2023-12-04
«Invito al confronto Non una di meno»
Jacopo Coghe (Imagoeconomica)
Il portavoce di Pro vita, Jacopo Coghe: «Pronto a discutere con le femministe che ci hanno devastato la sede. Dalla sinistra e dalla Schlein nemmeno una parola di solidarietà. L’educazione sessuale? Spetta ai genitori, non alla scuola».Sui social, Jacopo Coghe si definisce «papà di cinque figli» e dichiara di battersi «per la Vita, la Famiglia e la Libertà Educativa». Tutte con la lettera maiuscola. Per alcuni, il portavoce di Pro vita & famiglia è il campione di principi messi in pericolo dall’ideologia gender, dalla lobby Lgbt e dalle femministe. Per altri, è l’emblema di un bigottismo misogino e omofobo. La pensano così le attiviste di Non una di meno, che il 25 novembre, durante il corteo contro la violenza sulle donne, la violenza hanno pensato bene di esercitarla contro la sede romana dell’organizzazione. Un assalto in piena regola, con saracinesche divelte, vetrine sfondate e persino un rudimentale ordigno, rivenuto all’interno dei locali.Come ci è finito? Siete sicuri siano state loro?«Le telecamere di sicurezza ce le hanno oscurate. Si sono arrampicate, a volto coperto e hanno ricoperto di spray gli obiettivi. Però noi abbiamo un altro video».Cosa si vede?«Il momento in cui spaccano il vetro con una specie di spranga. Nei filmati delle telecamere interne si scorge l’ordigno. Non benissimo, perché sono camere a infrarossi e la risoluzione è bassa. Però si capisce che l’oggetto compare proprio nel momento in cui è stato rotto il vetro».Ma che roba era? Una molotov?«Era un esplosivo con un innesco e la miccia di una candela. Avevano compresso della polvere da sparo in una bottiglia, l’avevano sigillata, avevano chiuso il tappo con la cera e l’avevano avvolta con dello spago».Una bomba, ma molto artigianale.«Però la miccia era bruciata. Quindi, a mio avviso, avevano provato ad accenderla, l’hanno buttata dentro, solo che nel lancio si è spenta la miccia. Dopodiché, io sono il primo che non vuole ingigantire questo incidente: non è che sarebbe saltata in aria la sede. L’hanno detto anche gli artificieri. Comunque, l’esplosione avrebbe potuto dar fuoco agli oggetti e nei locali si sarebbe potuto sviluppare un incendio».Da Elly Schlein e dalla sinistra sono arrivate manifestazioni di solidarietà?«Silenzio totale».Le femministe dicono che voi mistificate la realtà.«Hanno pubblicato un lungo post, analizzando tutte le nostre campagne di comunicazione e le affissioni dei manifesti, e hanno rivendicato la loro azione».Avevano ammesso di avervi «sanzionati». Però non ci sono indagate tra le attiviste di Non una di meno.«Che io sappia, per ora no».Sostengono che quelli violenti siete voi.«L’ha detto anche Nicola Fratojanni a Fuori dal Coro».Al IX Municipio di Roma c’è stata una mozione per condannare la violenza. La vostra, appunto. Voi siete contro l’autodeterminazione delle donne?«Sono loro che sono contro l’autodeterminazione delle donne, perché nemmeno le farebbero nascere».Voi vorreste vietarlo, l’aborto.«Io non vorrei vietarlo. Vorrei che fosse impensabile. La mia è una battaglia culturale, prima che normativa».Non è la vostra cultura a creare il contesto in cui maturano i delitti contro le donne?«Chi lo sostiene, forse, ha vissuto nelle famiglie sbagliate. La famiglia è il luogo principale dell’amore, il luogo in cui si insegna la solidarietà e in cui si impara a fare i conti con l’alterità».Riconoscete solo la famiglia tradizionale. E le altre?«La famiglia è una sola: quella naturale, fondata sul matrimonio. Lo stabilisce anche la nostra Costituzione».La famiglia non è dove sta l’amore?«L’amore da solo non fa una mamma e un papà».Perché no?«Se love is love, se tutto è amore, allora niente è amore. Allora è valido tutto. Non esistono più regole e limiti. La famiglia è il patto duraturo, stabile, in virtù del quale un uomo e una donna si impegnano a vivere insieme e creare una piccola società, aprendosi alla vita. In una famiglia contano anche i legami biologici».I femminicidi sono colpa del patriarcato?«Non voglio banalizzare la questione. Bisognerebbe analizzare caso per caso. A me pare che viviamo in una società nella quale alcuni ragazzi, alcuni uomini, non sono in grado di affrontare le difficoltà nei rapporti. Non sanno elaborare rifiuti e separazioni. Dopodiché, ci sono più omicidi di donne in Paesi come Francia e Germania, che, in teoria, dovrebbero essere mano “patriarcali” dell’Italia».Quindi?«Con la stessa logica, si dovrebbe puntare il dito sull’eccessivo libertinaggio, o sull’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole. In Inghilterra, l’educazione sessuale è concepita per prevenire gli aborti e, invece, in quelle fasce d’età ci sono più aborti».Boccia l’idea dell’educazione sentimentale in classe?«Completamente. I genitori devono essere i primi educatori. Glielo dico da padre di cinque figli: un’educazione a tappeto nelle scuole andrebbe a innestarsi su alunni molto diversi tra loro, alcuni dei quali, magari, non sono ancora pronti, specie in certe fasce d’età, ad affrontare l’argomento. Sarebbe una piccola violenza. Sono i genitori a dover capire quando è ora di parlarne».Come?«È una cosa molto naturale. Un genitore attento sa quando è arrivato il momento. Spesso, sono i figli stessi a chiedertelo».Lei è un bigotto cattolico? Insegna la castità ai figli?«Spetta a ogni genitore, anche in base al suo credo religioso, decidere quali valori trasmettere. Io cerco di insegnare la dignità e il rispetto per il proprio corpo e il corpo degli altri. Anche un po’ di pudore. Un sano pudore, non un sentimento bacchettone».Non potete confrontarvi - dialetticamente - con le femministe di Non una di meno?«È difficile discutere con i violenti. Ma io lo farei anche domani. Anzi, le invito a un dibattito».Anche sull’educazione sessuale a scuola?«Ma loro già sono entrate nelle scuole, eh».Cosa intende?«Noi riceviamo diverse segnalazioni sull’intervento di movimenti legati a Non una di meno, che vanno nelle scuole a spiegare cos’è l’identità di genere e cosa sono i rapporti omosessuali».Un esempio?«Il Comune di Roma, con l’associazione Scosse, che collabora con Non una di meno, ha organizzato un corso di formazione obbligatorio per maestre di scuole dell’infanzia e primarie. Tra i vari argomenti, c’era il concetto di identità di genere da insegnare ai bambini».Il vostro sospetto è che l’obiettivo sia estendere questo modello all’intero Paese?«Esatto».Voi di Pro vita siete andati al funerale di Indi Gregory, a Nottingham. Accanto alla bara, c’era il tricolore.«Per l’Italia, i genitori hanno avuto parole di profondo affetto. Erano grati del tentativo che la nostra nazione ha fatto di offrire alla bambina un’alternativa».La Consulta di bioetica onlus non ha gradito la presenza alle esequie dei ministri Eugenia Roccella e Alessandra Locatelli. E nemmeno l’esposizione della bandiera.«Quelle dell’associazione sono parole inqualificabili, che arrivano in un momento di profondo dolore per la famiglia Gregory e che di fatto avallano un sistema sanitario, quello inglese, intriso di una pericolosa mentalità eutanasica. Indi era una cittadina italiana a tutti gli effetti e i genitori hanno voluto che ci fosse la nostra, anzi la sua bandiera. Forse che i membri del comitato si vergognano di essere italiani? Oppure si vergognano che siano stati dati a una cittadina italiana tutti gli onori che le spettavano, vista la gravità del caso?».I critici sostengono che, se l’avessero portata al Bambino Gesù, Indi avrebbe sofferto di più.«Non sanno quello che dicono. I medici italiani non hanno promesso di guarirla. Hanno proposto un accompagnamento graduale, che non significasse staccarle i macchinari e lasciarla morire soffocata».Scusi, ma come si può seriamente pensare che i medici inglesi volessero ammazzare una bambina?«Eppure, hanno preteso il distacco immediato del respiratore all’interno di un hospice, in cui non c’erano nemmeno dei medici e il personale, per errore, ha scollegato pure il sistema di alimentazione, poi ricollegato in maniera raffazzonata. È questo che ha fatto soffrire ancor di più Indi. E il suo non è il primo caso».Certo: Charlie Gard, Alfie Evans…«Infatti, dovremmo stipulare un protocollo d’intesa con Londra, affinché non si arrivi mai più a situazioni come queste. E i genitori siano liberi di portare in Italia i loro figli malati».Rivendichiamo la libertà di morire. Lei, adesso, intende rivendicare la libertà di vivere e di curare?«Il paradosso è questo: un genitore non sarebbe libero di portare la figlia a curarsi in Italia, ma potrebbe accompagnarla in Svizzera per l’eutanasia».
Eugenia Roccella (Getty Images)
Carlotta Vagnoli (Getty Images)