2020-09-30
Con Jünger tra gli incubi della Silicon Valley
Torna dopo decenni il romanzo «Le api di vetro», in cui l'autore tedesco aveva previsto le derive della civiltà tecnologica e l'avvento dei robot. Con un'amara consapevolezza: «Perfezione umana e perfezionamento tecnico non sono conciliabili».Nel 1957, Ernst Jünger non stava certo vivendo un periodo radioso. Aveva già pubblicato due dei suoi capolavori: Sulle scogliere di marmo (1932) e L'operaio (1934). Quest'ultimo scritto in particolare aveva contribuito ad alimentare la sulfurea reputazione dell'autore tedesco il cui nome veniva superficialmente associato al nazismo, procurandogli non pochi grattacapi. Quello di Jünger, nell'immediato dopoguerra, era un nome sospetto, e gli onori che avrebbe meritato gli venivano negati in quanto appartenente al novero dei «cattivi». Eppure in quei grigi anni Cinquanta egli fu in grado di partorire due delle sue opere più straordinarie, due libri che hanno molto in comune e in qualche modo rimandano l'uno all'altro. Il primo è il Trattato del ribelle, ed è notissimo ai più. Il secondo, invece, è un libro molto meno conosciuto, che da quasi 30 anni manca dagli scaffali delle librerie italiane. Si tratta di un romanzo intitolato Le api di vetro, che l'editore Guanda, con un'operazione meritoria, ha deciso ora di ripubblicare (è in uscita domani).profezie avverateÈ davvero impressionante sfogliare oggi le 225 pagine che compongono quella che a buon diritto si potrebbe definire una distopia, perché Jünger va a infilare il suo bisturi d'acciaio in uno dei temi fondamentali dei nostri giorni, ovvero il rapporto con la tecnologia. È proprio la riflessione sulla tecnica a legare Le api di vetro al Trattato del ribelle. Alcuni critici hanno trovato traccia in queste opere di un cambio d'atteggiamento di Jünger. In opere precedenti (L'operaio, ad esempio), egli sembrava pensare che l'onda tecnologica potesse rivelarsi determinante per la «mobilitazione totale», cioè ai fini di un cambiamento radicale del nostro mondo. Ma ecco che, negli anni Cinquanta, la parte del dubbio sembra farsi più forte. Già nel Ribelle emerge la duplice natura - di luce e di ombra - della civiltà tecnologica: «L'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la massima distruzione, l'automatismo con la catastrofe che prende l'aspetto di un incidente stradale». Nelle Api di vetro il lato oscuro deflagra. Il protagonista della storia è Richard, un ex militare, per la precisione un ex cavaliere. È nelle sue riflessioni che esplode il contrasto tra il passato glorioso - quello delle «tempeste d'acciaio» - e il presente torbido. «Avevamo sempre servito a cavallo», dice Richard. «Ora questi gloriosi animali dovevano spegnersi. Scomparivano dalle strade e dai campi, dai paesi e dalle città, e da molto tempo non si erano più veduti in una carica. Ovunque, venivano sostituiti da automi. La loro sostituzione corrispondeva a un mutamento negli uomini, che diventavano più meccanici, più calcolabili, tanto che spesso non si aveva più nemmeno la sensazione di trovarsi tra uomini». In queste parole sentiamo premere la disillusione di Jünger. Egli auspicava l'ascesa di un nuovo tipo umano, una sorta di sacerdote-guerriero, forse sul modello dei cavalieri teutonici. Nel 1922, nel saggio La battaglia come esperienza interiore, scriveva: «La lotta è sempre qualcosa di sacro, un giudizio divino su due idee contrapposte [...]. La battaglia è la nostra ragione ultima, perché solo combattendo si arriva a possedere qualcosa». Ma che cosa resta della battaglia, del furore del guerriero a cavallo, all'uomo a cui la tecnica ha strappato il rapporto con le forze elementari della natura? Poco o niente. «Ciò che avevano fatto in gioventù e che da migliaia di anni è stato il compito e la gioia dell'uomo», leggiamo nelle Api di vetro, «montare un cavallo, arare di mattina dietro al bue il campo fumante, nell'estate cocente mietere il giallo grano, mentre rivoli di sudore scorrono per il petto abbronzato e le donne possono a stento tenergli dietro, prendere il pasto all'ombra dei grandi alberi: tutto quel che la poesia dai tempi antichissimi ha cantato, ora non doveva più essere. La gioia se n'era andata». E infatti ecco l'ex cavaliere Richard, che dopo le glorie della guerra si ritrova spiantato e alla disperata ricerca di un lavoro. Un suo ex commilitone lo mette allora in contatto con un personaggio stravagante, un certo Giacomo Zapparoni. Quest'ultimo è probabilmente la figura più straordinaria del libro, e forse anche la più profetica. Uomo ricchissimo, è a capo di un'azienda che realizza robot. Per la precisione robot piccolissimi: nanotecnologie diremmo ora. Zapparoni, nel romanzo, è esattamente ciò che oggi sono i guru della Silicon Valley. Ne ha tutto il fascino ambiguo e malsano. Jünger conduce il personaggio di Richard a svelarne il mistero, e non andiamo oltre per non guastare il piacere della lettura. Ci importa più di notare che il genio tedesco aveva compreso con decenni d'anticipo quale sarebbe stata la forza di ciò che oggi conosciamo come Rivoluzione digitale. «Zapparoni poteva esser ritenuto il cavallo di parata dell'elevato ottimismo tecnico, che domina i nostri più eminenti intelletti», scrive Jünger. «Inoltre la tecnica in lui tendeva semplicemente verso le cose piacevoli: il vecchio desiderio dei maghi di mutare il mondo in un attimo per mezzo del pensiero sembrava quasi avverarsi. A questo bisognava aggiungere ancora il grande effetto della sua figura, che ogni capo di Stato gli poteva invidiare e che si vedeva sempre circondata da frotte di bambini». maghi moderniZapparoni è come un antico mago, e il suo potere è quello di rendere la vita più comoda. Egli produce automi, tra cui le «api di vetro» che danno il titolo al romanzo. Seduce le masse con la promessa di una esistenza libera dalla fatica. Ma a che prezzo? Come diventano gli uomini nell'era degli automi? Jünger li osserva e li descrive: «Certo, il lavoro era più facile, anche se meno sano, e rendeva più danaro, lasciava più tempo e forse permetteva più divertimenti. La giornata in campagna è lunga e dura. Eppure tutto ciò valeva meno d'un tondo tallero di prima, del riposo serale, d'una festa campestre. La scontentezza sui loro visi dimostrava chiaramente che si erano scostati dalla felicità». Nell'era della tecnica trionfante, il rischio è che l'uomo diventi meno uomo. Ovvio: il progresso è affascinante, ma dietro i «meccanismi perfetti» possiamo intuire «la minaccia alla nostra integrità, alla nostra simmetria». Nelle vene non pulsa più il sangue ossigenato del guerriero, i muscoli tesi dell'operaio si infiacchiscono. E un'amara constatazione s'affaccia: «La perfezione umana e il perfezionamento tecnico non sono conciliabili. Se vogliamo l'una, bisogna sacrificare l'altra».
Lo stabilimento Stellantis di Melfi (Imagoeconomica)
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