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2025-04-16
Ritardi di produzione e dazi: costi dei biglietti aerei ancora alle stelle
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Non è soltanto speculazione sulla domanda che lievita, tanto che il comparto cresce a due cifre in quasi tutto il mondo e il numero di passeggeri trasportati si sta avvicinando ai 5 miliardi, (4,98) record assoluto. Ma anche per l'effetto provocato dalla produzione di nuovi aeroplani da parte dei costruttori perennemente in ritardo sui tempi di consegna previsti dalla ripresa post-covid a oggi.
Risultato: le compagnie di tutto il mondo stanno aspettando la consegna oltre 15.000 nuovi aeromobili e senza questi non possono attivare nuovi collegamenti né aumentare la frequenza di quelli già effettuati. A dirlo non sono soltanto le previsioni fatte dai colossi del comparto come Boeing e Airbus, da Honeywell per le strumentazioni e gli impianti, e anche i costruttori di motori come Pratt & Whitney, Rolls'Royce e Safran.
Nel mondo l'aviazione non cresce tutta alla stessa velocità: se si guarda alla Cina, la flotta delle sue compagnie dovrebbe aumentare del 40% entro il 2035, ovvero quasi duplicare il numero di aeromobili superando la soglia di 7.000 aeroplani. Ma altre nazioni, come l'India e le Filippine arriveranno a registrare un incremento del 50%. Ma per costruire tutti questi aeroplani serve tempo e non soltanto per gli assemblaggi e la costruzione in generale, quanto per trovare e addestrare le maestranze, nonché per disporre dei materiali (alluminio e carbonio in particolare, e i dazi non aiutano), infine ricevere le componenti altamente tecnologiche da una filiera che, invece, non riesce a crescere con lo stesso ritmo. A complicare la situazione anche l'aumento della popolazione mondiale di quella che possiamo definire la classe media, la quale è disposta a spendere denaro per viaggiare.
Dalle nostre parti, talia, Spagna, Francia, Portogallo e Regno Unito, l'aumento sarà più contenuto ma comunque significativo sia perché il mercato è dinamico, sia perché esiste un saturazione delle rotte che non permette un crescita superiore al 4%. Ed anche perché in Europa siamo ancora abituati alle low-cost che hanno caratterizzato il volo commerciale popolare tra la fine degli anni Novanta e il 2019, un sistema che cerca di ritornare in essere m a si scontra contro la necessità di usare aeromobili più moderni e meno inquinanti, con l'uso del carburante sostenibile (Saf) più costoso e l'aumento del costo del lavoro per le categorie degli operatori aeroportuali. Oceania, Sud America e Africa crescono meno di noi, ma tutti gli analisti sono concordi nel dire che per il prossimo decennio il numero di aeroplani in servizio nel mondo raggiungerà le 40.000 unità su 75.000 rotte. Significa che oltre ai circa 1.300 aeromobili commerciali prodotti nel mondo l'anno scorso (dati Honeywell), per soddisfare le richieste ne servirebbero quasi 2.000 in più che non si riusciranno a completare. Così Boeing (Usa), Airbus (Eu), Bombardier (Canada), Embraer (Brasile) e anche Tupolev e Superjet (Russia), accusano ritardi nelle forniture di parti e sono costrette a non rispettare i tempi di consegna, sovente pagando anche le penali ai clienti. Se prendiamo come esempio Airbus, che oggi produce più di Boeing, se nel 2019 riusciva a completare poco più di 50 velivoli al mese, ora non arriva a 48 nonostante le intenzioni, proprio per mancanza di personale qualificato e per la discontinuità delle forniture della catena di approvvigionamento. Su tutto, il fatto che l'aviazione sia l'industria da sempre più globalizzata che esiste e le tensioni internazionali rendono difficile mantenere costanti le forniture. Dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, Boeing nonostante la soluzione delle vertenze che hanno portato agli scioperi dell'autunno scorso e il superamento della crisi provocata dal caso degli incidenti ai B-737 Max, dovrebbe oggi sfornare 56 aeroplani al mese, è costretta dall'autorità aeronautica statunitense ad arrivare a non superare 48 unità.
Ma se cercare di aumentare fino al doppio la produzione di nuovi aerei non è affatto semplice, mantenere in linea di volo aeromobili più vecchi significa spendere di più in manutenzione e carburante. Magari soltanto di qualche punto percentuale, ma se si considerano tutti i movimenti giornalieri di una flotta il numero che si ottiene è elevato. Per le compagnie, se si considera anche il costo della manutenzione, in aumento, quello dei diritti di rotta, del carburante e in alcuni casi dell'allungamento delle rotte causato dalle guerre, la marginalità si è ridotta e quindi il costo dei biglietti è stato aumentato nonostante il prezzo del carburante tradizionale sia rimasto quasi invariato. Tra sostituzioni di aerei che arrivano in ritardo, nuove rotte che non si vogliono attivare, mancanza di personale (anche equipaggi), i biglietti disponibili non soddisfano la domanda e i costi aumentano. Più si vola, più frequenti sono le operazioni di manutenzione da fare e più rapidamente si dovranno sostituire gli aeroplani, e il cane si morde la coda. Dal punto di vista della formazione, i giovani che frequentano le scuole per manutentori, che sono corsi para-universitari di tre anni, sono pochi per varie ragioni ma per due motivi in particolare: sono pochi i giovani di 18-21 anni rispetto alle generazioni precedenti; non tutti ambiscono a un lavoro che, seppur ben retribuito i alcune zone del mondo, implica turni, operazioni meccaniche in officina e un continuo aggiornamento a ritmi maggiori rispetto ad altre professioni. Infine, le scuole per meccanici aeronautici sono ancora poche e le classi non possono essere particolarmente numerose proprio per consentire l'apprendimento delle necessarie competenze. Il vecchio adagio dell'aviazione che recita come la sicurezza derivi dall'affidabilità e questa dal tempo è sempre valido. E ogni volta che l'uomo ha cercato una scorciatoia sono accaduto disastri. Un problema complesso non può quindi avere una soluzione semplice e immediata, anche se Airbus sta cercando di costruire aeroplani con un solo pilota a bordo e sistemi di manutenzione automatizzati. C'è chi propone di tornare ai viaggi intercontinentali con uno o più scali, e ciò abbasserebbe i costi delle singole tratte; chi sollecita trasporti regionali a corto raggio con aeroplani più piccoli e chi di semplificare le regole. Ma come abbiamo detto, serve comunque tempo e, intanto, i biglietti costano sempre un po' di più e ci tocca pagare.
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Lasciate ogni speranza voi che viaggiate in aereo. Anche quest'anno, ve ne sarete accorti, il costo dei biglietti aerei sta aumentando e il fenomeno è tanto più marcato quanto avanza la bella stagione.Non è soltanto speculazione sulla domanda che lievita, tanto che il comparto cresce a due cifre in quasi tutto il mondo e il numero di passeggeri trasportati si sta avvicinando ai 5 miliardi, (4,98) record assoluto. Ma anche per l'effetto provocato dalla produzione di nuovi aeroplani da parte dei costruttori perennemente in ritardo sui tempi di consegna previsti dalla ripresa post-covid a oggi.Risultato: le compagnie di tutto il mondo stanno aspettando la consegna oltre 15.000 nuovi aeromobili e senza questi non possono attivare nuovi collegamenti né aumentare la frequenza di quelli già effettuati. A dirlo non sono soltanto le previsioni fatte dai colossi del comparto come Boeing e Airbus, da Honeywell per le strumentazioni e gli impianti, e anche i costruttori di motori come Pratt & Whitney, Rolls'Royce e Safran.Nel mondo l'aviazione non cresce tutta alla stessa velocità: se si guarda alla Cina, la flotta delle sue compagnie dovrebbe aumentare del 40% entro il 2035, ovvero quasi duplicare il numero di aeromobili superando la soglia di 7.000 aeroplani. Ma altre nazioni, come l'India e le Filippine arriveranno a registrare un incremento del 50%. Ma per costruire tutti questi aeroplani serve tempo e non soltanto per gli assemblaggi e la costruzione in generale, quanto per trovare e addestrare le maestranze, nonché per disporre dei materiali (alluminio e carbonio in particolare, e i dazi non aiutano), infine ricevere le componenti altamente tecnologiche da una filiera che, invece, non riesce a crescere con lo stesso ritmo. A complicare la situazione anche l'aumento della popolazione mondiale di quella che possiamo definire la classe media, la quale è disposta a spendere denaro per viaggiare.Dalle nostre parti, talia, Spagna, Francia, Portogallo e Regno Unito, l'aumento sarà più contenuto ma comunque significativo sia perché il mercato è dinamico, sia perché esiste un saturazione delle rotte che non permette un crescita superiore al 4%. Ed anche perché in Europa siamo ancora abituati alle low-cost che hanno caratterizzato il volo commerciale popolare tra la fine degli anni Novanta e il 2019, un sistema che cerca di ritornare in essere m a si scontra contro la necessità di usare aeromobili più moderni e meno inquinanti, con l'uso del carburante sostenibile (Saf) più costoso e l'aumento del costo del lavoro per le categorie degli operatori aeroportuali. Oceania, Sud America e Africa crescono meno di noi, ma tutti gli analisti sono concordi nel dire che per il prossimo decennio il numero di aeroplani in servizio nel mondo raggiungerà le 40.000 unità su 75.000 rotte. Significa che oltre ai circa 1.300 aeromobili commerciali prodotti nel mondo l'anno scorso (dati Honeywell), per soddisfare le richieste ne servirebbero quasi 2.000 in più che non si riusciranno a completare. Così Boeing (Usa), Airbus (Eu), Bombardier (Canada), Embraer (Brasile) e anche Tupolev e Superjet (Russia), accusano ritardi nelle forniture di parti e sono costrette a non rispettare i tempi di consegna, sovente pagando anche le penali ai clienti. Se prendiamo come esempio Airbus, che oggi produce più di Boeing, se nel 2019 riusciva a completare poco più di 50 velivoli al mese, ora non arriva a 48 nonostante le intenzioni, proprio per mancanza di personale qualificato e per la discontinuità delle forniture della catena di approvvigionamento. Su tutto, il fatto che l'aviazione sia l'industria da sempre più globalizzata che esiste e le tensioni internazionali rendono difficile mantenere costanti le forniture. Dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, Boeing nonostante la soluzione delle vertenze che hanno portato agli scioperi dell'autunno scorso e il superamento della crisi provocata dal caso degli incidenti ai B-737 Max, dovrebbe oggi sfornare 56 aeroplani al mese, è costretta dall'autorità aeronautica statunitense ad arrivare a non superare 48 unità.Ma se cercare di aumentare fino al doppio la produzione di nuovi aerei non è affatto semplice, mantenere in linea di volo aeromobili più vecchi significa spendere di più in manutenzione e carburante. Magari soltanto di qualche punto percentuale, ma se si considerano tutti i movimenti giornalieri di una flotta il numero che si ottiene è elevato. Per le compagnie, se si considera anche il costo della manutenzione, in aumento, quello dei diritti di rotta, del carburante e in alcuni casi dell'allungamento delle rotte causato dalle guerre, la marginalità si è ridotta e quindi il costo dei biglietti è stato aumentato nonostante il prezzo del carburante tradizionale sia rimasto quasi invariato. Tra sostituzioni di aerei che arrivano in ritardo, nuove rotte che non si vogliono attivare, mancanza di personale (anche equipaggi), i biglietti disponibili non soddisfano la domanda e i costi aumentano. Più si vola, più frequenti sono le operazioni di manutenzione da fare e più rapidamente si dovranno sostituire gli aeroplani, e il cane si morde la coda. Dal punto di vista della formazione, i giovani che frequentano le scuole per manutentori, che sono corsi para-universitari di tre anni, sono pochi per varie ragioni ma per due motivi in particolare: sono pochi i giovani di 18-21 anni rispetto alle generazioni precedenti; non tutti ambiscono a un lavoro che, seppur ben retribuito i alcune zone del mondo, implica turni, operazioni meccaniche in officina e un continuo aggiornamento a ritmi maggiori rispetto ad altre professioni. Infine, le scuole per meccanici aeronautici sono ancora poche e le classi non possono essere particolarmente numerose proprio per consentire l'apprendimento delle necessarie competenze. Il vecchio adagio dell'aviazione che recita come la sicurezza derivi dall'affidabilità e questa dal tempo è sempre valido. E ogni volta che l'uomo ha cercato una scorciatoia sono accaduto disastri. Un problema complesso non può quindi avere una soluzione semplice e immediata, anche se Airbus sta cercando di costruire aeroplani con un solo pilota a bordo e sistemi di manutenzione automatizzati. C'è chi propone di tornare ai viaggi intercontinentali con uno o più scali, e ciò abbasserebbe i costi delle singole tratte; chi sollecita trasporti regionali a corto raggio con aeroplani più piccoli e chi di semplificare le regole. Ma come abbiamo detto, serve comunque tempo e, intanto, i biglietti costano sempre un po' di più e ci tocca pagare.
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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