2024-06-07
La Costituzione vieta di dare aiuti militari se Zelensky respinge le trattative di pace
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Quello di Mosca non è più un attacco, ma una «controversia». Che l’articolo 11 della Carta impone di risolvere con il dialogo.L’Italia non è in guerra con la Russia. Vuole soltanto aiutare l’Ucraina a resistere all’aggressione russa, fornendole armi da impiegare, però, solo sul suo territorio ed escludendo comunque l’invio di personale militare. Questa, com’è noto, è la posizione più volte ribadita dal nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani, sulla scorta anche del richiamo all’articolo 11 della Costituzione, secondo cui: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Si tratta di una posizione sicuramente degna del massimo apprezzamento, a fronte dell’insensata e pericolosissima deriva bellicista che sembra invece prevalere, sia pure in varia misura, in alcuni fra i principali Paesi della Nato. Non sembra altrettanto sicuro, però, che essa sia perfettamente in linea proprio con l’invocato articolo 11 della Costituzione, specie nella parte in cui lo stesso si riferisce alla guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Quand’è che si è in presenza di una «controversia internazionale»? Quando (semplificando al massimo) due Stati avanzano ciascuno nei confronti dell’altro contrapposte e inconciliabili pretese politiche, economiche, militari o territoriali. Non può dirsi, quindi, che rientri in tale nozione la situazione che si produce a seguito della pura e semplice aggressione armata di uno Stato nei confronti di un altro. In una tale situazione, infatti, quella che si configura è soltanto la legittima difesa che, anche in base all’articolo 51 della Carta della Nazioni unite, lo Stato aggredito ha il diritto di esercitare nei confronti dell’aggressore. Non potrebbe, pertanto, ritenersi in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione l’avvenuta prestazione, da parte dell’Italia, di assistenza militare a sostegno dell’Ucraina, aggredita nel febbraio 2022 dalla Russia, salvo a nutrire le più ampie riserve circa la giustificabilità sotto il profilo puramente politico di una tale scelta, implicando essa, per noi, sacrifici e pericoli in assenza di un nostro riconoscibile, vitale interesse, come pure di obblighi derivanti da trattati internazionali. La cosa cambia, però, in presenza dell’offerta da parte dello Stato aggressore dell’apertura di trattative non subordinate a una resa incondizionata da parte dell’aggredito; offerta alla quale quest’ultimo opponga un rifiuto. In tal caso, infatti, non essendo più in gioco almeno nell’immediato la sopravvivenza dello Stato aggredito, a tutela della quale esso non abbia altro mezzo che non sia quello della difesa armata, si produce una situazione perfettamente inquadrabile nella già indicata nozione di «controversia internazionale», in cui non contano le ragioni o i torti, veri o presunti, di ciascuna delle parti nei confronti dell’altra ma conta soltanto l’oggettiva esistenza delle contrapposte pretese. E viene a essere allora di tutta evidenza che continuare a sostenere, sia pure con la sola fornitura di armi, la parte che, rifiutando la trattativa, con ciò stesso dimostra che quella controversia intende risolverla confidando soltanto nell’uso della forza, comporta una flagrante violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Ora, è appunto questa la situazione che in concreto si verifica con riguardo al conflitto russo ucraino, avendo la Russia più volte manifestato la propria disponibilità a trattative indubbiamente implicanti l’accettazione, in prospettiva, da parte dell’Ucraina di pesanti sacrifici territoriali, non tali tuttavia da determinare la sua fine come Stato indipendente e sovrano. Va da sé, naturalmente, che l’Ucraina può avere tutte la buone ragioni di questo mondo per rifiutare anche la sola prospettiva di quei sacrifici e proseguire sulla strada del confronto militare, nella speranza che esso volga, una volta o l’altra, a suo favore. Si tratta, però, di una sua scelta che non può dirsi in alcun modo imposta da imprescindibili e immediate esigenze di sopravvivenza. A fronte di essa quindi, per quanto riguarda l’atteggiamento dell’Italia, dovrebbe necessariamente prevalere il divieto costituzionale del ricorso alla guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», con conseguente illiceità, in caso contrario, della prosecuzione dell’assistenza militare in favore dello Stato che di quel mezzo abbia invece dimostrato di volersi avvalere. Né potrebbe in contrario farsi leva sugli obblighi derivanti all’Italia della sua appartenenza alla Nato. Quest’ultima, infatti, come chiaramente risulta dal suo trattato istitutivo, ha esclusivamente la finalità di assicurare la difesa di tutti e soli gli Stati a essa aderenti da attacchi o minacce provenienti dall’esterno. In nessun modo e per nessuna ragione quegli Stati possono, quindi, ritenersi vincolati a decisioni che implichino interventi o prestazioni di qualsiasi natura a sostegno di altri che, come l’Ucraina, non siano tra quelli aderenti. Tanto è vero che un Paese come la Turchia, pur membro importante della Nato, non fornisce all’Ucraina (a quanto è dato sapere) alcun tipo di assistenza militare senza che di ciò nessuno le faccia colpa. Meno che mai la prosecuzione dell’assistenza militare in favore dell’Ucraina potrebbe poi ritenersi imposta dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, in forza di decisioni assunte dai suoi organi rappresentativi, quando esse, ancorché adottate all’unanimità (come previsto, in genere, per quelle in materia di politica estera e di sicurezza comune), siano in oggettivo contrasto con taluna delle norme contenute nel Trattato istitutivo; il che appare abbastanza evidente nel caso in questione, considerando che, in base all’articolo 42, comma 7, del suddetto Trattato, il comune obbligo di prestare aiuto e assistenza a fronte di un’aggressione armata riguarda la sola ipotesi che quest’ultima abbia a oggetto uno Stato membro (quale l’Ucraina non è), e valendo, per ogni altra ipotesi, l’articolo 21, nella parte in cui, alla lettera c) del comma 2, indica come finalità proprie dell’«azione esterna dell’Unione» quelle, in primo luogo, di «preservare la pace» e «prevenire i conflitti». Finalità, queste, che appaiono del tutto in contrasto con la politica attualmente seguita dall’Unione, volta invece ad alimentare in tutti i modi il conflitto già in atto fra due Paesi che non ne fanno parte, non escludendosi neppure un intervento diretto nel medesimo e sostenendosi, per giunta, contrariamente alla logica più elementare, che questa sarebbe la via per giungere più rapidamente alla pace. Salvo a pensare a quest’ultimo riguardo che, in verità, si voglia soltanto realizzare quello stesso «deserto» che, secondo le parole messe da Tacito in bocca a un capo dei britanni in lotta contro i romani, questi ultimi creavano con le loro guerre, chiamandolo poi «pace».Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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