serpentina decisiva davanti alla rete. Il motivo del gelo è presto detto. Qualche giorno fa Carragher ha pungolato nell’orgoglio il cinque volte pallone d’oro: «Nessun club vuole più Ronaldo, forse nemmeno il Manchester», ha sibilato. Il CR7 di un tempo, campione impeccabile, avrebbe risposto sul campo, forse avrebbe accettato la sfida con una risata competitiva. Ma il Cristiano di oggi no, perché il timore che qualcosa, a 37 anni, possa non funzionare come prima, scalfisce persino le certezze granitiche. Torniamo indietro di qualche mese, a metà aprile, stagione di Premier 2021-22. Dopo una sconfitta con l’Everton, Ronaldo inforca il tunnel degli spogliatoi, lo sguardo nero come la pece. In una ventata di stizza, rifila una manata sul telefonino di un tifoso avversario, facendoglielo cadere. Peccato che quel tifoso si chiamasse Jake, quattordicenne ragazzo autistico, difeso dalla madre che è andata su tutte le furie per la reazione del fuoriclasse. Ecco allora che Cristiano è tornato a vestire i panni di CR7, scusandosi con i media in una dichiarazione apparsa però come un ripiegamento strategico di facciata: «Non è mai facile controllare le emozioni in momenti come questi. Vorrei chiedere scusa per il mio sfogo e, se possibile, vorrei che il tifoso coinvolto venisse all’Old Trafford ad assistere a una partita, come dimostrazione di fair play e sportività». Leggere bene tra le righe. Si parla di controllo delle emozioni. Era quella, la prerogativa capace di far da collante tra il CR7 del mondo delle idee e il Cristiano della vita di tutti i giorni. Il calciatore lusitano da sempre ha fatto del controllo di se stesso, oltre che di palla, il punto di forza per sfoderare giocate al limite dell’impossibile, sghignazzare delle fragilità umane e non arrendersi all’anagrafe. Ora sta scoprendo che quelle fragilità riguardano pure lui. Beninteso, sia l’uomo, sia il campione, sono ancora sulla breccia e la bandiera bianca è ben lontana dall’essere sventolata. Ma Ronaldo oggi sta vivendo un periodaccio, e l’allenatore dello United non lo sta aiutando granché. Già domenica 31 luglio, in pieno precampionato, si è sfiorato l’incidente diplomatico. Sostituito da Amad Diallo al termine del primo tempo nell’amichevole contro il Rayo Vallecano, Cristiano non l’ha presa affatto bene ed è stato fotografato mentre lasciava gli spogliatoi in anticipo. «Non lascio passare quel che è successo», ha tuonato Ten Hag in conferenza stampa, «siamo una squadra e anche lui avrebbe dovuto restare con noi fino alla fine. Lo ritengo un gesto inaccettabile». Quasi ad ammonire: non c’è spazio per i marchesi Del Grillo. Ci sono però i numeri a venire in soccorso del fenomeno in difficoltà: nella scorsa stagione, su 33 presenze con la maglia più blasonata di Manchester, il numero 7 ha segnato ben 18 gol, garantendo solido apporto a un campionato non proprio brillantissimo per i Red Devils. Già era accaduto negli anni con la Juventus: 98 presenze complessive, 81 reti, spesso decisive, ma la consapevolezza vaga di giocare più per se stesso, che per una compagine coesa disposta a supportarlo in ogni occasione. Il divorzio dai bianconeri è avvenuto anche per necessità economiche: 31 milioni di euro netti a stagione non sono bruscolini nemmeno per il portafoglio di Rockfeller. Con la nazionale portoghese è diverso, lì CR7 è CR7 in tutto e per tutto, profeta in patria di una schiera adorante, il cui individualismo inevitabile, condito dalla classe che quasi tende a rimarcarne antiche origini patrizie, fa di lui ancora un dominatore svolazzante capace di calpestare a suon di gol e assist persino le passioni più sanguigne. Di certo però questa stagione più di altre annuncia una battaglia mai vissuta prima d’ora dal portoghese: tenere unite le componenti ideali dell’atleta invincibile dalle umane paure dell’uomo mortale, ricercando un declino bello come un declivio, un viale del tramonto che parta dal belvedere e attutisca il botto di una caduta che prima o poi l’anagrafe decreterà senza scampo. C’è ancora del tempo, del certosino lavoro di diplomazia da imbastire per ragionare con mister Ten Hag e non rifilargli l’accoglienza riservata all’arcinemico Carragher. Oppure, c’è da trovare un club più incline ad assecondarne le ambizioni - quelle sì - inalterate fin da quando, nella culla, si dice strozzò dei serpenti.
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Sul piano sportivo può ancora essere una macchina da 30 gol a stagione, però il tempo scorre e per la prima volta in carriera non è sicuro di sé: litiga con tifosi, allenatore e giornalisti. Se le sue due anime non vanno a braccetto, è solo una star bizzosa. Diavolo d’un Platone! A lui si deve buona parte del modo di pensare la vita in Occidente, individuando prospettive che ci riparino dalla rapina del nulla, dal timore della fine. Il filosofo greco capì che per proteggere le cose dal rischio della disgregazione, era opportuno collocarle, come puro ideale, nel mondo delle idee, un mondo iperuranico, perfetto, immutabile, a cui attingere per districarsi nella vita mondana. Le idee in alto, le cose in basso, nel mondo. Lo stesso vale per gli uomini, per gli eroi soprattutto. Pensiamo a Orlando. In alto stava il suo senno, che corrispondeva all’ideale del cavaliere perfetto, in terra stavano i suoi umori di uomo incline all’incazzatura, e quando il cavaliere pugnace capisce di non essere ricambiato in amore dalla bella e furba Angelica, eccolo diventare Orlando Furioso, uomo che il senno lo smarrisce - dunque smarrisce il centro di gravità permanente - sulla Luna, combinando pasticci sulla Terra. Ai giorni nostri, sta accadendo qualcosa di analogo all’eroe del pallone Cristiano Ronaldo, idealmente CR7. La scissione, non ancora compiuta, ma possibile, avviene da un po’ di stagioni a questa parte. Da un lato c’è CR7, l’ideale di atleta perfetto: meticoloso ai limiti dell’ossessione, trascorre la vita tra cibi proteici, allenamenti allo spasimo, sedute di crioterapia, iniziative imprenditoriali redditizie, determinato nell’infrangere record. Poi c’è Cristiano, l’uomo, esposto alle fragilità del tempo che galoppa, e se qualche partita comincia a non girare come dovrebbe o come sarebbe girata in passato, il rischio di perdere il suo centro umano e psicologico diventa concreto. Ci vengono in aiuto alcuni episodi recenti. Il primo è avvenuto durante la terza giornata di Premier League. Si confrontavano Manchester United e Liverpool all’Old Trafford, la formazione di partenza dei Red Devils di Erik Ten Hag non contemplava il campione portoghese tra i titolari e, durante il riscaldamento, Ronaldo si è avvicinato alla postazione dei commentatori tecnici di Sky Sports, salutando con discreto calore gli amici Roy Keane, Gary Neville e Rio Ferdinand, ignorando di proposito Jamie Carragher, ex capitano del Liverpool, adesso opinionista. Addirittura, quando Carragher ha improvvisato una stretta di mano, Cristiano ha fatto di tutto per dribblarlo, manco fosse stato impegnato in una serpentina decisiva davanti alla rete. Il motivo del gelo è presto detto. Qualche giorno fa Carragher ha pungolato nell’orgoglio il cinque volte pallone d’oro: «Nessun club vuole più Ronaldo, forse nemmeno il Manchester», ha sibilato. Il CR7 di un tempo, campione impeccabile, avrebbe risposto sul campo, forse avrebbe accettato la sfida con una risata competitiva. Ma il Cristiano di oggi no, perché il timore che qualcosa, a 37 anni, possa non funzionare come prima, scalfisce persino le certezze granitiche. Torniamo indietro di qualche mese, a metà aprile, stagione di Premier 2021-22. Dopo una sconfitta con l’Everton, Ronaldo inforca il tunnel degli spogliatoi, lo sguardo nero come la pece. In una ventata di stizza, rifila una manata sul telefonino di un tifoso avversario, facendoglielo cadere. Peccato che quel tifoso si chiamasse Jake, quattordicenne ragazzo autistico, difeso dalla madre che è andata su tutte le furie per la reazione del fuoriclasse. Ecco allora che Cristiano è tornato a vestire i panni di CR7, scusandosi con i media in una dichiarazione apparsa però come un ripiegamento strategico di facciata: «Non è mai facile controllare le emozioni in momenti come questi. Vorrei chiedere scusa per il mio sfogo e, se possibile, vorrei che il tifoso coinvolto venisse all’Old Trafford ad assistere a una partita, come dimostrazione di fair play e sportività». Leggere bene tra le righe. Si parla di controllo delle emozioni. Era quella, la prerogativa capace di far da collante tra il CR7 del mondo delle idee e il Cristiano della vita di tutti i giorni. Il calciatore lusitano da sempre ha fatto del controllo di se stesso, oltre che di palla, il punto di forza per sfoderare giocate al limite dell’impossibile, sghignazzare delle fragilità umane e non arrendersi all’anagrafe. Ora sta scoprendo che quelle fragilità riguardano pure lui. Beninteso, sia l’uomo, sia il campione, sono ancora sulla breccia e la bandiera bianca è ben lontana dall’essere sventolata. Ma Ronaldo oggi sta vivendo un periodaccio, e l’allenatore dello United non lo sta aiutando granché. Già domenica 31 luglio, in pieno precampionato, si è sfiorato l’incidente diplomatico. Sostituito da Amad Diallo al termine del primo tempo nell’amichevole contro il Rayo Vallecano, Cristiano non l’ha presa affatto bene ed è stato fotografato mentre lasciava gli spogliatoi in anticipo. «Non lascio passare quel che è successo», ha tuonato Ten Hag in conferenza stampa, «siamo una squadra e anche lui avrebbe dovuto restare con noi fino alla fine. Lo ritengo un gesto inaccettabile». Quasi ad ammonire: non c’è spazio per i marchesi Del Grillo. Ci sono però i numeri a venire in soccorso del fenomeno in difficoltà: nella scorsa stagione, su 33 presenze con la maglia più blasonata di Manchester, il numero 7 ha segnato ben 18 gol, garantendo solido apporto a un campionato non proprio brillantissimo per i Red Devils. Già era accaduto negli anni con la Juventus: 98 presenze complessive, 81 reti, spesso decisive, ma la consapevolezza vaga di giocare più per se stesso, che per una compagine coesa disposta a supportarlo in ogni occasione. Il divorzio dai bianconeri è avvenuto anche per necessità economiche: 31 milioni di euro netti a stagione non sono bruscolini nemmeno per il portafoglio di Rockfeller. Con la nazionale portoghese è diverso, lì CR7 è CR7 in tutto e per tutto, profeta in patria di una schiera adorante, il cui individualismo inevitabile, condito dalla classe che quasi tende a rimarcarne antiche origini patrizie, fa di lui ancora un dominatore svolazzante capace di calpestare a suon di gol e assist persino le passioni più sanguigne. Di certo però questa stagione più di altre annuncia una battaglia mai vissuta prima d’ora dal portoghese: tenere unite le componenti ideali dell’atleta invincibile dalle umane paure dell’uomo mortale, ricercando un declino bello come un declivio, un viale del tramonto che parta dal belvedere e attutisca il botto di una caduta che prima o poi l’anagrafe decreterà senza scampo. C’è ancora del tempo, del certosino lavoro di diplomazia da imbastire per ragionare con mister Ten Hag e non rifilargli l’accoglienza riservata all’arcinemico Carragher. Oppure, c’è da trovare un club più incline ad assecondarne le ambizioni - quelle sì - inalterate fin da quando, nella culla, si dice strozzò dei serpenti.
Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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Francesco Borgonovo, Gianluca Zanella e Luigi Grimaldi fanno il punto sul caso Garlasco: tra nuove indagini, DNA, impronte e filoni paralleli, l’inchiesta si muove ormai su più livelli. Un’analisi rigorosa per capire a che punto siamo, cosa è cambiato davvero e quali nodi restano ancora da sciogliere.