2024-07-17
Il conservatorismo di J.D. Vance. Classe lavoratrice al centro e realismo in politica estera
Il numero due di The Donald è un intellettuale rispettato dagli avversari. Raccontò il malessere dei bianchi declassati e ora vuole dare una base culturale al populismo.Questo è uno che li spaventa davvero. J.D. Vance – l’uomo che Donald Trump ha indicato come candidato vicepresidente – è probabilmente l’osso più duro da masticare che i liberal statunitensi potessero trovare in circolazione, perché semplicemente non è possibile attribuirgli nemmeno uno degli stereotipi con cui i progressisti sono soliti dipingere la destra. Anzi, a ben vedere è una sorta di serpe in seno del sistema. Quarant’anni a malapena, studi in scienze politiche e poi legge a Yale, il tutto nonostante provenga dalla povertà più nera e dalla peggiore immondizia umana bianca, J.D. è un intellettuale, con uno straordinario talento di scrittore deflagrato nel bestseller – sollecitato da Amy Chiua, una che di classifiche se ne intende – Elegia americana (poi un film di Ron Howard su Netflix, mainstream puro). Nato Hillbilly, cioè bifolco, ha attraversato il meglio dell’industria formativa statunitense e si è posizionato ai vertici della scala sociale, proprio di fianco al suo mentore libertario e vagamente accelerazionista Peter Thiel. Il dominus di Paypal e soprattutto di Palantir, società di analisi dati che opera al fianco delle istituzioni americane, Cia e Fbi comprese. Per inciso: Thiel è gay e sposato con un maschio, eppure ha portato in palmo di mano e generosamente finanziato Vance, che nel 2019 si è convertito al cattolicesimo ed è un pro life di granito, contrario all’aborto e demolitore entusiasta dei deliri woke.Fa paura, Vance, ai sinistrorsi di tutto il mondo. Perché ha una testa affilata, una cultura profonda: sa scrivere e sa parlare, argomenta e sgomenta gli avversari abituati alla retorica un filo superficiale di Trump (di cui, come noto, J.D. è stato un feroce critico prima di diventarne un appassionato e forse anche interessato sostenitore).impulsi e ideologiaIl quadro della situazione lo ha disegnato perfettamente la liberal Michelle Goldberg sul New York Times: «Trump ha degli impulsi, mentre Vance ha un’ideologia. Ha lavorato più di qualsiasi altro politico in America per creare qualcosa di coerente dalle preoccupazioni e dalle lamentele di Maga (Make America Great Again, ndr). Non vuole solo possedere il potere, vuole esercitarlo in modi molto specifici. Nella misura in cui Maga avrà gambe ideologiche dopo che Trump se ne sarà uscito di scena, sarà in gran parte grazie a Vance». Parole ostili, senza dubbio, ma centratissime. Vance ha la struttura intellettuale che The Donald non ha, maneggia argomenti e stili che i commentatori progressisti non sono abituati a trovare negli avversari. Come ha scritto Ben Shapiro – stella splendente del nuovo conservatorismo, fondatore di Daily Wire e in passato critico di Trump – la scelta di Vance «dimostra che Trump vuole un bulldog. Vance è certamente questo. In termini di puro QI e capacità di parlare, Vance è il miglior candidato che Trump potesse scegliere». Sacrosanto.Tuttavia, J.D. non è un certo diventato un fighetto, o un soggetto da vecchia scuola del Gop, anzi. Se i neoconservatori erano «liberal assaliti dalla realtà», Vance potrebbe rappresentare i repubblicani assaliti dalla realtà. Di più: con la realtà ci ha fatto a schiaffi e a pugni, uscendone vincitore. E dalle letture di Ayn Rand e dei liberali austriaci è passato a posizioni più comunitariste sullo stile della rivista The American Conservative, che non a caso lo ha sostenuto con entusiasmo durante la corsa (vinta) per diventare senatore dell’Ohio nel 2022. In un articolo pubblicato da Unherd nel 2019, ha illustrato il suo percorso per sommi capi: «Non intendo criticare il libertarismo», ha scritto. «Ho appreso per la prima volta del conservatorismo da Friedrich Hayek: La via della schiavitù è uno dei migliori libri che abbia mai letto sul pensiero conservatore. Ma credo che i conservatori abbiano esternalizzato il nostro pensiero di politica economica e interna ai libertari. […] Dovremmo preoccuparci del fatto che la nostra economia sia più orientata allo sviluppo di applicazioni che alla cura di malattie terribili, e dovremmo preoccuparci di tutta una serie di beni comuni, ed essere effettivamente disposti a usare la politica e il potere politico per ottenere alcuni di questi beni. La domanda che i conservatori si trovano ad affrontare in questo momento chiave è questa: chi serviamo? Serviamo la libertà commerciale pura e senza restrizioni? Serviamo il commercio a scapito del bene pubblico? Oppure serviamo qualcosa di più alto? E siamo disposti a usare il potere politico per realizzare effettivamente queste cose?».Ai fini della vicepresidenza, ha sostenuto l’editorialista cattolico del New York Time Ross Douthat, che gli è amico da anni, i tratti più rilevanti di Vance sono senz’altro «le sue rotture con l’ortodossia politica del Gop pre-Trump, il suo anti-libertarismo sulla politica economica e la sua visione di un impero americano che è troppo sovraccaricato e ha bisogno di riequilibrare e ricostruire la sua forza».le idee chiaveProprio nel corso di una lunga conversazione con Douthat pubblicata dal Times, J.D. ha espresso con la consueta, cristallina chiarezza le sue idee centrali. Intanto, la critica alla globalizzazione, che è soprattutto attenzione alla working class americana, ai salari e alle condizioni di vita dei più fragili.«La spinta principale dell’ordine americano postbellico della globalizzazione ha comportato fare sempre maggiore affidamento sulla manodopera più economica. La questione commerciale e la questione dell’immigrazione sono due facce della stessa medaglia: la questione commerciale è manodopera più economica all’estero; la questione dell’immigrazione è manodopera più economica in patria, cosa che esercita una pressione al rialzo su un’intera serie di servizi, dai servizi ospedalieri all’edilizia abitativa e così via», ha detto J.D. al New York Times. «La visione populista, almeno per come esiste nella mia testa, è un’inversione di tutto ciò: applicare quanta più pressione possibile al rialzo sui salari e quanta più pressione possibile al ribasso sui servizi che le persone utilizzano. Abbiamo avuto fin troppo poca innovazione negli ultimi quarant’anni e fin troppa sostituzione di manodopera». Insomma, il nostro è ciò che potrebbe essere Bruce Springsteen se fosse più giovane, meno ricco e meno bollito (e meno bravo a suonare).Intendiamoci: Vance non è mica un rossobruno, rimane pur sempre uno che con l’élite ha avuto e ha commercio di vario genere, sa stare nei salotti e nei palazzi di vetro, e pensa in grande. Lo descrivono come isolazionista ma, di nuovo, è l’esatto contrario dell’americano disinteressato alla sorte degli «asshole countries». Piuttosto, sembra aver appreso qualche lezione di realismo da John Mearsheimer. «Il termine “realista” viene usato molto spesso, e direi che ci sono tre pilastri del realismo nel 21° secolo», ha spiegato di recente. «Il primo è che i moralismi tipo “Questo Paese è buono”, “Questo Paese è cattivo” sono in gran parte inutili, e dovremmo trattare con gli altri Paesi in base al fatto che siano buoni o cattivi per gli interessi dell’America. Ciò non significa avere un punto cieco morale completo, ma significa che devi essere onesto sui Paesi con cui si ha a che fare. […] La seconda è la lezione più importante della seconda guerra mondiale, che a quanto pare abbiamo dimenticato: che il potere militare è a valle del potere industriale. Siamo ancora, in questo momento, la superpotenza militare mondiale, in gran parte a causa della nostra potenza industriale degli anni Ottanta e Novanta. Ma la Cina è un Paese più potente industrialmente di noi, il che significa che avrà un esercito più potente tra vent’anni. E il terzo punto è riconoscere che viviamo in un mondo multipolare e che abbiamo bisogno di alleati che si facciano avanti in modo significativo, così da poterci concentrare sull’Asia orientale, che sarà il nostro concorrente più importante per i prossimi 20 o 30 anni».che fare con putin?Come si può vedere, l’uomo è lungimirante, e non sembra molto turbato dalle nemmeno troppo velate accuse di putinismo che gli vengono mosse. In più occasioni si è lamentato del fatto che gli Usa stiano inviando «tutte le dannate armi all’Ucraina e non a Taiwan». E riguardo a Kiev è stato molto netto: «Ciò che vorrei fare […] è congelare i confini territoriali da qualche parte vicino a dove sono adesso. Questa è la cosa numero uno. La numero due è garantire sia l’indipendenza di Kiev che la sua neutralità. È la cosa fondamentale che i russi hanno chiesto fin dall’inizio. Non sono ingenuo. Penso che i russi abbiano chiesto molte cose in modo disonesto, ma la neutralità è chiaramente qualcosa che vedono come esistenziale per loro. E poi, terza cosa, ci dovrà essere un po’ di supporto americano alla sicurezza nel lungo termine».Tanto realismo, dunque. Senza dimenticare la poesia, di cui ha fatto largo (e un filo stucchevole) uso annunciando il suo impegno politico: «È tempo, come disse una volta Ronald Reagan, di scegliere, e io scelgo mio figlio». Che tradotto significa: riprendiamoci l’America macellata dalle «culture wars» e rendiamola grande di nuovo. Oggi con Trump, domani chissà.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.