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2022-05-26
Sui corridoi per il grano Mosca apre ma l’Ucraina si oppone alle trattative
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La possibile crisi alimentare globale dovuta al blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina non è più solo uno «spettro». Ormai il «fattore grano» è elemento concreto e decisivo per le azioni da intraprendere al fine di evitare il disastro mondiale. Paesi europei, africani e asiatici contano sulle forniture di Kiev e di Mosca per non ritrovarsi ridotti alla fame. L’export delle derrate, però, avviene per il 95% via mare e i porti ucraini non sono in condizione di poter operare: Mariupol e Berdiansk nel Mar d’Azov sono sotto il controllo dell’esercito russo. Lo stesso è per Kherson nel Mar Nero, dove si trova anche Mykolayev che ha subito ingenti danni. Odessa è bloccata, circondata da mine russe.
Scorte di grano restano dunque stoccate negli hangar portuali, dove si teme che possano finire in due modi: marcire o essere rubate dai russi. Polemiche e sospetti, su questo secondo punto, hanno creato alcune immagini che mostrerebbero due navi russe nel porto di Sebastopoli - in Crimea - mentre caricano quello che si ritiene possa essere grano ucraino rubato. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, in merito, aveva dichiarato: «Non acquistate quel grano, non diventate complici dei crimini russi. Il furto non ha mai portato fortuna a nessuno».
In questo quadro, le teorie messe in campo per tentar di sbloccare lo stallo sono molteplici, ma una ha già subito la bocciatura di Mosca. Il Regno Unito sta discutendo con alcuni Paesi alleati a proposito della possibilità di inviare navi da guerra nel Mar Nero per proteggere le imbarcazioni mercantili che trasportano grano ucraino. La Russia ha gelato gli entusiasmi inglesi: il viceministro degli Esteri russo, Andrei Rudenko, ha chiarito che un’ipotesi del genere «aggraverebbe seriamente la situazione nel Mar Nero». Del resto, l’operazione implica un aspetto militare: si tratta di garantire la sicurezza dei porti da cui partono le imbarcazioni, il che solleva anche il tema della fornitura di armi necessarie a difendere le navi stesse da eventuali attacchi russi. Ma l’Unione europea insiste su questa strada. Il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha parlato al Forum economico mondiale di Davos di una crisi alimentare creata «deliberatamente dalla Russia» e ha rilanciato l’ipotesi di «corridoi resi sicuri dall’assistenza militare» per assicurare l’export di cereali. Per l’Ue resta questo il metodo più veloce per sbloccare le forniture di Kiev.
I corridoi, che vengono bocciati da Mosca nella loro versione «militarizzata», vengono avversati anche dalla stessa Ucraina, pur se per motivi diversi. La Russia si è resa infatti disponibile ad aprire la strada ai cereali in uscita - senza però la presenza di navi militari straniere - in cambio della revoca di alcune sanzioni nei suoi confronti. «Qualsiasi politico o funzionario straniero che possa pensare di accettare questo gioco dovrebbe prima visitare le tombe dei bambini ucraini uccisi e parlare con i loro genitori», ha commentato il ministro ucraino Kuleba. Anche l’Onu spinge affinché i russi consentano l’esportazione sicura del grano e diano accesso pieno e illimitato di cibo e fertilizzanti prodotti dalla Russia ai mercati mondiali. «Sono in stretto contatto su questo tema con Russia, Ucraina, Turchia, Usa, Ue e altri Paesi chiave», ha assicurato il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres.
Proprio il ruolo della Turchia sarebbe fondamentale per rompere il blocco navale russo e aprire un corridoio da Odessa attraverso il Bosforo. A queste strade se ne aggiunge un’altra, l’unica sulla quale Mosca non sembra avere preclusioni ma che non è certo agevole come lo sblocco dei porti. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, infatti, ha dichiarato che «la parte russa non sta impedendo all’Ucraina di trasportare il grano con il treno». Il primo treno merci con un carico di grano dall’Ucraina è arrivato infatti in Lituania passando attraverso la Polonia. La Lituania è un altro dei Paesi il cui ruolo si sta rivelando fondamentale. Oltre a dare appoggio per il trasporto via terra fino a Vilnius e poi di lì verso i porti baltici, sta animando il dibattito sulla protezione delle navi mercantili nel Mar Nero. Il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, è uno dei protagonisti del piano (come si è visto, contrastato dalla Russia) per la creazione di una coalizione che si occupi della protezione delle navi mercantili nel Mar Nero.
Al «brainstorming» su come evitare la crisi globale, si aggiunge infine la necessità di sminare le aree portuali, per evitare che il trasporto di grano si risolva in una catena di incidenti. Sul punto, Mosca tenta di essere rassicurante, comunicando che cinque navi straniere hanno lasciato il porto di Mariupol dopo che sono state completate le operazioni di sminamento. Si spera che lo schema possa essere applicato in futuro, raggiunti eventuali accordi.
Spighe d’oro, speculazione in corso
La balla del grano. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, parlando al World economic forum si è un po’ allargata sulle cifre. Ha detto che Vladimir Putin, tra le innumerevoli nefandezze, ruba il grano degli ucraini (si parla di una nave a Odessa con 400.000 tonnellate) e usa la fame come arma. Ha aggiunto che in Ucraina sono bloccate 20 milioni di tonnellate di grano. Però il grano andrebbe chiesto non a Putin, ma a Joe Biden.
L’Ucraina è solo il decimo produttore, con 26 milioni di tonnellate, che valgono il 10% del grano tenero mondiale. Le navi bloccate fanno venire meno le forniture ai Paesi che dipendono da questi semi. Però bisogna spiegare che dall’Ucraina comprano essenzialmente Egitto, Turchia, Tunisia e un altro paio di Paesi africani. Il grosso semmai viene dalla Russia. Ammesso e non concesso che la von der Leyen abbia ragione a dire che sono bloccate 20 milioni di tonnellate, significa affermare che da giugno scorso, quando si fa la mietitura, a oggi, l’Ucraina non ha venduto neppure un chicco di grano. Ma la stessa baronessa ha affermato che l’Ucraina fino a prima della guerra ha spedito 5 milioni di tonnellate al mese.
Se c’è del grano stoccato è perché si è voluto speculare: il prezzo del grano sale dal settembre scorso e quel grano è nelle mani degli oligarchi ucraini grandi elettori di Volodymyr Zelensky e delle società americane, al netto del 30%, che è dei cinesi. I primi dieci Paesi produttori sono: Cina 126 milioni di tonnellate, India 95 milioni (che ha bloccato l’export), Russia 60 milioni, Usa 55 milioni, Francia 39 milioni, Canada 29 milioni, Germania 28 milioni, Australia 29 milioni, Pakistan e Ucraina 26 milioni. In Europa ci sono due Paesi, Francia e Germania, che contano e l’Ucraina non è la soluzione della fame nel mondo. Il problema peraltro non è la scarsità di prodotto, ma il prezzo. Di questo ovviamente a Davos non si parla perché significa disturbare i manovratori. È vero però che sulle navi bloccate a Odessa ci sono almeno 3 milioni di tonnellate che se liberate potrebbero contribuire a raffreddare i prezzi. Darsi da fare per farle arrivare ai mercati è necessario. Certo, a bordo treno che al massimo porta 1.500 tonnellate è come svuotare il mare con un cucchiaio. E sia detto per inciso il trasporto via ferro del grano è uno studio della statunitense Cargill che nel 2015 ha ottimizzato il trasporto ferroviario dando come standard convogli da 100 vagoni. Che però non possono viaggiare in quella parte d’Europa perché lo scartamento dei binari è ancora quello sovietico.
Conviene consultare le statistiche dell’International grain council, che è una sorta di Onu delle spighe. Le ultime stime aggiornate al 19 maggio dicono che il totale atteso della produzione mondiale di cereali è di 2.251.000.000 di tonnellate, il frumento rappresenta circa il 35%. Le scorte sono pari a 580 milioni di tonnellate e il consumo totale atteso di cereali è di 2.279.000.00. Oltre la metà viene consumato per produrre bioenergia. Avremo quest’anno 769 milioni di tonnellate di grano (tra tenero e duro) e se ne consumeranno 780 milioni. Restano disponibili scorte per 271 milioni di tonnellate. Allora il problema della fame dove sta? Sta nel prezzo che è schizzato a settembre ben prima della guerra in Ucraina e che certo il conflitto ha acuito. È il prezzo che taglia fuori i Paesi del Nord e Centro Africa. E il prezzo chi lo fanno? Gli amici di Biden. Il commercio mondiale del grano, compreso quello ucraino, è in mano a quattro player che intermediano circa il 75%. Vale grosso modo 125 miliardi di dollari. Russia e Ucraina insieme fanno il 17% dell’export mondiale. Per il grano tenero la Russia è il primo esportatore con il 20%, l’Ucraina il quarto con poco meno del 10%. Le quattro sorelle della spiga - tre americane e una franco-belga - in totale fatturano 331 miliardi di dollari: Cargill (135 miliardi), Adm (86 miliardi), Bunge (60 miliardi) e Louis Dreyfus (50 miliardi). Forse anche a loro bisognerebbe chiedere uno sforzo per la fame nel mondo.
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Il Cremlino boccia l’idea inglese delle scorte alle navi però ipotizza vie condivise e chiede sconti sulle sanzioni. Poi annuncia: «Mariupol porto aperto». Gli invasi si indignano: «Nessun negoziato, pensate ai bimbi morti».Nonostante gli allarmi di Ursula von der Leyen, il problema dei cereali non è solo la guerra ma il boom dei prezzi. Causato dalle mosse dei quattro player mondiali (e tre sono Usa).Lo speciale contiene due articoli.La possibile crisi alimentare globale dovuta al blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina non è più solo uno «spettro». Ormai il «fattore grano» è elemento concreto e decisivo per le azioni da intraprendere al fine di evitare il disastro mondiale. Paesi europei, africani e asiatici contano sulle forniture di Kiev e di Mosca per non ritrovarsi ridotti alla fame. L’export delle derrate, però, avviene per il 95% via mare e i porti ucraini non sono in condizione di poter operare: Mariupol e Berdiansk nel Mar d’Azov sono sotto il controllo dell’esercito russo. Lo stesso è per Kherson nel Mar Nero, dove si trova anche Mykolayev che ha subito ingenti danni. Odessa è bloccata, circondata da mine russe. Scorte di grano restano dunque stoccate negli hangar portuali, dove si teme che possano finire in due modi: marcire o essere rubate dai russi. Polemiche e sospetti, su questo secondo punto, hanno creato alcune immagini che mostrerebbero due navi russe nel porto di Sebastopoli - in Crimea - mentre caricano quello che si ritiene possa essere grano ucraino rubato. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, in merito, aveva dichiarato: «Non acquistate quel grano, non diventate complici dei crimini russi. Il furto non ha mai portato fortuna a nessuno». In questo quadro, le teorie messe in campo per tentar di sbloccare lo stallo sono molteplici, ma una ha già subito la bocciatura di Mosca. Il Regno Unito sta discutendo con alcuni Paesi alleati a proposito della possibilità di inviare navi da guerra nel Mar Nero per proteggere le imbarcazioni mercantili che trasportano grano ucraino. La Russia ha gelato gli entusiasmi inglesi: il viceministro degli Esteri russo, Andrei Rudenko, ha chiarito che un’ipotesi del genere «aggraverebbe seriamente la situazione nel Mar Nero». Del resto, l’operazione implica un aspetto militare: si tratta di garantire la sicurezza dei porti da cui partono le imbarcazioni, il che solleva anche il tema della fornitura di armi necessarie a difendere le navi stesse da eventuali attacchi russi. Ma l’Unione europea insiste su questa strada. Il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha parlato al Forum economico mondiale di Davos di una crisi alimentare creata «deliberatamente dalla Russia» e ha rilanciato l’ipotesi di «corridoi resi sicuri dall’assistenza militare» per assicurare l’export di cereali. Per l’Ue resta questo il metodo più veloce per sbloccare le forniture di Kiev. I corridoi, che vengono bocciati da Mosca nella loro versione «militarizzata», vengono avversati anche dalla stessa Ucraina, pur se per motivi diversi. La Russia si è resa infatti disponibile ad aprire la strada ai cereali in uscita - senza però la presenza di navi militari straniere - in cambio della revoca di alcune sanzioni nei suoi confronti. «Qualsiasi politico o funzionario straniero che possa pensare di accettare questo gioco dovrebbe prima visitare le tombe dei bambini ucraini uccisi e parlare con i loro genitori», ha commentato il ministro ucraino Kuleba. Anche l’Onu spinge affinché i russi consentano l’esportazione sicura del grano e diano accesso pieno e illimitato di cibo e fertilizzanti prodotti dalla Russia ai mercati mondiali. «Sono in stretto contatto su questo tema con Russia, Ucraina, Turchia, Usa, Ue e altri Paesi chiave», ha assicurato il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres. Proprio il ruolo della Turchia sarebbe fondamentale per rompere il blocco navale russo e aprire un corridoio da Odessa attraverso il Bosforo. A queste strade se ne aggiunge un’altra, l’unica sulla quale Mosca non sembra avere preclusioni ma che non è certo agevole come lo sblocco dei porti. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, infatti, ha dichiarato che «la parte russa non sta impedendo all’Ucraina di trasportare il grano con il treno». Il primo treno merci con un carico di grano dall’Ucraina è arrivato infatti in Lituania passando attraverso la Polonia. La Lituania è un altro dei Paesi il cui ruolo si sta rivelando fondamentale. Oltre a dare appoggio per il trasporto via terra fino a Vilnius e poi di lì verso i porti baltici, sta animando il dibattito sulla protezione delle navi mercantili nel Mar Nero. Il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, è uno dei protagonisti del piano (come si è visto, contrastato dalla Russia) per la creazione di una coalizione che si occupi della protezione delle navi mercantili nel Mar Nero. Al «brainstorming» su come evitare la crisi globale, si aggiunge infine la necessità di sminare le aree portuali, per evitare che il trasporto di grano si risolva in una catena di incidenti. Sul punto, Mosca tenta di essere rassicurante, comunicando che cinque navi straniere hanno lasciato il porto di Mariupol dopo che sono state completate le operazioni di sminamento. 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L’Ucraina è solo il decimo produttore, con 26 milioni di tonnellate, che valgono il 10% del grano tenero mondiale. Le navi bloccate fanno venire meno le forniture ai Paesi che dipendono da questi semi. Però bisogna spiegare che dall’Ucraina comprano essenzialmente Egitto, Turchia, Tunisia e un altro paio di Paesi africani. Il grosso semmai viene dalla Russia. Ammesso e non concesso che la von der Leyen abbia ragione a dire che sono bloccate 20 milioni di tonnellate, significa affermare che da giugno scorso, quando si fa la mietitura, a oggi, l’Ucraina non ha venduto neppure un chicco di grano. Ma la stessa baronessa ha affermato che l’Ucraina fino a prima della guerra ha spedito 5 milioni di tonnellate al mese. Se c’è del grano stoccato è perché si è voluto speculare: il prezzo del grano sale dal settembre scorso e quel grano è nelle mani degli oligarchi ucraini grandi elettori di Volodymyr Zelensky e delle società americane, al netto del 30%, che è dei cinesi. I primi dieci Paesi produttori sono: Cina 126 milioni di tonnellate, India 95 milioni (che ha bloccato l’export), Russia 60 milioni, Usa 55 milioni, Francia 39 milioni, Canada 29 milioni, Germania 28 milioni, Australia 29 milioni, Pakistan e Ucraina 26 milioni. In Europa ci sono due Paesi, Francia e Germania, che contano e l’Ucraina non è la soluzione della fame nel mondo. Il problema peraltro non è la scarsità di prodotto, ma il prezzo. Di questo ovviamente a Davos non si parla perché significa disturbare i manovratori. È vero però che sulle navi bloccate a Odessa ci sono almeno 3 milioni di tonnellate che se liberate potrebbero contribuire a raffreddare i prezzi. Darsi da fare per farle arrivare ai mercati è necessario. Certo, a bordo treno che al massimo porta 1.500 tonnellate è come svuotare il mare con un cucchiaio. E sia detto per inciso il trasporto via ferro del grano è uno studio della statunitense Cargill che nel 2015 ha ottimizzato il trasporto ferroviario dando come standard convogli da 100 vagoni. Che però non possono viaggiare in quella parte d’Europa perché lo scartamento dei binari è ancora quello sovietico. Conviene consultare le statistiche dell’International grain council, che è una sorta di Onu delle spighe. Le ultime stime aggiornate al 19 maggio dicono che il totale atteso della produzione mondiale di cereali è di 2.251.000.000 di tonnellate, il frumento rappresenta circa il 35%. Le scorte sono pari a 580 milioni di tonnellate e il consumo totale atteso di cereali è di 2.279.000.00. Oltre la metà viene consumato per produrre bioenergia. Avremo quest’anno 769 milioni di tonnellate di grano (tra tenero e duro) e se ne consumeranno 780 milioni. Restano disponibili scorte per 271 milioni di tonnellate. Allora il problema della fame dove sta? Sta nel prezzo che è schizzato a settembre ben prima della guerra in Ucraina e che certo il conflitto ha acuito. È il prezzo che taglia fuori i Paesi del Nord e Centro Africa. E il prezzo chi lo fanno? Gli amici di Biden. Il commercio mondiale del grano, compreso quello ucraino, è in mano a quattro player che intermediano circa il 75%. Vale grosso modo 125 miliardi di dollari. Russia e Ucraina insieme fanno il 17% dell’export mondiale. Per il grano tenero la Russia è il primo esportatore con il 20%, l’Ucraina il quarto con poco meno del 10%. Le quattro sorelle della spiga - tre americane e una franco-belga - in totale fatturano 331 miliardi di dollari: Cargill (135 miliardi), Adm (86 miliardi), Bunge (60 miliardi) e Louis Dreyfus (50 miliardi). Forse anche a loro bisognerebbe chiedere uno sforzo per la fame nel mondo.
C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
Il cambio di rotta, secondo quanto rivelato dal Financial Times e da Reuters, è stato annunciato dallo stesso leader di Kiev in una chat su Whatsapp con i giornalisti. Ha spiegato che «fin dall’inizio, il desiderio dell'Ucraina è stato quello di aderire alla Nato», ma pare aver gettato la spugna visto che «alcuni partner non hanno sostenuto questa direzione». Ha quindi svelato che ora si parla «di garanzie di sicurezza bilaterali tra Ucraina e Stati Uniti, vale a dire garanzie simili all’articolo 5, nonché di garanzie di sicurezza da parte dei nostri partner europei e di altri Paesi come Canada, Giappone e altri».
Prima del vertice di Berlino, Zelensky ha poi dichiarato di non aver ricevuto le risposte della Casa Bianca sulle ultime proposte inviate dalla delegazione ucraina, ma ha già messo le mani avanti sull’offerta degli Stati Uniti inerente al Donbass. Washington ha infatti suggerito che Kiev si ritiri dalla «cintura delle fortezze» delle città nel Donbass che non sono state conquistate da Mosca. Sostenendo che non sia «giusto», il presidente ucraino ha commentato: «Se le truppe ucraine si ritirano tra i cinque e dieci chilometri per esempio, allora perché le truppe russe non si devono ritirare nelle zone dei territori occupati della stessa distanza?». Dunque, la linea ucraina resta quella del cessate il fuoco: «fermarsi» sulle posizioni attuali per poi «risolvere le questioni più ampie attraverso la diplomazia». Ma è plausibile che questa proposta americana venga rifiutata anche dalla Russia, visto che il consigliere del Cremlino, Yuri Ushakov, aveva già riferito che Mosca è disposta ad accettare solo il controllo totale del Donbass.
Ma l’attenzione ieri, oltre al dietrofront di Kiev sulla Nato, è stata rivolta ai colloqui di Berlino tra la delegazione ucraina e quella americana. Dopo aver «lavorato attentamente su ogni punto di ogni bozza», Zelensky è stato accolto nella capitale tedesca dal cancelliere Friedrich Merz. Il presidente ucraino ha condiviso alcune immagini inerenti alle trattative sul piano di pace: nel lungo tavolo ovale, al fianco di Zelensky compaiono Merz e il negoziatore ucraino Rustem Umerov, mentre sul lato opposto sono seduti Witkoff e Kushner. Ma secondo la Bild, a essere presente in modo «indiretto» ai negoziati è stata anche la Russia. Pare che l’inviato americano sia stato infatti in contatto con Ushakov. In ogni caso, il leader di Kiev, su X, ha spiegato poco prima lo scopo dei colloqui: concentrarsi «su come garantire in modo affidabile la sicurezza dell’Ucraina». Il dialogo proseguirà anche oggi: è previsto un vertice a cui prenderanno parte dieci leader europei, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, e il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
A restare scettica sulle iniziative europee è la Russia. Ushakov, ricordando che Mosca non ha ancora visionato le modifiche di Bruxelles e di Kiev al piano, ha comunque detto che non saranno accettati i cambiamenti. D’altronde, è «improbabile che gli ucraini e gli europei diano un contributo costruttivo ai documenti». Sempre il consigliere del Cremlino ha anche rivelato che non è mai stata affrontata «la possibilità di replicare l’opzione coreana» per porre fine alla guerra. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha poi definito «irresponsabili» le parole pronunciate giovedì dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, secondo cui la Russia si prepara ad attaccare l’Europa.
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