2021-03-05
Dopo la crisi viene il peggio: l’iperinflazione
Molti segnali lasciano intendere che sia alle porte il rischio di un aumento vertiginoso dei prezzi come accadde negli anni di Weimar. Succede quando la capacità produttiva di un Paese viene affossata. Per scongiurare il pericolo occorre salvare più aziende possibili.Oltre 2 milioni di famiglie in povertà. Colpite maggiormente le famiglie numerose. Ma avere i nonni diventa una risorsa.Lo speciale contiene due articoli.In meno di un mese - a partire dall'11 febbraio - i prezzi di tutte le obbligazioni sono diminuiti. Non fa eccezione il debito sovrano. Il loro rendimento è aumentato. Guardate la scadenza benchmark a dieci anni. Laddove il rendimento era negativo (ad esempio la Germania «fruttava» un -0,46%) oggi è un po' meno negativo (-0,31%). In pratica il rendimento è «aumentato» di quasi un terzo. Laddove invece il rendimento era già sopra lo zero oggi è ancor più elevato. Il rendimento a dieci anni del debito americano si attesta all'1,46% (+25%); quello del debito britannico si posiziona allo 0,74% (+58%); quello giapponese oscilla intorno allo 0,13% (+80%). Il rendimento dei Btp raggiunge lo 0,74% (+65%). Gli analisti, gli investitori e anche qualche banchiere centrale si danno una spiegazione quasi unanime: sta tornando l'inflazione e quindi i creditori si cautelano prestando soldi ad un tasso più alto. Michael Burry, l'uomo che ha previsto per primo l'arrivo della grande crisi finanziaria del 2008, interpretato da Christian Bale nel film The big short, è arrivato a parlare di «iperinflazione». Non un generalizzato aumento dei prezzi ma qualcosa di molto più grave. Assimilabile a ciò che è accaduto in Germania dopo la Prima guerra mondiale. Quando l'aneddotica parla di avventori nei pub che ordinavano due birre insieme sapendo che nel frattempo il prezzo della seconda sarebbe sicuramente aumentato. Si parla convenzionalmente di iperinflazione quando l'incremento dei prezzi supera l'1 per cento al giorno o, alternativamente, il 50 per cento in un mese. La domanda che ci poniamo è se questi rischi esistano. Ricordiamoci che stiamo ancora attraversando - soprattutto in Italia - la più drammatica crisi economica della storia unitaria in tempo di pace. Il nostro reddito è crollato di oltre 150 miliardi nel 2020 a fronte di una previsione di recupero di circa 60 nel 2021. In altre parole, mentre moriamo di freddo qualcuno si preoccupa che la nostra febbre potrebbe superare i 40 gradi.Andiamo con ordine. Se parliamo di iperinflazione, giova rifarsi ad una ricerca del Cato Institute. Nel 2012 gli economisti Hanke e Krus hanno pubblicato uno studio in cui hanno attentamente inventariato, catalogato e studiato 56 episodi di iperinflazione della storia contemporanea. Dall'Ungheria del 1945 allo Zimbabwe del 2008. Dalla citata repubblica di Weimar del 1922 alla Iugoslavia di settant'anni dopo. Le loro conclusioni erano limpide. «L'iperinflazione è una malattia dell'economia che sorge in condizioni estreme quali guerre, conflitti civili, dittature e transizioni da economie di mercato a sistemi economici pianificati o viceversa». Spesso si parla addirittura di concause dal momento che tali circostanze quasi mai si presentano da sole. «Prendi una qualsiasi economia. Distruggi il 60%-70% della sua capacità produttiva e ti accorgerai che non appena si ricomincerà a spendere i prezzi saliranno alle stelle». È l'inizio di una lectio magistralis del 2016 con cui l'economista australiano Bill Mitchell spiegava appunto l'iperinflazione nello Zimbabwe. Conclusioni sinistre e non rassicuranti se confrontate con le affermazioni di Mario Draghi pubblicate sulle colonne del Financial Times quasi un anno fa: «I livelli del debito pubblico aumenteranno. Ma l'alternativa - una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale - sarebbe molto più dannosa per l'economia e alla fine per lo stesso gettito del bilancio pubblico». Il futuro premier paventava allora le stesse conclusioni cui molti anni prima erano arrivati gli economisti del Cato Institute e Bill Mitchell. Con una non trascurabile differenza. Stava parlando di futuro. Del nostro futuro, in parte ancora da scrivere. La domanda cui rispondere ora pertanto è: «È stato fatto tutto quanto necessario per preservare la nostra capacità produttiva e quindi scongiurare il rischio di iperinflazione?». La risposta purtroppo è no. Sono definitivamente scomparse nel 2020 circa 500.000 imprese secondo Confcommercio. Stando alla Cgia di Mestre il fatturato perso dalle piccole e medie imprese italiane nel 2020 è quantificato in circa 420 miliardi. E il precedente governo aveva messo a loro disposizione, coi vari scostamenti di bilancio effettuati a singhiozzo appena 29 miliardi. Nemmeno il 7%. Intere filiere completamente rase al suolo: dalla ristorazione all'accoglienza alberghiera; dai trasporti alla convegnistica; dalle fiere al commercio ambulante; dallo sport alla cultura e spettacolo in genere. La seconda domanda cui rispondere è: «Si può fare ancora qualcosa?». La risposta è sì. E quel Mario Draghi che ora è al governo sta predisponendo un nuovo decreto volto a indennizzare quasi 3 milioni di partite Iva. Con sussidi a fondo perduto che vanno dal 15% al 33% del fatturato perso. La terza domanda cui occorre darsi una risposta è: «Sarà sufficiente?». La mia risposta è: «Non lo so finché non avremo l'esatta indicazione del totale delle risorse messe a disposizione». Post-scriptum. Al di là di quanto scritto, traspare tuttavia nelle considerazioni di alcuni economisti una spiegazione meno apocalittica in merito alle recenti turbolenze sui mercati obbligazionari. Ducrozet e Fossing Nielsen parlano di una Bce che ha notevolmente rallentato gli acquisti di titoli di Stato nell'ultima settimana scendendo al minimo di dodici miliardi. Mentre la Bundesbank parla invece apertamente di ripresa inflazionistica alle porte e quindi basta coi soldi facili. A dargli manforte il governatore della Banca d'Olanda. Nella migliore delle ipotesi funziona così: se i trader incaricati dalla Bce di acquistare titoli di Stato vanno due minuti in bagno lasciando la postazione sguarnita, sui mercati obbligazionari scoppia il finimondo. Se invece la trattengono e continuano a comprare, il finimondo lo faranno scoppiare i tedeschi che di Quantitative easing ne hanno piene le scatole. Scegliete quale delle alternative vi piace di più. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/crisi-viene-il-peggio-liperinflazione-2650903508.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="piu-di-2-milioni-di-famiglie-in-poverta-laumento-peggiore-pesa-sul-nord" data-post-id="2650903508" data-published-at="1614894461" data-use-pagination="False"> Più di 2 milioni di famiglie in povertà. L’aumento peggiore pesa sul Nord Aumenta la povertà assoluta tra gli italiani. Secondo le stime preliminari redatte ieri dall'Istat, nel 2020 le famiglie in povertà assoluta erano oltre 2 milioni (+335.000), per un numero complessivo di individui pari a circa 5,6 milioni. Nell'anno della pandemia si sono azzerati i miglioramenti registrati nel 2019. Dopo quattro anni consecutivi di aumento, si erano infatti ridotti in misura significativa il numero e la quota di famiglie e di individui in povertà assoluta. E dunque, secondo le stime Istat, la povertà assoluta raggiunge, in Italia, i valori più elevati dal 2005, anno a partire dal quale è disponibile la serie storica per questo indicatore. Il contraccolpo peggiore, spiega l'Istituto, l'hanno però registrato le famiglie in cui la persona di riferimento è nella fase centrale dell'esistenza lavorativa. Per quelle dove il soggetto attivo è tra i 35 e i 44 anni e tra i 45 e i 54, l'incidenza di povertà assoluta è cresciuta rispettivamente dall'8,3% al 10,7% e dal 6,9% al 9,9%. Sono infatti le famiglie con la persona di riferimento occupata a risentire di più degli effetti della crisi (l'incidenza passa dal 5,5% al 7,3%), mentre per quelle con persona attiva in cerca di occupazione la situazione si mantiene stabile. Inalterata è invece la condizione per quei nuclei dove il soggetto centrale si è ritirato dal lavoro (si passa dal 4,3% del 2019 a 4,4% nel 2020). Altri dati Istat mostrano inoltre come la povertà assoluta colpisca maggiormente le famiglie più numerose. Se, infatti, fino a quattro componenti l'incremento si mantiene sotto i due punti percentuali o poco più, per quelle con tre elementi si sale dal 6,1% all'8,6%, con quattro dal 9,6% all'11,3% e con cinque si peggiora di oltre quattro punti, passando dal 16,2% al 20,7%. «A veder peggiorare la propria condizione sono soprattutto le famiglie monogenitore (l'incidenza passa dall'8,9% all'11,7%), le coppie con un figlio (da 5,3% a 7,2%) e quelle con due (dall'8,8% al 10,6%). La presenza di figli minori espone maggiormente le famiglie alle conseguenze della crisi, con un'incidenza di povertà assoluta che passa dal 9,2% all'11,6%, dopo il miglioramento registrato nel 2019», si legge dal report. L'incidenza di povertà tra i minori di 18 anni cresce di oltre due punti percentuali, passando dall'11,4% a 13,6%, il valore più alto dal 2005. Ma non solo, perché la situazione peggiora anche nelle altre classi di età, ad eccezione degli ultra sessantacinquenni per i quali l'incidenza di povertà rimane sostanzialmente stabile. Fondamentale il ruolo dei nonni, soprattutto nell'anno della pandemia. La presenza in famiglia di uno o più titolari di una pensione garantisce entrate regolari e riduce il rischio. E infine, nel 2020, il Nord conta più di 218.000 famiglie in più in condizioni di povertà assoluta, rispetto all'anno precedente, con un'incidenza che passa dal 5,8% al 7,6%. Nel Mezzogiorno, le persone povere crescono di quasi 186.000 unità, mentre nel centro risultano essere in povertà quasi 53.000 famiglie e circa 128.000 individui in più rispetto al 2019. Questo quadro dipinto dall'Istat non solo non è incoraggiante per il futuro ma preoccupa anche per un possibile aumento dell'inflazione. Secondo le previsioni della Commissione europea nella zona euro l'inflazione dovrebbe crescere passando dallo 0,3% del 2020 all'1,4% nel 2021, per poi scendere all'1,3% nel 2022. Dati che se si leggono insieme all'aumento della povertà rendono la situazione economica nazionale ancora più drammatica rispetto a quanto si pensasse, oltre che andare a peggiorare ulteriormente la realtà degli italiani.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)