2025-07-07
Più artigiani milanesi che operai Fiat
I dati diffusi dalla Cgia di Mestre sono impietosi: i dipendenti di Stellantis nel nostro Paese sono ridotti al lumicino. Le Pmi creano posti di lavoro, non le grandi dinastie.«Gli addetti nell’artigianato presenti nella ex provincia di Milano sono il triplo degli occupati che lavorano nel nostro Paese alle dipendenze del gruppo Stellantis. Se, infatti, la Città metropolitana del capoluogo regionale lombardo può contare su poco più di 134.000 addetti nell’artigianato, la casa automobilistica, invece, dà lavoro a 43.000 persone distribuite su gran parte del territorio nazionale». Questo è quanto ci dice l’ultimo documento pubblicato tre giorni fa dalla Cgia di Mestre.Questi dati potrebbero provocare l’ilarità di qualcuno e anche un senso di altezzoso disprezzo per l’incomparabilità dei dati dell’artigianato con quelli di una ex grande industria. Ma sarebbe l’atteggiamento proprio di chi non guarda alla realtà dei fatti, ma legge la realtà cercando conferme alle proprie idee. In tema di macchine, l’ultima dimostrazione di questo modo di vedere le cose e di leggere l’economia sta nella vicenda dell’auto elettrica a livello europeo, con riflessi tragici anche a livello nazionale. Tutto a favore della Cina, ma questo è un altro discorso sul quale, se avete tempo, andate a vedere quel che ne dice il professor Romano Prodi: capirete così molte di queste strategie.Il punto di vista dal quale guardare questa notizia, che proviene dall’ufficio Studi degli artigiani di Mestre, guidato dal bravo Paolo Zabeo, è quello contrario al piagnisteo che abbiamo dovuto subire per decenni, in Italia, sul presunto sottodimensionamento delle imprese e sulla necessità di ripensare al sistema industriale dando vita (senza che nessuno abbia mai spiegato con quali soldi, pubblici o privati, e in quali settori) a grandi industrie nazionali, ai famosi «campioni» che avrebbero avuto il compito di apportare alla nostra economia ciò che le piccole e medie imprese non potevano arrivare a realizzare. Mentre questi intelligentoni continuavano a fracassarci gli attributi con queste litanie insopportabili, le Pmi (cioè oltre il 97% delle imprese italiane) davano lavoro, creavano occupazione, creavano ricchezza e in più - come se non bastasse - eccellevano anche all’estero dando un contributo fondamentale al Pil italiano attraverso un export formidabile. Questa è la fotografia vera dell’Italia: delle imprese che hanno retto l’economia e i redditi negli ultimi decenni.Con questo non vogliamo sostenere che la presenza di grandi imprese italiane non rappresenterebbe un obiettivo desiderabile, ma la realtà dei fatti ci dice che queste imprese hanno succhiato soldi dallo Stato a mani basse senza neanche il minimo afflato di riconoscenza nei confronti dell’Italia. Chi volesse approfondire il tema può leggere il libro di Mario Giordano, Dinasty (Rizzoli), dove vengono descritti con precisione sia i soldi che quattro imprese hanno acchiappato sia l’attuale situazione di disinteresse, se non di disprezzo, nei confronti del Paese che li ha foraggiati alla greppia dei soldi pubblici. Si tratta della famiglia Benetton (vedi vicenda ponte Morandi), della famiglia ex Agnelli, ora lupi in quella Stellantis guidata fino a qualche tempo fa dall’indimenticabile Carlos Tavares che ha fatto più danni della grandine con le piogge di agosto e settembre nei vigneti, della famiglia Del Vecchio che ancora non ha risolto i problemi relativi all’eredità e si gingilla nel fiume di miliardi dai quali è stata travolta e, infine, della famiglia De Benedetti dove addirittura il padre, anche lui grande fruitore di quattrini pubblici (basti pensare all’introduzione dei registratori di cassa ad hoc per l’azienda), ha messo in piazza i problemi famigliari esprimendo disprezzo verso i figli definiti come incapaci e ora e divenuto giocatore in Borsa (come sempre: niente attività industriale, se non marginale). Quest’ultimo, con dottissimi articoli, ha tentato di indottrinarci sulla necessità di mantenere le grandi imprese come assi portanti dell’economia italiana. All’invettiva segue l’esempio contrario: come livello di coerenza non c’è male.Chi, nei decenni scorsi qualcuno, si azzardava a sostenere che la piccola e media impresa era un bene da tutelare perché reggeva gran parte dell’economia italiana, veniva tacciato di passatismo e nostalgia di un mondo che doveva andare oltre. Se quell’oltre è quello in cui lo stanno portando le citate famiglie italiane, noi continuiamo a preferire il prima e, soprattutto, avevamo palesemente ragione a sostenere le nostre tesi contro le loro.
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Ansa
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