Tre anni di successi per i titoli di Stato Italia, Futura e Valore fra i clienti retail, anche perché la risalita dei tassi ha reso interessante l’obbligazionario. E con emissioni più sistematiche sarebbe cresciuta pure la raccolta. È l’ennesima prova che non ci serve il Mes.
Tre anni di successi per i titoli di Stato Italia, Futura e Valore fra i clienti retail, anche perché la risalita dei tassi ha reso interessante l’obbligazionario. E con emissioni più sistematiche sarebbe cresciuta pure la raccolta. È l’ennesima prova che non ci serve il Mes.Non c’è che dire, l’obbligazionario sovrano in Italia non smette di piacere. Secondo i dati reperiti dalla Verità, solo a partire dal 2020 lo Stato ha raccolto 75,5 miliardi di euro (92,1 in totale considerando anche gli investitori non retail) di euro attraverso tre emissioni obbligazionarie: 53,5 miliardi in totale attraverso il Btp Italia (di cui 36,9 attraverso gli investitori retail), 20,4 con il Btp Futura e 18,2 con il Btp Valore. D’altronde, il merito è anche dello spread tra titolo italiano e tedesco che in questi giorni gravita intorno ai 160 punti contribuendo a tenere i rendimenti a livelli interessanti. Senza considerare l’effetto della tassa sugli extraprofitti bancari che ha affossato i mercati colpendo i titoli degli istituti di credito. Dati che, come spiegava anche l’articolo di domenica di Giuseppe Liturri, dimostrano come al nostro Paese non serva il Mes. Nei primi sette mesi dell’anno il governo ha dovuto affrontare un fabbisogno statale record rispetto al 2021 ed al 2022 fronteggiato con emissioni di titoli pubblici altrettanto consistenti senza che ci fosse la Bce a dominare il mercato. Sono state famiglie e imprese a fare la parte del leone nel sottoscrivere Bot e Btp. Quarantadue miliardi di incremento nei primi quattro mesi del 2023, saliti a 64 a partire da ottobre 2022. Ad aprile si è arrivati a 305 miliardi, pari all’11% del debito pubblico. Siamo anni luce lontani dai massimi di 580 miliardi (49% del debito pubblico dell’epoca) detenuti nel 1996, ma siamo anche al +40% rispetto al minimo di circa 220 miliardi segnato a cavallo tra 2021 e 2022 con il governo Draghi.Per tutti questi motivi e anche per la scarsa probabilità che l’Italia possa finire a gambe all’aria (come, invece avvenne in Argentina ad esempio), l’obbligazionario di Stato si è rivelato un ottimo modo per raccogliere liquidità senza togliere il sonno agli investitori. Viene dunque da chiedersi quanto possa essere utile uno strumento come quello del Mes quando il debito sovrano continua a solleticare l’interesse dei risparmiatori, non solo italiani ma anche stranieri. Quelli che credono nell’Italia e nelle sue potenzialità. Del resto, che il Meccanismo europeo di stabilità non sia la soluzione a tutti i mali lo devono pensare anche a Palazzo Chigi. Il Mes doveva essere ratificato il 30 giugno scorso, invece è stato nuovamente rinviato di quattro mesi. Il premier Giorgia Meloni aveva fatto notare che «discutere adesso questo provvedimento non è nell’interesse nazionale». Il governo, insomma, preferisce attendere. Finché la situazione italiana non si sbloccherà, il meccanismo è congelato (chilling effect) e non può diventare operativo.La funzione principale del Mes è quella di offrire, sotto alcune condizioni, assistenza finanziaria agli Stati membri che hanno difficoltà nel finanziarsi sul mercato. Per sostenere le richieste, il Mes ha a disposizione una serie di strumenti: per esempio, può erogare prestiti, acquistare sui mercati i titoli di Stato del Paese in difficoltà o aprire linee di credito in via precauzionale. In particolare, i prestiti saranno elargiti direttamente dai Paesi creditori, con i loro bilanci, e garantiti ai Paesi economicamente più deboli, senza alcuna interferenza da parte della Commissione o del Parlamento europeo.I numeri raccolti dalla Verità, però, dimostrano che i modi alternativi per finanziarsi ci sono, eccome. Anche perché, va ricordato, con la campagna dei tassi in rialzo voluta dalla numero uno della Bce, Christine Lagarde, l’obbligazionario (che, alla fine, altro non è se non un prestito) torna a essere appetibile. Non lo era quanto i tassi erano a zero e a Francoforte c’era Mario Draghi, ma ora il ritornello è ben diverso. Il Btp Italia, per intenderci, è stato emesso quattro volte dal 2020 (è stato lanciato per la prima volta nel 2012). A maggio del 2020, attraverso la sua sedicesima emissione ha raccolta 22,3 miliardi di euro con il retail, gli investitori finali non le istituzioni, che ha partecipato per oltre il 60% dell’emissione. Nel 2022, con l’emissione successiva sono stati raccolti 9,4 miliardi (quasi il 77% comprati dal retail). Nella seconda emissione dell’anno scorso lo Stato riuscì invece a rastrellare quasi 12 miliardi con una partecipazione degli investitori non professionali di quasi il 61%. Il successo si è poi ripetuto con quasi 10 miliardi di raccolta nel marzo 2023. In questo caso la partecipazione dei risparmiatori comuni è stata dell’86%. Che dire, poi, del Btp Futura, esclusivamente dedicato al retail e messo sul mercato con due emissioni nel 2020 e nel 2021. La prima volta in assoluto questa obbligazione - era il luglio 2020 - ha messo insieme 6,1 miliardi, la seconda (a novembre dello stesso anno) era arrivata a quota 5,7 miliardi. L’anno successivo i cittadini hanno di fatto prestato all’Italia quasi altri 5,5 miliardi, emissione seguita poi da un’altra di 3,2 miliardi a novembre. Il vero boom c’è stato quest’anno con il Btp Valore, anch’esso pensato solo per la clientela retail. In una sola occasione lo Stato ha raccolto poco meno di 18,2 miliardi di euro, una cifra monstre per una sola emissione. In questo caso ad attirare l’attenzione degli investitori c’era un tasso di interesse crescente (3,25% per i primi due anni e 4% per il terzo e il quarto anno), una tassazione agevolata (12,5%) e un «premio fedeltà» (0,5% del capitale investito) oltre alle cedole semestrali.E chissà quali risultati si sarebbero raggiunti con emissioni più sistematiche.L’Italia, insomma, complice anche l’amore degli italiani per l’obbligazionario (solo il mattone forse è più apprezzato nella classifica degli investimenti) ha già un ottimo modo per finanziarsi e la sua solidità patrimoniale rende il Mes non troppo interessante. Non stupisce, infatti, che tra i Paesi che lo hanno ratificato vi siano il Portogallo, la Grecia, Cipro, tutte economie non tra le più forti in Europa. In più, l’accesso a questo sistema di finanziamento potrebbe essere letto dai mercati come un segnale di debolezza che potrebbe avere anche un impatto sui tassi di interesse dei titoli di Stato.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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