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2018-10-01
Confcommercio incassa solo mezza cedolare secca e spera nella riforma delle partite Iva
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L'organizzazione più vasta del mondo degli esercenti, Confcommercio, già prima della campagna elettorale per le politiche del 4 marzo, aveva ospitato i maggiori leader di partito: e tutti (tranne Luigi Di Maio, che non aveva fatto in tempo a presenziare) si erano espressi per un disinnesco delle clausole. Impegno assunto anche dallo stesso Di Maio dopo il voto del 4 marzo, ospite in una successiva circostanza del presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.
Allo stato, in attesa che venga resa nota (già oggi, lunedì, o domani) la versione definitiva della Nota di aggiornamento al Def, alla Verità risulta che l'esecutivo Conte, nel tentativo di ampliare i margini di manovra e di liberare più risorse, stia lavorando su due soluzioni suggerite da questo giornale: o (e sarebbe ovviamente la soluzione più desiderabile) negoziare con l'Ue lo scomputo dal 2,4% del rapporto deficit/Pil dello 0,7% rappresentato dai 12 miliardi necessari al disinnesco della prima tranche di clausole, oppure (in subordine) l'allungamento delle clausole per un altro anno, fino al 2021.
Nel mondo del commercio, tuttavia, c'è preoccupazione rispetto a una terza (e assai diversa) ipotesi, inserita in una bozza della Nota di aggiornamento che era circolata la scorsa settimana, e tuttavia smentita dal governo (il Mef l'ha definita «superata»). In quel testo, si ipotizzava di non disinnescare totalmente gli aumenti Iva, ma di limitarsi a una rimodulazione dell'Iva, impiegando così molto meno di 12 miliardi. In quella bozza provvisoria, c'era proprio quel concetto di rimodulazione, accanto a un richiamo (tipico dei documenti dell'Ocse) allo spostamento della tassazione «dalle persone alle cose». Quel richiamo, inclusa la citazione Ocse, non era sembrato rassicurante a molti.
Peraltro, la scorsa settimana, proprio Confcommercio ha ospitato il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, alla vigilia del consiglio dei ministri di venerdì. A introdurlo, era stata una relazione del direttore dell'Ufficio studi di Confcommercio, Mariano Bella (tabella 1), che aveva esordito (tabella 2) presentando un quadro della pressione fiscale apparente nei maggiori Paesi occidentali, anche considerando la mutata situazione negli ultimi dieci anni, dal 2007 a oggi. In quel quadro, l'Italia appare posizionata su un poco rassicurante 42,4, dietro le performance ancora peggiori di Francia e Paesi scandinavi, ma messa assai peggio di Regno Unito, Spagna, Giappone e Stati Uniti.
Secondo l'Ufficio Studi Confcommercio (tabella 3), le previsioni di crescita appaiono complessivamente rattrappite: il Pil 2018 dovrebbe fermarsi a un +1,1%, (con consumi allo 0,9), mentre le previsioni per il 2019 sono ancora più flebili, con il Pil al +1% (e consumi al +0,8). Questo, se le clausole di salvaguardia non scattassero. Se invece scattassero (tabella 5), la contrazione sarebbe ancora maggiore: consumi a un modesto 0,3, e Pil allo 0,6. Insomma, un'incidenza estremamente negativa delle clausole, se non fossero disinnescate. Nella tabella 6 è stata anche preparata una valutazione dell'impatto degli eventuali aumenti Iva sulle principali voci di spesa per le famiglie.
Infine, Mariano Bella (tabella 4) ha anche immaginato, in un esercizio per "stanare" il ministro, una allocazione delle risorse necessarie per realizzare il programma di Lega e M5S. In questa simulazione, Confcommercio immagina 5 miliardi per ciascuna delle misure più rilevanti (interventi sulla Fornero, mini flat tax per le partite Iva, reddito di cittadinanza), più una serie di ulteriori stanziamenti per le altre voci (disavanzo per minore crescita, maggiore spesa per interessi, altre spese non differibili, più ovviamente il disinnesco degli aumenti Iva). Secondo quella simulazione, per coprire tutte le esigenze, il rapporto deficit/Pil reale sarebbe dovuto arrivare a un 2,6-2,8%.
Come si sa, dinanzi a questi stimoli, il ministro Tria ha preferito non sbottonarsi, lanciando invece un messaggio di principio («ho giurato nell'interesse esclusivo della Nazione»). Le cronache sanno cosa sia successo nei giorni seguenti.
Ci sono infine altri due aspetti più specifici, verso la legge di bilancio, che riguardano in modo più generale il mondo delle piccole imprese.
Da un lato (e si tratta di un progresso più limitato di quanto si poteva auspicare), il governo è sì orientato a estendere la cedolare secca anche alle locazioni commerciali: ma la misura non pare destinata a scattare per tutti i negozi, bensì solo per quelli sfitti da due anni. È pur sempre un primo passo.
Dall'altro lato (e pure qui si accolgono le preoccupazioni della Verità), sembra confermato che il governo, nell'innalzare a 65.000 euro di fatturato la soglia per l'accesso alla tassazione agevolata del 15% per le partite Iva, allenterà molto i vincoli del vecchio sistema dei minimi, che penalizzavano – paradossalmente – le partite Iva che assumono e investono. Come si ricorderà, nel vecchio regime dei minimi, in cui la soglia di fatturato oscillava tra i 30 e i 50.000 euro, erano però escluse le partite Iva che spendevano 5.000 euro lordi per dipendenti o che usavano beni strumentali per 20.000 euro. Vedremo in che misura quei vincoli saranno forzati. Sembra anche confermata l'agevolazione (tasse al 20%) per le partite Iva con fatturato tra i 65.000 e i 100.000 euro annui.
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Il mondo del commercio attende con particolare attenzione - e anche con un filo di inquietudine - le decisioni del governo in vista della legge di bilancio. Al di là delle scelte più generali che saranno compiute in materia di tasse, c'è infatti una spada di Damocle che grava sul settore, e che deriva dalle eredità lasciate dai governi Renzi e Gentiloni: le clausole di salvaguardia, sotto forma di minacciati aumenti dell'Iva, per un valore di oltre 12 miliardi. L'imposta secca sugli affitti di negozi vale solo per quelli sfitti da due anni e non per tutte le locazioni. L'organizzazione guidata da Carlo Sangalli spera che la flat tax per i professionisti si estenda fino ai 100.000 euro di fatturato.L'organizzazione più vasta del mondo degli esercenti, Confcommercio, già prima della campagna elettorale per le politiche del 4 marzo, aveva ospitato i maggiori leader di partito: e tutti (tranne Luigi Di Maio, che non aveva fatto in tempo a presenziare) si erano espressi per un disinnesco delle clausole. Impegno assunto anche dallo stesso Di Maio dopo il voto del 4 marzo, ospite in una successiva circostanza del presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.Allo stato, in attesa che venga resa nota (già oggi, lunedì, o domani) la versione definitiva della Nota di aggiornamento al Def, alla Verità risulta che l'esecutivo Conte, nel tentativo di ampliare i margini di manovra e di liberare più risorse, stia lavorando su due soluzioni suggerite da questo giornale: o (e sarebbe ovviamente la soluzione più desiderabile) negoziare con l'Ue lo scomputo dal 2,4% del rapporto deficit/Pil dello 0,7% rappresentato dai 12 miliardi necessari al disinnesco della prima tranche di clausole, oppure (in subordine) l'allungamento delle clausole per un altro anno, fino al 2021.Nel mondo del commercio, tuttavia, c'è preoccupazione rispetto a una terza (e assai diversa) ipotesi, inserita in una bozza della Nota di aggiornamento che era circolata la scorsa settimana, e tuttavia smentita dal governo (il Mef l'ha definita «superata»). In quel testo, si ipotizzava di non disinnescare totalmente gli aumenti Iva, ma di limitarsi a una rimodulazione dell'Iva, impiegando così molto meno di 12 miliardi. In quella bozza provvisoria, c'era proprio quel concetto di rimodulazione, accanto a un richiamo (tipico dei documenti dell'Ocse) allo spostamento della tassazione «dalle persone alle cose». Quel richiamo, inclusa la citazione Ocse, non era sembrato rassicurante a molti.Peraltro, la scorsa settimana, proprio Confcommercio ha ospitato il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, alla vigilia del consiglio dei ministri di venerdì. A introdurlo, era stata una relazione del direttore dell'Ufficio studi di Confcommercio, Mariano Bella (tabella 1), che aveva esordito (tabella 2) presentando un quadro della pressione fiscale apparente nei maggiori Paesi occidentali, anche considerando la mutata situazione negli ultimi dieci anni, dal 2007 a oggi. In quel quadro, l'Italia appare posizionata su un poco rassicurante 42,4, dietro le performance ancora peggiori di Francia e Paesi scandinavi, ma messa assai peggio di Regno Unito, Spagna, Giappone e Stati Uniti.Secondo l'Ufficio Studi Confcommercio (tabella 3), le previsioni di crescita appaiono complessivamente rattrappite: il Pil 2018 dovrebbe fermarsi a un +1,1%, (con consumi allo 0,9), mentre le previsioni per il 2019 sono ancora più flebili, con il Pil al +1% (e consumi al +0,8). Questo, se le clausole di salvaguardia non scattassero. Se invece scattassero (tabella 5), la contrazione sarebbe ancora maggiore: consumi a un modesto 0,3, e Pil allo 0,6. Insomma, un'incidenza estremamente negativa delle clausole, se non fossero disinnescate. Nella tabella 6 è stata anche preparata una valutazione dell'impatto degli eventuali aumenti Iva sulle principali voci di spesa per le famiglie.Infine, Mariano Bella (tabella 4) ha anche immaginato, in un esercizio per "stanare" il ministro, una allocazione delle risorse necessarie per realizzare il programma di Lega e M5S. In questa simulazione, Confcommercio immagina 5 miliardi per ciascuna delle misure più rilevanti (interventi sulla Fornero, mini flat tax per le partite Iva, reddito di cittadinanza), più una serie di ulteriori stanziamenti per le altre voci (disavanzo per minore crescita, maggiore spesa per interessi, altre spese non differibili, più ovviamente il disinnesco degli aumenti Iva). Secondo quella simulazione, per coprire tutte le esigenze, il rapporto deficit/Pil reale sarebbe dovuto arrivare a un 2,6-2,8%.Come si sa, dinanzi a questi stimoli, il ministro Tria ha preferito non sbottonarsi, lanciando invece un messaggio di principio («ho giurato nell'interesse esclusivo della Nazione»). Le cronache sanno cosa sia successo nei giorni seguenti.Ci sono infine altri due aspetti più specifici, verso la legge di bilancio, che riguardano in modo più generale il mondo delle piccole imprese.Da un lato (e si tratta di un progresso più limitato di quanto si poteva auspicare), il governo è sì orientato a estendere la cedolare secca anche alle locazioni commerciali: ma la misura non pare destinata a scattare per tutti i negozi, bensì solo per quelli sfitti da due anni. È pur sempre un primo passo.Dall'altro lato (e pure qui si accolgono le preoccupazioni della Verità), sembra confermato che il governo, nell'innalzare a 65.000 euro di fatturato la soglia per l'accesso alla tassazione agevolata del 15% per le partite Iva, allenterà molto i vincoli del vecchio sistema dei minimi, che penalizzavano – paradossalmente – le partite Iva che assumono e investono. Come si ricorderà, nel vecchio regime dei minimi, in cui la soglia di fatturato oscillava tra i 30 e i 50.000 euro, erano però escluse le partite Iva che spendevano 5.000 euro lordi per dipendenti o che usavano beni strumentali per 20.000 euro. Vedremo in che misura quei vincoli saranno forzati. Sembra anche confermata l'agevolazione (tasse al 20%) per le partite Iva con fatturato tra i 65.000 e i 100.000 euro annui.
Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, risponde al Maestro Riccardo Muti e si impegna a lavorare con il ministero degli Esteri per avviare contatti ai più alti livelli con la Francia per riportare a Firenze le spoglie del grande compositore Cherubini.
Michele Emiliano (Ansa)
Fino ad oggi, però, nessun risultato. Forse la comunicazione non è stata così «forte» come fu la lettera che proprio l’allora governatore dem inviò a tutti i dirigenti e dipendenti della Regione, delle sue agenzie e società partecipate, invitandoli a interrompere i rapporti con il governo di Netanyahu «a causa del genocidio di inermi palestinesi e con tutti quei soggetti ad esso riconducibili che non siano apertamente e dichiaratamente motivati dalla volontà di organizzare iniziative per far cessare il massacro nella Striscia di Gaza».
Ora, dopo l’addio di Emiliano e l’arrivo del neo governatore Antonio Decaro, gli sprechi non sarebbero stati eliminati dalle sette società nel mirino, parzialmente o interamente controllate dalla Regione Puglia: Acquedotto spa, InnovaPuglia, Aeroporti di Puglia, Puglia valore immobiliare, Terme di Santa Cesarea, Puglia sviluppo e Aseco. Infatti, secondo il report approdato in giunta regionale nel corso dell’ultima seduta, è stato evidenziato che non c’è stata riduzione di spesa di funzionamento in nessuna di queste, anzi in tre hanno addirittura superato i limiti per consulenze (Puglia sviluppo, Acquedotto e Terme di Santa Cesarea), mentre il dato peggiore è sulle spese di acquisto, manutenzione, noleggio delle auto o di acquisto di buoni taxi. Quattro società non hanno comunicato alcun dato, mentre Aeroporti ha certificato lo sforamento. Nel dettaglio, Acquedotto pugliese, anziché contenere le spese di funzionamento, le ha incrementate di 17 milioni di euro rispetto al 2024. La giustificazione? Il maggior costo del personale «riconducibile al rinnovo del contratto collettivo nazionale», ma pure «l’incremento delle risorse in forza alla società, spese legali, assicurazioni, convegni, pubblicità e marketing, buoni pasto, costi postali non ribaltabili all’utenza nell’ambito della tariffa del Servizio idrico integrato».
Per quanto riguarda le consulenze, invece, Aqp sostiene che, essendo entrati i Comuni nell’assetto societario, nella fase di trasformazione sono stati necessari 639.000 euro per le consulenze.
Aeroporti di Puglia attribuisce l’aumento di spese all’organizzazione del G7, anche se l’incremento dell’8,44%, secondo la società, «è comunque inferiore all’aumento del traffico registrato nel 2024 rispetto al 2023 (+10,51%) e quindi dei ricavi. Spese superate, alla faccia del risparmio, anche per auto e taxi: 120.000 euro in più. Costi lievitati anche per InnovaPuglia, la controllata che si occupa di programmazione strategica a sostegno dell’innovazione: 12 milioni di euro nel 2024 a fronte dei 7 milioni del 2023, passando, in termini percentuali sul valore della produzione, dal 18,21% al 43,68%. Di Aseco, la società in house controllata da Aqp e Ager che si occupa di smaltimento di fanghi e frazione organica dei rifiuti urbani, non si hanno dati aggiornati al punto che è stata sollecitata dalla stessa Regione a comunicarli.
Insomma, secondo la Regione, se aumentano i costi vanno ridotti i servizi poiché il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica prevede quella di contenere le spese di funzionamento individuando specifici obiettivi di spesa come quelli per il personale e quelli per consulenze, studi e ricerche. E la stessa Regione, che ha potere di vigilanza e di controllo, dove accerta «il mancato e ingiustificato raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa» può «revocare gli incarichi degli organi di direzione, amministrazione e controllo nominati nelle società». La palla passa a Decaro.
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