2025-06-29
Dalla Corte Usa stop ai giudici legislatori. Non ha vinto Trump, ma tutta la politica
Giudice della Corte Suprema americana, Amy Coney Barrett (Getty)
La storica sentenza della Amy Coney Barrett segna un riequilibrio dei poteri a favore della rappresentanza. Ma la sinistra se ne rammarica...Un colpo allo stato di diritto. Un ostacolo rimosso sulla via che conduce all’autoritarismo. Una arrogante e pericolosa vittoria di Donald Trump. Questa è stata la lettura media della storica pronuncia della Corte Suprema, «Trump v Casa», di venerdì: la maggioranza «conservatrice» dei giudici, garantita dal primo mandato del tycoon con le nomine di Neil Gorsuch (2017), Brett Kavanaugh (2018) e Amy Coney Barrett (2020, in sostituzione del monumento dei giudici liberal, Ruth Bader Ginsburg), avrebbe - sempre secondo questa lettura - ricambiato il favore al presidente rientrato alla Casa Bianca, garantendogli un’estensione pressoché illimitata dei suoi poteri. Si tratta contemporaneamente di una esagerazione e di una diminutio della portata della decisione firmata proprio dalla Barrett, che da tempo era accusata di derive verso l’ala liberal dei giudici e che ha sottoscritto una delle sentenze più importanti su un nodo cruciale delle democrazie occidentali fin dalla fondazione: l’equilibrio dei poteri, in questo caso l’esecutivo e il giudiziario. Per comprendere il peso della pronuncia, raccontata ieri su queste colonne da Patrizia Floder Reitter occorre un piccolo pregresso. Il 20 gennaio 2015 la Casa Bianca emana l’executive order 14160, con il quale intende «proteggere il valore e il significato della cittadinanza americana», di fatto sospendendo lo ius soli in casi specifici in cui i genitori di un bambino nato sul suolo americano non fossero regolarmente sul medesimo suolo. Come prevedibile, sono subito partite una serie di cause promosse da gruppi a tutela dei migranti, culminati in injunctions, cioè pronunciamenti dei giudici federali che hanno bloccato l’ordine della Casa Bianca. L’amministrazione ha impugnato a marzo alcuni di questi interventi giudiziari (delle Corti di Maryland, Washington e New Jersey) chiedendo alla Corte suprema se tale esercizio del potere giudiziario non fosse troppo estensivo e, in ultima analisi, incostituzionale.La risposta è stata molto decisa non tanto sul merito dell’ordine della Casa Bianca (su quello si pronuncerà più avanti) quanto sul raggio d’azione dei giudici federali. È prassi invalsa da anni, infatti, quella di costruire casi presso le Corti federali rette da giudici con precisi indirizzi politici («forum shopping»), i quali fermano gli ordini della Casa Bianca, di fatto ricoprendo un ruolo para-legislativo. L’opinion di Justice Barrett è, comunque la si pensi, un distillato di filosofia giuridica di alto livello, che chiarisce in modo esemplare le due visioni antitetiche del ruolo del potere giudiziario in relazione all’esecutivo (diciamo: una «originalista» e una «progressiva»). Si potrebbe sintetizzare il primo approccio, oggi dominante in Corte Suprema in due punti: il primo è che la giurisdizione deve limitarsi al caso concreto in giudizio, e non può toccare l’essenza universale della norma. Se il mio vicino mi disturba, posso fargli causa - è l’esempio della Corte - e il giudice può ordinargli di spegnere la musica. La sua non può essere una imposizione universale, ma soltanto nel merito della contesa a lui sottoposta. Il secondo, diretta conseguenza di ciò, è che se il legislatore resta ovviamente vincolato al rispetto della legge, il giudice non può sostituire il legislatore né effettuare un «sindacato» sulle norme stesse. L’intento regolatorio e para-legislativo del giudice va rigettato come non costituzionale.In maniera piuttosto irrituale ma chiarificatrice, la Barrett ingaggia un corpo a corpo con Justice Jackson, l’unica toga nominata da Joe Biden nel 2022. Il cui pensiero viene così riassunto dalla collega: «Se alle Corti viene tolto il potere di imporre all’esecutivo il rispetto universale della legge, si aprirà uno squarcio nei principi basilari della nostra carta fondativa, che potrebbe diventare una ferita mortale». Segue commento feroce: «Osserviamo solo questo: Justice Jackson lamenta un esecutivo imperiale, mentre auspica un potere giudiziario imperiale». Quindi arriva al punto cruciale: «Le Corti federali non esercitano una supervisione generale sul potere esecutivo; esse risolvono casi e controversie secondo l’autorità che il Congresso ha conferito loro. Se una Corte stabilisce che l’esecutivo ha agito contro la legge, non può a sua volta eccedere i suoi poteri in risposta».Leggere un passaggio di questo tipo, i cui effetti andranno misurati nel tempo, come una «vendetta conservatrice» appare falsante. E se parlare di regalo a Trump suona eccessivo (sullo ius soli la partita è aperta), è contemporaneamente riduttivo. La sterzata dalla Corte è sul piano dell’equilibrio di poteri: essa ritiene più conforme al disegno pensato da Alexander Hamilton un esecutivo sottoposto alla legge ma non al sindacato giudiziario, né alla pari di un giudice co-legislatore. È un punto che va ben al di là di questa amministrazione. Teoricamente, sarebbe pure una battaglia di sinistra: quella italiana, per esempio, ha parlato per lustri della necessità di una «democrazia decidente», salvo poi rendersi conto che spesso la via giudiziaria al potere presentava numerosi vantaggi.Ieri, il sito Axios coglieva correttamente un portato della sentenza: quando i democratici torneranno al potere, potranno beneficiare del ripristino di questo equilibrio anche proprio favore: «Eliminare le universal injunctions (cioè le sentenze «creative» in ambito legislativo, molto apprezzate dalla nostra Corte costituzionale, ndr) significa che non saranno più applicabili a favore dei repubblicani la prossima volta che un presidente democratico porterà avanti un programma aggressivo». In fondo, il paradosso di una sentenza che forse sarebbe piaciuta ad Antonin Scalia, padre dell’originalismo giuridico contemporaneo, è tutto qui: sono nove giudici (o meglio: sei, gli altri tre contestano) a spostare l’equilibrio a favore della politica, ovvero - con tutti i limiti del caso - agli elettori.