
Lanciato a New Orleans alla fine del Settecento, durante il fascismo fu ribattezzato con nomi bizzarri. Famosi il Bellini di Giuseppe Cipriani e il Bloody Mary di Hernest Hemingway, ma adesso tra i giovani il must è lo spritz.Non è più una tendenza, ma una moda consolidata: pasteggiare con un cocktail si può, fa figo, molti chef lo consigliano e non c'è barman che non lo caldeggi. Gli ortodossi dell'abbinamento cibo-vino urlano al sacrilegio. I sostenitori del tumbler, bicchierone per miscelare le bevande, plaudono: «In molti Paesi, Usa in testa, mangiare e bevendo un Negroni o un Bloody Mary o un Mojito, è normale». Saltano anche in Italia le categorie che volevano le bevande miscelate fuori dai pasti: long drink a qualsiasi ora, cocktail per l'aperitivo o dopo pasto.Paolo Monelli, Mario Soldati e Luigi Veronelli si rigirano nelle tombe. «Non è concepibile un pasto che non sia accompagnato dal vino», scriveva il primo in O.P. ossia il vero bevitore (1963). «Lo affermano i proverbi: pasto senza vino, corpo senza anima; pasto senza vino, si fa un mal mattino; pasto senza vino è come un ballo senza orchestra, commediante senza trucco, farmacista senza tisana, spada senza l'elsa, dilemma senza corna, critico senza veleno». Sull'importanza mistica del vino a tavola Veronelli filosofeggiava: «Le qualità di un vino completano il piacere di un cibo e lo spiritualizzano». Anthelme Brillat-Savarin, re dei gastronomi francesi, dettava il meteo: «Un pasto senza vino è come un giorno senza sole».Lo stesso Monelli, però, adorava i cocktail ai quali, nello stesso O.P. (Optimus Potor), dedicò parecchie pagine. Per il giornalista e scrittore preparare cocktail è un'arte difficile, per la quale ci vuole «il necessario impegno di mescolare i vari ingredienti con competenza, con raffinatezza, con il doveroso riguardo allo stomaco e al fegato degli ospiti». Monelli se la prendeva anche con i barman «noleggiati» che proponevano cocktail digestivi. «Non esistono», sentenziò: «Un buon cocktail deve stimolare appetito e mente, doverosa introduzione ai pasti della sera». Ma lì si devono fermare: «Trangugiare un numero eccessivo di queste misture può ottundere l'appetito e gravare eccessivamente il sangue con gli effetti dell'alcol e lasciando poco spazio alla degustazione e al godimento del vino».Aveva ragione lui o l'hanno coloro che accolgono con entusiasmo le nuove tendenze? «Il cocktail una volta era servito solo come aperitivo», dice Dimitri Mattiello, brillante chef di Altavilla Vicentina e consulente di locali italiani in India e Dubai: «Il primo cambiamento è avvenuto con l'aperitivo lungo, che allunga i tempi prima di sedersi in tavola. È sorta così, nell'immaginario del cliente, del barman e dello chef, l'idea di accostare razionalmente cocktail e piatti. Sono favorevole quando gli accostamenti sono ragionati: un carpaccio di tonno e tamarindo con un Gin tonic è fantastico. Come lo è un piatto di pata negra con il Bloody mary. O un petto di piccione con un Americano: rabarbaro, vermouth rosso, seltz. Sono abbinamenti studiati. Ma se uno pretende di abbinare una pastasciutta col Mojito o un risotto al tartufo con una Caipirinha mi rifiuto di servirlo».Molte le interpretazioni sul termine cocktail. C'è chi traduce alla lettera dall'inglese: cock, gallo, e tail, coda. Secondo questi fu un taverniere a chiamare così una bevanda miscelata di liquori di vari colori per festeggiare la vittoria del suo gallo, dotato di una coda variopinta, nella lotta con un altro gallo. Monelli non era d'accordo: «Fantasiosa l'interpretazione». Sosteneva che il cocktail fu inventato a New Orleans alla fine del Settecento da un profugo domenicano, che offriva agli amici una bevanda miscelata misurando gli ingredienti con il coquiter, il portauovo. E poiché coquiter si pronuncia coktié, ecco giustificato il passaggio linguistico.In qualsiasi caso, il cocktail nasce all'estero. L'autarchia linguistica mussoliniana cercò di ribattezzarlo in coccotello, ma si fece ridere dietro. Né ebbero più fortuna la polibibita dei futuristi o la bevanda arlecchina. Meglio puntare sul nome proprio. Il Bellini, ad esempio. Fu Giuseppe Cipriani, barman dell'Harry's Bar di Venezia, a crearlo nel 1948 e a battezzarlo con il nome del grande pittore, paragonando il colore del long drink, mix di prosecco e polpa e succo di pesca bianca veronese alla tunica di suo un santo. L'Americano fu creato in onore del pugile Primo Carnera, campione mondiale nel 1933 a New York, è composto di 3 centilitri di bitter Campari, 3 di vermouth rosso e una spruzzata di soda. Una variante dell'Americano è il Negroni, inventato dal conte fiorentino Camillo Negroni negli anni Venti del secolo scorso: 3 centilitri di bitter, 3 di vermouth rosso, 3 di gin e mezza fettina di arancia.Ma il cocktail più gettonato, soprattutto tra i giovani, è nato da pochi anni e riconosciuto nel 2011 dall'Iba, l'associazione internazionale dei barman: lo spritz. Così codificato: 6 centilitri di prosecco, 4 di Aperol e una spruzzata di seltz. Il cocktail veneto ha conquistato il mondo, come il prosecco. Lo spritz nasce nei bacari veneziani, proporzionando in parti uguali vino bianco, bitter e acqua frizzante.È italiano al 50 per cento, almeno nel nome, uno dei cocktail più famosi al mondo, il Vesper Martini dettato da James Bond in persona al barman di un casinò, in Casinò Royale: «Martini secco in un calice da champagne. Tre parti di Gordon, una di vodka, mezza di Kina Lillet, una scorza di limone lunga e sottile». E, mi raccomando, «shaken, not stirred», agitato, non mescolato. Mojito e Daiquiri vantano l'onore di essere i cocktail preferiti di Hernest Hemingway, nobel per la letteratura. «My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita», lasciò scritto Hemingway riferendosi ai due locali de L'Avana che frequentava per soddisfare la sua sete colta. Allo scrittore americano piaceva parecchio anche il Bloody mary, che un barman parigino, Bernard Azimont, creò per lui quando si lamentò di non poter bere alcolici perché il medico glieli aveva proibiti, ma soprattutto perché la moglie Mary gli controllava l'alito. Il barman gli preparò un bicchierone di succo di pomodoro e vodka: l'acido dell'ortaggio avrebbe nascosto l'odore dell'alcol. Funzionò. E la bevanda fu dedicata alla moglie di Hemingway col nome di Bloody Mary, Maria la sanguinaria. Compare perfino nei cartoni animati dei Simpson uno dei cocktail più ricchi di storia: il Manhattan. Fu creato nel 1870 al Manhattan Club di New York durante un banchetto per Samuel Jones Tilden, candidato, anni dopo, alla Casa Bianca. Il ricevimento fu organizzato da una giovinetta, Jenni Jerome, futura Lady Churchill e mamma di Winston. Marilyn Monroe gli diede ulteriore fama in A qualcuno piace caldo. In una scena del film giratocon Tony Curtis e Jack Lemmon, Marilyn improvvisa un party su un treno preparando un Manhattan miscelando in una bottiglia vermouth rosso, angostura e whisky.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
L’eurodeputata del Rassemblement National: «Il presidente non scioglie il Parlamento per non mostrare la sua debolezza ai partner europei. I sondaggi ci danno al 33%, invitiamo tutti i Repubblicani a unirsi a noi».
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)
- Individuata dagli Usa una base sotterranea finora ignota, con missili intercontinentali lanciabili in tempi ultra rapidi: un duro colpo alla deterrenza del resto del mondo. La «lezione» iraniana: puntare sui bunker.
- Il regime vuole entrare nella ristretta élite di Paesi con un sistema di sorveglianza orbitale. Obiettivo: spiare i nemici e migliorare la precisione delle proprie armi.
- Pyongyang dispone già di 30-50 testate nucleari operative e arriverà a quota 300 entro il 2035. Se fosse attaccata, per reazione potrebbe distruggere Seul all’istante.