2023-08-29
La Costituzione non è una clava da utilizzare contro il generale
Roberto Vannacci (Stato Maggiore Esercito)
La libertà di parola deve valere per tutti, all’interno di un conflitto legittimo garantito dalla Carta in quanto «spazio simbolico comune». È molto pericoloso trasformare le regole del gioco in uno strumento di parte.La vicenda del generale Vannacci merita di essere commentata indipendentemente dal merito e dalle sue posizioni personali, che possono essere accettate, criticate, respinte. Si tratta, infatti, di una storia emblematica, oltre la sua dimensione specifica, di una condizione della società e del pensiero oggi in Italia, ma in genere in Occidente e forse nel mondo, che può essere definita in un sol modo: l’età della decadenza.Definire la nostra età come decadente provoca l’obiezione delle menti più accorte, secondo le quali, a dire il vero giustamente, si può giudicare un’età solo quando essa si è conclusa, quando si è già oltre. È vero, ma la nostra età si differenzia da quelle precedenti per una caratteristica ben evidenziata da Ernst Jünger, uno dei suoi più lucidi diagnosti: la nostra età, che sia moderna, postmoderna, ultramoderna o altro, è l’età della accelerazione. Noi viviamo in un tempo di accelerazione, ma soprattutto di accelerazione crescente; non è solo il motore che gira sempre più velocemente, ma la carrozzeria che si trasforma con una velocità crescente, assumendo colori e forme sempre nuove, sicché il giudizio è certamente labile, perché l’oggetto del giudizio dopo poco si è dissolto. Il giudizio può tuttavia, se attento, cogliere l’essenza del movimento, ovvero il fine, il dove verso cui il movimento si dirige pur senza raggiungere mai il punto finale.Questa essenza consiste nell’individualizzazione dell’esperienza, ovvero nell’impossibilità per la gente comune e non solo di cogliere altro che il proprio io, anzi la propria egoità, ovvero una sorta di buco nero che assorbe o crede o pretende di assorbire tutto ciò che non è «io», «egoità». Si tratta di un processo inarrestabile di cui sempre più si vedono gli effetti, che non sono contingenti, ma strutturali al movimento, ovvero alla società nella quale viviamo e dalla quale è impossibile sciogliersi. Il processo di individualizzazione, nato nobilmente con il cogito di Cartesio, ha raggiunto i suoi esiti più ignobili nella potenza dell’io virtuale, astratto, fantasmatico quale si riconosce nei cosiddetti «social». Si tratta di un io che non conosce materia, sostanza, ma solo se stesso nella sua astratta virtualità; questa virtualità lo rende potente, anzi prepotente e strapotente, e nei giovani privi di cultura, ignari di dialogo e persino del concetto della conversazione, provoca la pratica della potenza nella dimensione che oramai qualifica il nostro tempo, non solo la sessualità assolutista e libertaria del marchese de Sade, ma la pseudo-sessualità che si riconosce solo nell’esercizio di se stessa nella forme più «trasgressive» perché fondate sulla violenza quale unica possibile «sapienza».L’indignazione per i recenti avvenimenti di violenza sulle donne in vari luoghi più o meno degradati del nostro Paese non solo nulla può per limitarla, ma nella sua diffusione attraverso i mezzi di informazione accresce la necessità oggettiva che l’egoità universale si riconosca come tale. Ora, nessun discorso può coprire l’oggetto trattato, nel senso di definirne i confini logici e pratici, soprattutto quando il discorso che si presume buono si chiude necessariamente su sé stesso. Come impedire che i barbari stupratori di Palermo continuino ad agire come agiscono? E così quelli di Caivano? Purtroppo, invocare la «cultura» è un gioco di anime belle, che si compiacciono di essere tali, ma nulla potrà mai «correggere» chi è oramai costretto dalla macchina del sistema ad essere quello che è ed è convinto che così deve essere. Se anche fosse possibile immaginare una fuoriuscita dalla decadenza, non sarebbe né per domani né per dopodomani, ma tra generazioni a venire. Il dialogo, la conversazione, non appartengono all’epoca che pure formalmente ha sancito la supremazia (costituzionale) della libertà di parola. E la carenza di scetticismo intellettuale da un lato e di dialogo dall’altro implica la necessità della decadenza (non a caso sempre più incapace di pensare la morte, come aveva già sottolineato Tolstoj).Il criterio stabilito vale anche per il libro del generale Vannacci. Non entro nel merito delle sue tesi, ma resta un fatto che le posizioni di Vannacci si sottraggono pregiudizialmente al dialogo, sia dalla parte sua sia da quella dei suoi critici, che possono al massimo richiamarsi alla Costituzione non come una base del dialogo, ma come l’altra parte delle posizioni del generale. Si tratta di un modo pericoloso di interpretare la Costituzione, la quale non è una parte che si erge contro un’altra, ma una forma (non a caso definita «salvagente» da Natalino Irti) che racchiude tutte le parti necessarie del dialogo possibile. La Costituzione, ogni Costituzione, a partire da quella americana, vuole essere una regola del gioco, non un giocatore. Se però si riduce la Costituzione ad essere questo, parte nel senso di fazione, l’altra parte sarà necessariamente anch’essa una fazione (chiusa nella propria individualità) e sarà assolutamente inutile fare appello alla Carta. La libertà di parola deve valere per tutti, nella misura in cui tutti possano entrare nella polemica verbale, nel conflitto sociale quale viene garantito dalla Costituzione in quanto «spazio simbolico comune» (Chantal Mouffe). Un generale non deve «servire la costituzione», ma la funzione che esercita obbedendo alle leggi dello Stato. La funzione è quella, in quanto militare, di essere pronto a difendere la nazione o lo Stato contro il nemico. Il generale Vannacci ha sempre assolto egregiamente a quella che è la sua funzione. Si può limitare il suo esercizio della libertà di parola, a condizione che questa limitazione valga per tutti, per esempio a cominciare dai giudici. Se però un giudice può difendere il matrimonio omosessuale, la stessa cosa può fare un generale che vuole difendere la famiglia tradizionale, in nome dello stesso diritto garantito dalla Costituzione. Diceva il giudice della Corte Suprema americana Oliver W. Holmes: «Il miglior test di verità è il potere del pensiero di farsi accettare nella competizione del mercato». Temo che il passaggio dall’epoca in cui le teste venivano tagliate a quella in cui venivano contate, per ricordare Canetti, si sia chiuso. Prepariamoci ad un’epoca sempre più buia.