2022-01-02
Il Covid ha fatto ammalare il diritto. I decreti ormai sono incomprensibili
Le norme emanate dal governo contengono continui rimandi a testi precedenti: orientarsi è diventato impossibile. La pandemia ha aggravato uno dei difetti italiani: abbiamo troppe leggi e scritte pure male.Volete procurarvi la prima potente emicrania di inizio anno? Provate a leggere l’articolo 8, scelto a caso, del cosiddetto «decreto festività», quello varato dal governo il 24 dicembre scorso. Rubrica della norma? «Impiego delle certificazioni verdi Covid 19». In altre parole, l’articolo dovrebbe chiarire il nuovo funzionamento del green pass. Giudicate voi: «Dal 10 gennaio 2022 fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid 19, l’accesso ai servizi e alle attività, di cui all’articolo 9-bis, comma 1, lettere c), d) f), g), h), del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, è consentito esclusivamente ai soggetti in possesso delle certificazioni verdi Covid 19, di cui all’articolo 9, comma 2, lettere a), b) e c-bis) del decreto-legge n. 52 del 2021, nonché ai soggetti di cui all’articolo 9-bis, comma 3, primo periodo, del decreto-legge n. 52 del 2021».Non vi basta ancora? Adesso provate a leggere l’articolo 4 dell’ultimissimo decreto, quello del 29 dicembre. Stavolta il tema della norma è la disciplina sanzionatoria. Per carità di patria mi limito a riportare solo le primissime righe del primo comma: «La violazione delle disposizioni previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 1 e degli obblighi previsti dall’articolo 2 del presente decreto è sanzionata ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35. La violazione delle disposizioni previste dagli articoli 4, 5, 6, 7, commi 1 e 2, 8, commi 1 e 2, 11, comma 2, del decreto-legge 24 dicembre 2021, n. 221, continua ad essere sanzionata ai sensi del citato articolo 4 del decreto-legge n. 19 del 2020. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74. I titolari o i gestori dei servizi e delle attività di cui all’articolo 1, commi 1 e 2, del presente decreto e agli articoli 4, comma 2, 5 e 8, comma 1, del decreto-legge 24 dicembre 2021, n. 221 sono tenuti a verificare che l’accesso ai servizi e alle attività avvenga nel rispetto delle disposizioni previste dai medesimi articoli». Come vedete, siamo all’assoluta incomprensibilità del diritto, resa ancor più paradossale dal fatto che, com’è noto, non sia possibile sottrarsi a una norma appellandosi alla mancata conoscenza della stessa («ignorantia legis non excusat»). È immaginabile che un barista o il gestore di un qualunque esercizio commerciale, oltre a tenere viva e aperta la sua attività (impresa di per sé improba) debba trasformarsi in un giurista con pluridecennale esperienza, destreggiandosi tra continui rinvii, rimandi, eccezioni, ipotesi e sottoipotesi? E quando poi il materiale normativo si accumula in tempi rapidissimi (è presumibile che il 5 gennaio avremo un nuovo decreto, il terzo in dodici giorni), la giungla si fa sempre più fitta e inestricabile. Leggendo in diretta televisiva a In Onda, su La7, la prima di queste due disposizioni, il professor Sabino Cassese è addirittura sbottato: «La mia domanda è: voi non pensate che gli autori di questa norma dovrebbero essere collocati in lockdown obbligatorio per almeno sei mesi? I cittadini hanno bisogno di essere trattati un po’ meglio». Su Twitter, il senatore della Lega Alberto Bagnai ha correttamente osservato che il problema è antico, pubblicando una proposta di riforma costituzionale (molto buona, e in ogni caso animata da ottime intenzioni) avanzata nella legislatura 1994-96 come primo firmatario dall’onorevole Serafino Pulcini e sottoscritta in modo rigorosamente bipartisan da un’ottantina di deputati. L’obiettivo era cambiare la modalità di redazione degli atti normativi, proibendo disposizioni che rimandassero ad altre norme. In sostanza, secondo Pulcini, se si modificava una norma precedente, la si sarebbe dovuta riportare in modo esteso e comprensibile, introducendo le novità e le correzioni, e abrogando in modo esplicito la vecchia norma residua. Naturalmente non se ne fece nulla. A onor del vero, i problemi in campo sono almeno cinque. Il primo è concettuale, direi filosofico: servono meno norme, meno leggi, occorrerebbe legiferare e regolamentare il meno possibile. Il secondo è ancora di impostazione: se proprio devi introdurre una nuova norma, pensala nel modo più chiaro e semplice, evitando un groviglio di casi e sottoipotesi. Era il senso dell’appello lanciato alla vigilia dell’ultimo Consiglio dei ministri, quello sulla quarantena, dalla giurista Vitalba Azzollini: naturalmente, la richiesta è rimasta inascoltata. Il terzo problema consisterebbe nella necessità (se ne parla da decenni) di raccogliere le norme esistenti in codici e leggi quadro, provvedendo a un disboscamento massiccio e a poderose abrogazioni espresse (non implicite) delle norme superate. Il quarto consisterebbe - in ogni ambito - nello scrivere norme autoapplicative, che cioè non richiedano ulteriori provvedimenti attuativi. Il quinto consisterebbe in una valutazione preventiva dell’impatto di ogni nuova norma che si introduce: governo e Parlamento fanno un esame anticipato di ciò che accadrà materialmente quando stanno per varare una nuova regola? In mancanza di ciò, si finisce a ciò a cui ci siamo tristemente abituati nell’ultimo biennio. Il Covid in Italia ha funzionato da acceleratore dell’ipertrofia normativa. E abbiamo piano piano subìto di tutto: i Dpcm di Giuseppe Conte, la circolazione preventiva (e poi pluricontraddetta) di bozze, fino alle mitiche faq (le domande e risposte sul sito di Palazzo Chigi) de facto trasformate in una innovativa fonte del diritto a posteriori. Con Mario Draghi, incredibilmente, si è riusciti a fare perfino di peggio: norme sempre più kafkiane (indipendentemente dal merito), e membri del Cts o giornalisti filogovernativi che il giorno dopo, sui social, fanno tragicomicamente sapere di aver avuto dal ministero «l’interpretazione corretta». E contro questo tipo di contagio non c’è vaccino o immunizzazione che tenga.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)