2020-03-13
Conte si atteggia a nuovo Churchill ma sempre con due giorni di ritardo
Dato per bollito da tutti, il premier ha trovato nell'epidemia l'occasione per presentarsi come statista e salvatore della patria. Peccato che i suoi interventi «salvifici» siano costantemente intempestivi.«Al primo posto c'è la salute degli italiani». Adesso è in modalità uomo della provvidenza. Giuseppe Conte ha fiutato il vento e ha colto un aspetto non banale dell'epidemia in atto: approfittando dello smarrimento dei cittadini può garantirsi una rendita politica. Per questo in pochi giorni il primo ministro più traballante d'Europa ha cambiato atteggiamento, linguaggio, e dopo aver desertificato le strade e le piazze sulla spinta del contagio, prova a riempirle con il suo ego. Non è facile, l'uomo è liquido e il suo messaggio tende a evaporare, ma il tentativo è dentro frasi come «tutto il mondo ci guarda» e come «stiamo dando prova di grande rigore». Parole che non significano nulla ma che tendono a evocare qualcosa di emozionale e collettivo che (paradossalmente) la sinistra ha sempre considerato un mal di denti: l'orgoglio nazionale.Quello apparso mercoledì sera a reti unificate non è più l'avvocato di Volturara Appula in gita premio a Roma e neppure il premier balbettante con la pochette tremula dell'agosto ribaltonista. Non è il Marco Porcio Catone tronfio che in Parlamento addossava a Matteo Salvini pure la colpa del cambiamento climatico e non somiglia neanche al capomastro in pullover stile Guido Bertolaso che due settimane fa ha cominciato a mettere in quarantena gli italiani parlando loro dalla war room modello quinta B. Quest'ultimo Conte mostra le stigmate del caudillo e dopo avere evocato «L'ora più buia» gioca a fare il Winston Churchill, senza ricordare che alla fine gli inglesi identificarono quel gigante conservatore con i sacrifici della guerra e lo mandarono comunque a casa. Il discorso del lockdown ha tre caratteristiche che mostrano una voglia di leadership da non condividere con nessuno. La prima è nel linguaggio, con la scelta di ripetere più volte quell'io-io-io che personalizza e dovrebbe essere contrario al noi dell'inclusione. «Io ho la profonda convinzione», «Nelle scelte che ho sin qui assunto», «Ho fatto un patto con la mia coscienza». Un uomo solo al comando con un rischio: la prossima volta invece che «del» coronavirus parlerà direttamente «al» coronavirus come un esorcista. Solo in un momento mostra incertezza. È quando, travolto dall'enfasi, azzarda: «Siamo una grande nazio...». S'accorge della gaffe che potrebbe far piangere Sergio Mattarella, papa Francesco e l'Anpi, quindi corregge subito: «...una grande comunità». La seconda caratteristica è nella figura di nuovo commissario della crisi, quel Domenico Arcuri tolto dal taschino come un due di picche per affiancare Angelo Borrelli nella gestione organizzativa dell'emergenza. Arcuri è un grand commis dalemiano avvezzo a confondersi con il colore delle pareti, un manager pubblico che non ha mai affrontato una calamità. E che mai potrebbe allungare la propria ombra sulla figura del premier in versione araba fenice come invece quel Bertolaso chiesto a gran voce dal centrodestra e di conseguenza bruciato, in barba al grande abbraccio fraterno sollecitato dal Quirinale. La terza caratteristica, la più preoccupante, sta nel totale disinteresse nei confronti delle altre istituzioni, che proprio Conte per settimane ha chiesto a parole di aggregare. Per tre volte ha portato davanti agli italiani provvedimenti ispirati e sollecitati dalle regioni Lombardia e Veneto, da sindaci, medici, ricercatori, luminari. E per tre volte non ha mai riconosciuto a loro la primogenitura. A fine febbraio Attilio Fontana e Luca Zaia già chiedevano misure straordinarie. Lui ha raccolto le informazioni, ha lasciato sedimentare per due giorni gli allarmi (strategia pericolosissima durante un contagio, 48 ore sono un'eternità) e poi ha convocato la conferenza stampa dal bunker della Protezione civile, quella con il maglioncino, nella quale ha blindato Codogno. Una settimana dopo davanti ai governatori di nuovo in allarme, che chiedevano provvedimenti più mirati e decisivi anche per neutralizzare le allegre comari dell'apericena solidale (Nicola Zingaretti, Giuseppe Sala e il governo tutto hanno la memoria corta), ha atteso il sabato notte per intestarsi il più imbarazzante pasticcio informativo dell'Italia repubblicana: la fuga da Milano con i treni di mezzanotte. Mai un confronto, mai un riconoscimento. Al contrario, una subdola e continua tattica dilatoria per intestarsi le sacrosante richieste che altri avevano gridato In anticipo, in preda all'esasperazione.L'ultimo esempio è il più assurdo. Lunedì scorso Fontana e Zaia spingono per la chiusura totale, il quasi coprifuoco, sollecitati dai medici allo stremo. La richiesta arriva a Palazzo Chigi che risponde picche. Martedì mattina ai governatori si aggiungono i sindaci lombardi (anche Giorgio Gori del Pd dalla Bergamo martoriata dall'attendismo dello Stato) con una lettera, ma Fontana sottolinea in conferenza stampa: «A Roma non vogliono capire la gravità della situazione». Nel pomeriggio Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani escono dall'incontro con il premier esprimendo delusione. A sera il commissario Borrelli si lascia scappare: «Il governo non è indisponibile a un inasprimento delle misure, ma vuole farlo passo dopo passo e in maniera misurata. Vedremo nei prossimi giorni». Con calma, quante marche da bollo servono? Arriva mercoledì e non accade niente fino alle 21.40 quando Conte, lasciata bollire la faccenda per i canonici due giorni neanche fosse uno stracotto di rinoceronte, va davanti alle telecamere e parla delle «scelte che ho sin qui assunto» e dei «patti con la mia coscienza». Chiude l'Italia come a Ferragosto, pur con un decreto pieno di buchi e contraddizioni. Senza mai fare cenno a chi si è dovuto sfinire - fra pressioni e suppliche - per costringerlo a compiere il suo dovere.Per una distorsione psicanalitica molto italiana, Winston Conte arriva a rimorchio di tutti con 48 ore di ritardo ma si percepisce l'uomo della provvidenza. Statista, consolatore, scienziato, trainer, affabulatore. Nel discorso del lockdown (che è stato trascinato per le orecchie a fare), trova il modo di ringraziare e motivare i medici «che stanno lavorando senza sosta negli ospedali per curare i malati». Bontà sua. Sono gli stessi che due settimane fa aveva additato al mondo intero come il problema e non come la soluzione.