
Il segreto del bilancio di Autostrade è semplice: pedaggi aumentati e investimenti tagliati. Così nel 2017 il margine operativo lordo è stato di 2,5 miliardi, cifra esorbitante per chi svolge un servizio di pubblica utilità. Chi volesse capire le ragioni del crollo del ponte Morandi dovrebbe innanzitutto partire da un numero: 60. Sessanta per cento è infatti il margine operativo medio di Autostrade per l'Italia, la concessionaria di proprietà della famiglia Benetton. Nel 2016 a fronte di 3,8 miliardi di ricavi, la società guidata da Giovanni Castellucci ha registrato un margine operativo lordo, cioè un utile prima delle tasse e degli oneri finanziari, di quasi 2,4 miliardi, pari al 62,7 per cento del fatturato. Un utile dell'esercizio, cioè il guadagno una volta pagate le imposte, di 930 milioni. Rapporto fra ricavi e utili, circa quattro a uno: mica male per un'azienda che svolge un servizio di pubblica utilità e che dunque dovrebbe garantire tariffe basse e non utili ai privati. In pratica significa che ogni 100 euro incassati dalla concessionaria, 25 sono soldi al netto delle tasse e degli investimenti che si mettono in tasca gli azionisti. Cioè i Benetton, gli imprenditori tanto cari alla sinistra terzomondista che piace a Oliviero Toscani. Nel 2017 alla famiglia di Ponzano Veneto, che ama le pecore ma soprattutto i pecoroni che ancora credono alla sinistra che aiuta il popolo, è andata anche meglio: poco meno di 4 miliardi di fatturato, quasi 2,5 miliardi di margine operativo lordo. Oltre un miliardo (1,042 per la precisione) gli utili. Unico punto nero di quell'esercizio, la riduzione degli investimenti operativi: 931 milioni nell'anno precedente, 556 milioni lo scorso anno. Meno investimenti, più utili.Il segreto del bilancio della società Autostrade è tutto qui. Del resto, le leve degli utili per un'azienda come quella dei Benetton sono semplici: visto che il traffico non aumenta ma diminuisce, se si vuole guadagnare di più o si aumentano i pedaggi, cioè si ottiene di far pagare tariffe più alte agli automobilisti, o si riducono le spese.A una prima occhiata ai bilanci del gruppo diciamo che i Benetton hanno usato entrambe le leve. Quando hanno potuto si sono fatti riconoscere dai governi amici, cioè quelli della sinistra, dei pedaggi più alti, promettendo di fare investimenti. Dopo di che hanno provveduto a limare i costi della manutenzione ordinaria. Cioè hanno risparmiato sugli interventi.Dall'interno dell'ex azienda dell'Iri ricordano che la privatizzazione e il passaggio al gruppo veneto coincise vent'anni fa con una profonda revisione delle spese. La parola d'ordine era semplice: tagliare i costi.Rileggendo i bilanci e attualizzandoli ai giorni nostri si scopre una cosa. Nel 1998, cioè prima di essere venduta da Romano Prodi e Massimo D'Alema alla famiglia di Ponzano, Autostrade fatturava meno di 1,96 miliardi e aveva costi per 1,36 , ma già nel 2001 i ricavi erano saliti a 2,05 miliardi, mentre i costi erano scesi a 1,16. In due soli esercizi 200 milioni di spese in meno, 100 milioni di fatturato in più. Ma questo è niente. Dieci anni dopo la privatizzazione, con al governo Prodi e ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, il fatturato sfiorava i 3 miliardi: 2,88 per la precisione, con 1,39 miliardi di costi. Margine, dunque, 1,5 miliardi. Ma nel 2016, sempre con la sinistra al governo, Benetton come detto si avvicinava con le sue Autostrade al tetto dei 4 miliardi mentre i costi erano praticamente gli stessi: 1,41 miliardi. Vent'anni di privatizzazione che si possono riassumere così: 2 miliardi in più di fatturato per i Benetton con costi di produzione praticamente invariati. Risultato: 1 miliardo di utile senza alcuno sforzo. Soprattutto senza investimenti. Tutto ciò a fronte di una riduzione del traffico.Chi ha permesso tutto ciò? Come è stato possibile che al concessionario di un servizio pubblico sia stata consentito di fare margini del 60 per cento quando un'azienda privata fatica a raggiungere il 15? È credibile che, nonostante l'assenza di controlli del ministero delle Infrastrutture, dell'Anas e dell'Autorità dei trasporti, nessuno si sia accorto dell'anomalia? No, non è credibile. Anche perché in alcune aziende del gruppo le spese di manutenzione ordinarie in soli cinque anni sono state tagliate di oltre il 30 per cento.Difficile che nessuno se ne rendesse conto. Di certo se ne rendeva conto Giovanni Castellucci, l'amministratore di Autostrade, che sui risultati di bilancio ha costruito il suo successo e soprattutto i suoi emolumenti. Negli ultimi anni il numero uno della società aveva messo alle sue dirette dipendenze le direzioni di tronco, trasformandole in succursali. Ogni decisione di spesa e investimento non era più decentrata come ai tempi dell'Iri ma doveva passare da Roma, cioè dalla direzione centrale. Nessuna autonomia per i funzionari, perché tutto riportava ai vertici. È la ragione per cui Castellucci e suoi più stretti collaboratori sono finiti sul banco degli imputati ad Avellino con l'accusa di omicidio colposo plurimo. Il processo, che si aprirà a dicembre, riguarda il bus precipitato giù da un ponte dell'autostrada A16 Napoli-Canosa, una strage in cui morirono 40 persone. Il mezzo era vecchio e non in condizioni di viaggiare, ma due funzionari della motorizzazione a quanto pare falsificarono i documenti per consentire al proprietario di continuare a trasportare le persone. Che c'entra Autostrade in tutto ciò, si chiederà qualcuno. C'entra, perché secondo la Procura, nonostante il bus non avesse i freni, se il guard rail fosse stato saldo la corriera non sarebbe precipitata ma sarebbe rimasta sulla carreggiata autostradale. La barriera invece non resistette al peso e ci fu il salto nel vuoto. Un salto che, come quello del ponte Morandi, nessun margine operativo lordo o netto potrà mai giustificare. La Procura e gli esperti probabilmente spiegheranno che il crollo di Genova e la strage di automobilisti sono da attribuire ai tiranti che hanno ceduto all'improvviso, ma chi spiegherà ai parenti delle vittime la decisione di tirare sui costi di gestione e aumentare gli utili di Autostrade?
Donald trump e Viktor Orbán (Ansa)
Il premier ungherese è stato ricevuto a pranzo dall’inquilino della Casa Bianca. In agenda anche petrolio russo e guerra in Ucraina. Mosca contro l’Ue sui visti.
Ieri Viktor Orbán è stato ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump, che ha definito il premier ungherese «un grande leader». Di più: tessendo le sue lodi, il tycoon ci ha tenuto a sottolineare che «sull’immigrazione l’Europa ha fatto errori enormi, mentre Orbán non li ha fatti». Durante la visita, in particolare, è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione nucleare tra Stati Uniti e Ungheria, destinato a rafforzare i legami energetici e tecnologici fra i due Paesi. In proposito, il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, ha sottolineato che la partnership con Washington non preclude il diritto di Budapest a mantenere rapporti con Mosca sul piano energetico. «Considerata la nostra realtà geografica, mantenere la possibilità di acquistare energia dalla Russia senza sanzioni o restrizioni legali è essenziale per la sicurezza energetica dell’Ungheria», ha dichiarato il ministro.
Bivacco di immigrati in Francia. Nel riquadro, Jean Eudes Gannat (Getty Images)
Inquietante caso di censura: prelevato dalla polizia per un video TikTok il figlio di un collaboratore storico di Jean-Marie Le Pen, Gannat. Intanto i media invitano la Sweeney a chiedere perdono per lo spot dei jeans.
Sarà pure che, come sostengono in molti, il wokismo è morto e il politicamente corretto ha subito qualche battuta d’arresto. Ma sembra proprio che la nefasta influenza da essi esercitata per anni sulla cultura occidentale abbia prodotto conseguenze pesanti e durature. Lo testimoniano due recentissimi casi di diversa portata ma di analoga origine. Il primo e più inquietante è quello che coinvolge Jean Eudes Gannat, trentunenne attivista e giornalista destrorso francese, figlio di Pascal Gannat, storico collaboratore di Jean-Marie Le Pen. Giovedì sera, Gannat è stato preso in custodia dalla polizia e trattenuto fino a ieri mattina, il tutto a causa di un video pubblicato su TikTok.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Il ministro fa cadere l’illusione dei «soldi a pioggia» da Bruxelles: «Questi prestiti non sono gratis». Il Mef avrebbe potuto fare meglio, ma abbiamo voluto legarci a un mostro burocratico che ci ha limitato.
«Questi prestiti non sono gratis, costano in questo momento […] poco sopra il 3%». Finalmente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti fa luce, seppure parzialmente, sul grande mistero del costo dei prestiti che la Commissione ha erogato alla Repubblica italiana per finanziare il Pnrr. Su un totale inizialmente accordato di 122,6 miliardi, ad oggi abbiamo incassato complessivamente 104,6 miliardi erogati in sette rate a partire dall’aprile 2022. L’ottava rata potrebbe essere incassata entro fine anno, portando così a 118 miliardi il totale del prestito. La parte residua è legata agli obiettivi ed ai traguardi della nona e decima rata e dovrà essere richiesta entro il 31 agosto 2026.
I tagli del governo degli ultimi anni hanno favorito soprattutto le fasce di reddito più basse. Ora viene attuato un riequilibrio.
Man mano che si chiariscono i dettagli della legge di bilancio, emerge che i provvedimenti vanno in direzione di una maggiore attenzione al ceto medio. Ma è una impostazione che si spiega guardandola in prospettiva, in quanto viene dopo due manovre che si erano concentrate sui percettori di redditi più bassi e, quindi, più sfavoriti. Anche le analisi di istituti autorevoli come la Banca d’Italia e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) tengono conto dei provvedimenti varati negli anni passati.





