2021-04-28
Claudio Del Monaco: «Papà era perfezionista e maniacale. Interpretò l’Otello per 427 volte»
Il figlio di Mario, leggendario tenore: «In tempi di guerra pedalava da Treviso a Padova per cantare. Durante la “Madama Butterfly" ci fu un bombardamento e fuggì col costume da soldato americano. Rischiò l'arresto». Questa è una storia di passioni e sentimenti, di acrimonie e veleni, ambientata fra palcoscenici e backstage della lirica, in cui viene naturale sovrapporre le vicende dei suoi protagonisti reali a quelle dei personaggi dei melodrammi del repertorio dell'opera. Questa è la storia di Claudio Del Monaco, nato a Villorba (Treviso) nel febbraio 1947, regista e maestro di canto, secondogenito di Mario Del Monaco, tra i più grandi tenori italiani di ogni tempo.Se, per evocare Giuseppe Verdi, la vita, nel bene e nel male, è perenne confronto con la forza del destino, a 74 anni di età, il figlio dell'artista che scalò l'olimpo della musica operistica fino a raggiungerne la vetta, continua a confrontarsi con la figura adorata ma inesorabilmente schiacciante del padre («si sa che essere figli di un uomo famoso è un'arma a doppio taglio» riflette), spirato a Mestre il 16 ottobre 1982, dopo un calvario durato 9 anni fatto di emodialisi a causa di un tumore. Ha fatto di tutto Claudio, per sfidare e fronteggiare il disegno del fato, in un andirivieni di affermazioni personali e tempeste passionali, come i ruoli di direttore artistico del Teatro nazionale di Belgrado e del Teatro di Novi Sad che conquistò e ricoprì tra il 1990 e il 2005, quando fu nominato consigliere del ministro della cultura serbo Nada Popović Perišić («Mai nessun altro straniero ha avuto questo incarico» ricorda. «In Serbia ancor oggi mi amano»). Per lui la sorte ha riservato anche cadute rovinose, vicissitudini legali e calunnie subite, congiure familiari e voltafaccia dal milieu della lirica. E persino discese negli inferi dell'abbandono e dell'emarginazione. Tuttavia non si è mai dato per vinto, rinascendo dalle ceneri quando tutto sembrava essere perduto, proprio come nelle tragedie del teatro dell'opera, giungendo, dopo aver superato un periodo che definire cupo è un eufemismo, a un rinvigorente riscatto personale nella sera dell'11 gennaio 2020, quando a Santa Lucia di Piave, frazione di San Donà (Venezia), ha avuto, dal sindaco Riccardo Smucky, l'incarico della regia del grande concerto lirico dedicato al padre, in occasione del 105° anniversario della nascita. Oggi vive a Miane (Treviso), un piccolo centro nelle colline del Prosecco, con la terza moglie, il soprano Daniela Werner, originaria di Ehingen (Germania). Già, Daniela. Non solo sturm und drang, impeto e passione c'è tra i due, ma anche un legame di quelli antichi così incardinati nelle opere liriche, «un amore così grande» verrebbe da dire, ricordando il successo mondiale del 1975 di Mario Del Monaco. Non è retorica, visto come sono andate le cose. Com'era suo padre?«Lui, in famiglia, era sempre Otello (di Giuseppe Verdi, nda). Interpretò il personaggio 427 volte, come nessuno fece nella storia del teatro lirico. Avrebbe inteso arrivare a 500, ma la malattia non glielo consentì. Mario, nella sua carriera, fece 2.400 recite. Non era egoista. Quando poteva, ci regalò anche belle automobili. Amava molto le auto, che comprava e vendeva come fossero caramelle. Ricordo per esempio una Ferrari «California» fatta per Luigi Innocenti. Ma in fondo di queste cose non gl'importava granché. Viveva solo per la sua voce».Quanto incise, nella costruzione di quella voce eccezionale, la natura e quanto l'esercizio?«Mario era l'unico in grado di guardarsi le corde vocali con uno specchietto. Solo Garcìa (Manuel Garcìa, baritono, 1805-1906, nda) l'aveva fatto. Fu visitato dai più grandi otorinolaringoiatri e foniatri del mondo. Il primario del Salpêtrière di Parigi voleva carpire il segreto di quella voce da tenore con inflessioni baritoneggianti. Dopo l'ispezione concluse che aveva corde vocali da baritono, quasi da basso, e un cavo orale da tenore. Ecco l'anomalia, legata anche al Dna trasmesso. Il colore della voce è determinato da diametro e spessore delle corde vocali. Gli aritenoidi, cioè i muscoli tensori delle corde vocali, si possono controllare con i vocalizzi, ma solo chi ha, e mi scuso del termine, 48 coglioni, attraverso una tecnica vocale ferrea, può riuscirci. Poi, per giungere a questi livelli, concorrono anche altri elementi».Ce ne parli.«Prima di tutto deve esserci un grande maestro. Per Mario esso è stato Arturo Melotti, a Pesaro. Ma, oltre le lezioni, è utile la pratica di due sport, il nuoto o la boxe. Mario, ovviamente, praticò il nuoto. In mare, faceva a braccia sette chilometri di andata e ritorno nel tratto di Adriatico tra Pesaro e Fano. Quando lo visitarono in Giappone, aveva una capacità polmonare di sei litri e mezzo, come Fausto Coppi. Divenne un perfezionista maniacale. A Pesaro lo chiamavano el fisèd, il fissato. Dato che in gioventù era indeciso se diventare pittore o cantante, intendeva raggiungere, con la voce, la perfezione dei pittori del rinascimento. Si definiva «un pittore che canta». C'è da dire però che, dietro un grande artista, dev'essere presente una grande donna…».Sua madre, Rina Filippini…«Si conobbero nel 1936 a un concorso di canto a Roma. Mario era depresso, sotto le armi dimagriva vistosamente, e lei mormorò: «Sei tutto occhi». Non avevano una lira. Si sposarono a Lancenigo (Treviso, nda). Pensi che mia madre possedeva solo un paio di scarpe nere e, per sposarsi, le dipinse di bianco. Durante la guerra partiva in bicicletta da Treviso per andare a cantare al Teatro Verdi di Padova e una volta, nel primo atto della Madama Butterfly, ci fu un bombardamento. Fuggirono tutti e lui, fermato con indosso la divisa da ufficiale americano del generale Pinckerton, sudò freddo quando pretesero di arrestarlo». Poi giunsero il trionfo e l'agiatezza.«Nel 1956 ci trasferimmo in Svizzera, a Losanna. Mario amava l'Italia, ma ne detestava il sistema, esattamente come me. Avevo 9 anni. Fui messo in collegio. Un collegio costosissimo, per carità, dove c'erano anche i figli di Charlie Chaplin e i nipoti di re Faysal d'Arabia. Imparai quattro lingue, la mia prima lingua è il francese. Ma per me fu un periodo triste. D'altra parte Mario doveva cantare in giro per il mondo e non saliva né su un aereo né sul palco se non era accompagnato da mia madre».A suo padre venne mai la curiosità di testare la sua voce?«Sì, a 22 anni, a Parigi, mi dette quattro lezioni di canto. Mi stava tirando fuori la voce. Seppi dal cuoco e autista Agostino che ne rimase colpito».Quindi, dopo la Svizzera, che accadde?«Prima ci trasferimmo in Ticino. Poi tornammo a Lancenigo, a Villa Luisa. Mario ci investì e la trasformò in una residenza sontuosa. 1.250 metri quadri di superficie e tre dépendance. Richiedeva, tuttavia, costi di manutenzione di 100 milioni di lire l'anno. Venne poi la malattia di Mario e nel 1982 rimanemmo orfani. La villa fu venduta, e anche la sua Roll-Royce. Con mia madre e mio fratello ci trasferimmo a Montecarlo. Mi sposai con una donna di Treviso, nacque Elisabetta, che amo immensamente. Andai a fare l'albergatore a Jesolo, lavorai al Fungo di Roma e poi gestii un albergo, l'Hotel de Berne a Parigi, nell'8° arrondissement, tre stelle Michelin per cinque anni».In seguito si sposò una seconda volta.«Sì, con una donna serba, una cantante, nel 1990. Ci trasferimmo a Belgrado. Dopo sei anni divorziammo. Iniziai a lavorare come direttore artistico in Serbia, subito dopo ci fu la guerra nell'ex-Jugoslavia, dove mio padre fu nominato da Tito maresciallo della bandiera. Divenni consigliere del ministro, donna di vasta cultura».Poi conobbe Daniela, sua attuale moglie.«Sì, accadde a Bologna, nel 2006. Lei voleva conoscere la tecnica diaframmatica di Mario. Fu imbrogliata da un maestro di canto, che le spillò 70.000 euro per nulla. Decise di venire in Italia. Dopo alcuni fatti di cui preferisco non parlare, m'invitò a Heingen presso la sua scuola di canto per fare un masterclass. Ci innamorammo. E ci sposammo a Belgrado, con rito ortodosso, il 31 dicembre 2007». Riuscì a farla esibire?«Sì, a Vienna, in cinque spettacoli, davanti a 80 ambasciatori Onu, poi all'ambasciata russa per commemorare mio padre. Piacque molto, fu un successo, il primo canale della tv austriaca la definì un grande talento italiano. È tutto documentato sulla stampa dell'epoca. Ma le nostre famiglie non volevano questo matrimonio, come successe anche a Mario. Iniziarono telefonate di maldicenza, calunnie, lettere anonime. Volevano distruggere il nostro matrimonio e screditare Daniela. Lei ne risentì moltissimo, perché un'artista è fragile. E l'ambiente della lirica è terribile, pieno di folli invidie».La conseguenza, come raccontò sua moglie, intervistata nel 2014 da Franca Leosini per Storie maledette, fu il precipizio del vostro rapporto negli abissi, l'isolamento e la deriva, la mancanza di mezzi. L'esasperazione della situazione portò al tragico fatto del 28 dicembre 2011, quando subì due coltellate al cuore da Daniela, psicologicamente distrutta, poi ottimamente riabilitata all'Opg di Castiglione delle Stiviere. Ma, passata la tempesta, tornaste insieme, inequivocabile indizio di amore.«Finii intubato all'ospedale. Mi salvarono la vita. Ma io pensavo a lei. La andavo a trovare quasi ogni giorno per starle accanto. I medici compresero che le volevo bene. È un fatto consegnato al passato che non dev'essere strumentalizzato. Io desidero il bene di Daniela e che possa esprimere il suo talento. I suoi pezzi forti sono l'Andrea Chénier di Giordano, La Gioconda di Ponchielli, Il crepuscolo degli dei e il Lohengrin di Wagner. Si doveva esibire in una grande rassegna nel 2020, ma l'epidemia ha bloccato tutto…».La risposerebbe?«Naturalmente. Non potrei pensare di vivere con un'altra donna all'infuori di lei».Quali parole di un'opera lirica desidera dedicarle?«Quelle del generale Pinckerton, nel primo atto della Madama Butterfly di Puccini: «Noi siamo gente avvezza alle piccole cose». Perché questa è la verità. Nelle piccole cose trovi quelle grandi».
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