2021-07-16
La schiaffo alla Cina che urta Coca-Cola & C.
Manifestazione pro-uiguri a Washington (Getty Images)
Contro lo sfruttamento degli Uiguri, il Senato Usa approva una stretta alle importazioni dallo Xinjiang, tranne per quei prodotti non frutto di lavoro forzato. Norma contro la quale, però, si erano battuti i colossi in prima fila per le battaglie «buone» come Blm.Due cadaveri nella mega villa dove fu ucciso Versace. I corpi trovati in una stanza di quello che ora è un hotel. Collegamento con la ricorrenza dei 24 anni dal delitto?Lo speciale contiene due articoli.Stretta di Washington contro Pechino. Il Senato degli Stati Uniti ha approvato l'altro ieri all'unanimità un disegno di legge che vieta l'importazione di prodotti dallo Xinjiang, a meno che non si dimostri che non siano stati realizzati attraverso pratiche di lavoro forzato: un lavoro forzato a cui, in questa regione, è sottoposta la minoranza uigura da parte del governo cinese. Il provvedimento - presentato congiuntamente dal senatore repubblicano Marco Rubio e dal suo collega dem Jeff Merkley - prescrive che le merci provenienti da questa regione potranno entrare solo previa certificazione del governo statunitense. Il disegno di legge dovrà adesso ottenere l'ok definitivo dalla Camera dei rappresentanti, dove si ritiene che possa ricevere un'ampia maggioranza. Nonostante le ripetute smentite da parte di Pechino, le Nazioni Unite hanno riferito che circa un milione di uiguri risultino in stato di detenzione in Cina. Sempre le Nazioni Unite hanno inoltre espresso preoccupazioni per quanto riguarda la questione del lavoro forzato. Il disegno di legge approvato in Senato costituisce quindi un deciso schiaffo alla Repubblica popolare. E va ad aggiungersi alle strette già attuate dall'amministrazione Biden: si pensi solo alla blacklist, stilata a giugno, di 59 aziende cinesi, accusate di usare «tecnologia di sorveglianza cinese per facilitare la repressione o gravi violazioni dei diritti umani». È bene ricordare, a questo proposito, che - come riportato da Reuters a marzo - la Repubblica popolare faccia ricorso (soprattutto nello Xinjiang) a società tecnologiche per una sorveglianza di massa, basata sul tracciamento etnico. Le tensioni tra Washington e Pechino sono quindi destinate ad acuirsi. La partita è del resto delicata, perché chiama in causa lo spinoso fattore delle catene di approvvigionamento (visto che lo Xinjiang è un notevole produttore, tra le altre cose, di cotone, silicio e zucchero). Un fronte su cui il Dragone è pronto a dare battaglia, con il Global Times (organo di informazione del Partito comunista cinese) che ha recentemente ventilato misure ritorsive sul piano delle supply chain. Tuttavia, al di là dello scontro politico ed economico che viene profilandosi tra i due giganti, un ulteriore elemento interessante da rilevare risiede nella condotta di alcuni colossi industriali americani. Vale a tal proposito la pena ricordare che un provvedimento simile a quello votato dal Senato statunitense mercoledì fosse già stato approvato, a settembre, dalla Camera: un provvedimento - anch'esso volto ad arginare il lavoro forzato nello Xinjiang intervenendo sulle importazioni - che non riuscì tuttavia ad ottenere l'ok del Senato entro la fine della scorsa legislatura. Ebbene, come rivelato a novembre dal New York Times, svariati colossi industriali statunitensi avevano condotto un'intensa attività di lobbying per indebolire quel disegno di legge. In particolare, le tre aziende principali citate dal quotidiano furono Apple, Nike e Coca-Cola. In primis, a marzo 2020, l'Australian strategic policy institute «ha identificato Apple e Nike tra le 82 aziende che hanno potenzialmente beneficiato, direttamente o indirettamente, di programmi abusivi di trasferimento di manodopera legati allo Xinjiang». In secondo luogo - stando a un report della Congressional-Executive Commission on China datato marzo 2020 - Coca-Cola compare tra le «aziende sospettate di impiegare direttamente lavoro forzato o di approvvigionarsi da fornitori sospettati di ricorrere al lavoro forzato». È pur vero che le tre società abbiano smentito la presenza di lavoro forzato nelle proprie catene di approvvigionamento. Però intanto, a livello lobbistico, hanno spinto per evitare che Washington adottasse una linea troppo dura sullo Xinjiang. La stranezza, in tutto ciò, è che queste aziende sono notoriamente impegnate in battaglie per i diritti civili in Occidente. Nike ed Apple sostengono il movimento Black lives matter, mentre Coca-Cola ha criticato la riforma elettorale di recente approvata dal parlamento della Georgia (che mette dei paletti a tutela della correttezza del voto) ed è stata inoltre, in Italia, sponsor del gay pride a Milano, Napoli e Padova. Insomma, stride un po' che queste aziende - così solerti nella difesa delle cause progressiste in Europa e Stati Uniti - facciano poi attività di lobbying per edulcorare provvedimenti in difesa di una minoranza sfruttata dal Partito comunista cinese. Ad essere malfidati, verrebbe quindi da credere che le battaglia politiche sostenute da questi colossi siano dettate più da interessi che da principi morali. Un paradosso che riguarda di conseguenza anche gli influencer politicamente impegnati, legati a tali società. Fedez, per esempio, ha avviato di recente una collaborazione con Coca-Cola per una campagna pubblicitaria, sulla scia della sua ultima canzone (che cita esplicitamente il prodotto). Ci chiediamo quindi sommessamente se, tra una filippica social sul ddl Zan e una sul conflitto israeliano-palestinese, il Masaniello di Instagram riuscirà a trovare anche il tempo per occuparsi degli uiguri. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cina-usa-uiguri-2653798854.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-24-anni-dallomicidio-di-versace-due-cadaveri-nella-stessa-mega-villa" data-post-id="2653798854" data-published-at="1626431026" data-use-pagination="False"> A 24 anni dall’omicidio di Versace due cadaveri nella stessa mega villa Un eterno ritorno dell'uguale. A Miami, nella stessa villa dove - il 15 luglio 1997 - è stato ammazzato Gianni Versace, ieri due cadaveri sono stati trovati da altrettanti addetti alle pulizie. Chi siano, come siano morti, se abbiano qualcosa a che vedere con lo stilista o la moda, nessuna lo ha detto. La polizia di Miami Beach si è limitata a riferire di aver ricevuto una telefonata dalla struttura, nelle cui stanze un tempo ha abitato lo stilista. Lo staff della magione, oggi trasformata in un boutique hotel con vista sul mare della Florida, ha dato l'allarme appena dopo aver trovato i corpi. Allora, le forze dell'ordine hanno aperto un'indagine, sulla quale, però, si è deciso di mantenere il massimo riserbo. Le autorità, per quanto incalzate, non hanno lasciato trapelare alcun dettaglio. I corpi sarebbero stati trovati all'interno della stessa stanza, una delle dieci a disposizione di quella che ora si chiama The Villa Casa Casuarina. Ma niente di più è stato detto. Se si tratti di un uomo o di una donna, se siano americani noti alle cronache - come spesso accade con gli ospiti dell'hotel - o stranieri in visita, è rimasto un mistero, la cui profondità, però, non è bastata a cancellare le speculazioni. I cadaveri sono stati ritrovati mercoledì, poche ore prima del giorno che ha marcato il ventiquattresimo anniversario dalla morte di Versace. Lo stilista, colui che su tutti ha saputo sfruttare le potenzialità del fenomeno top model, è stato freddato sui gradini di quella stessa villa, da un uomo che nessuno ha potuto interrogare. Andrew Cunanan, tossicodipendente e prostituto omosessuale, ha sparato due colpi. Poi, otto giorni più tardi, prima che la polizia potesse arrestarlo, si è tolto la vita. Cunanan è stato ritrovato senza vita, all'interno di una casa galleggiante. Qualcuno, allora, ha ipotizzato non si fosse ammazzato, ma fosse stato ucciso e trasportato poi in un luogo anonimo. Ma nessuno, all'epoca, ha potuto verificare questa teoria. Il corpo del ventottenne è stato cremato. Nessuna autopsia è stata fatta e la pratica è stata archiviata. La storia dell'assassinio sarebbe stata raccontata solo anni più tardi, nel 2018, all'interno di una serie televisiva - Ameircan Crime Story: The Assassination of Gianni Versace - mai approvata dalla famiglia dello stilista. «La famiglia Versace non ha autorizzato né ha avuto alcun coinvolgimento nella serie televisiva dedicata alla morte di Gianni Versace. Dato che Versace non ha autorizzato il libro da cui è parzialmente tratta, e non ha preso parte alla stesura della sceneggiatura, questa serie televisiva deve essere considerata un'opera di finzione», ha fatto sapere la famiglia dello stilista, oggi tornato al centro di gossip e indiscrezioni. Benché la polizia non abbia rilasciato alcun commento sulle teorie in essere, parte dei media internazionali hanno azzardato che i corpi ritrovati all'interno della Villa possano essere collegati in qualche modo all'anniversario della morte dello stilista.