
Le turbolenze in corso causate dai dazi non devono far dimenticare che il vero conflitto è tra regimi e democrazie. Che possono frenare la Repubblica popolare solo se uniteLa turbolenza in corso tra America a conduzione Trump e gli alleati del G7 non deve far dimenticare che il vero conflitto globale è tra regimi autoritari guidati dalla Cina e democrazie guidate dagli Stati Uniti. Inoltre, il calcolo dei fattori di potenza (aggiornato recentemente dal mio gruppo di ricerca) mostra che senza alleati del G7 e nazioni compatibili l’America ha problemi di scala nel fronteggiare Pechino. Tale considerazione dovrebbe aprire una riflessione comune tra democrazie. Qui la tratteggio.Ai lettori che non fanno di mestiere analisi geopolitiche e di geopolitica economica mi permetto di ricordare che la svolta liberalizzante di Deng Xiaoping dal 1978 in poi ebbe lo scopo combinato di difendere il dominio del Partito comunista e avviare una nuova Lunga marcia per rendere la Cina più ricca dell’America, dominare il Pacifico e da questa posizione ottenere lo status di prima potenza mondiale. Tale progetto fu innescato dal rapporto riservato - intercettato dall’intelligence cinese - di Jurij Andropov nel 1977, quando era a capo del Kgb sovietico, che chiariva come e perché la Russia avrebbe dovuto cambiare modello economico se voleva evitare l’implosione e la perdita dello status di potenza mondiale. Per Mosca fu difficile avviare tale cambiamento, ma per Pechino fu più facile perché la rivoluzione culturale (maoista,) degli anni precedenti aveva eliminato gran parte della burocrazia del Partito comunista tradizionale, lasciando spazio a nuovi soggetti più modernizzanti (analisi di Edward Luttwak). E ciò permise al Partito comunista di formalizzare in un suo congresso negli anni 90 la seguente missione politica: ottenere con il liberismo economico gli obiettivi del socialismo, ma senza libertà politiche. Tale impulso portò la Cina a uno sviluppo rapidissimo. Amplificato da un enorme errore - forse incentivato - da parte dell’amministrazione Clinton nel 1995-1996: diede accesso privilegiato al mercato statunitense ai prodotti cinesi senza chiedere condizioni di buon comportamento. Ma anche sul lato repubblicano fu fatto un errore quando nel 2001 l’America sostenne l’inclusione della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) anche per spinta di alcuni europei, con poche condizioni pur definendo un controllo dopo 15 anni. Ricordo un incontro occasionale con Henry Kissinger nei primi anni del 2000 dove espressi stupore per un’America che finanziava la creazione rapida di un impero cinese che l’avrebbe sostituita, ricordando uno scenario prodotto dall’Ufficio scenari del Pentagono nel 1994 quando lo visitai per una missione della Difesa italiana: la Cina avrebbe pareggiato il suo potere militare con l’America nel 2024. Kissinger rispose con un sorriso amaro: non possiamo bombardare il nostro business. Ormai era fatta. Fino al 2012 i colleghi americani dell’ambiente finanziario ebbero argomenti di business per respingere i miei allarmi. Ma nel 2012 Xi Jinping prese il potere con un programma di restaurazione - aggiornato, ma più aggressivo - del progetto maoista. Ma fu necessario arrivare fino al 2017 per una postura di opposizione forte statunitense all’espansione del potere cinese attraverso un voto bipartisan nel Congresso spinto da Donald Trump che dichiarò nemica la Cina. Per i seguenti motivi: furto totale di nuove tecnologie civili e perfino militari; accordi con le nazioni in via di sviluppo, in particolare dal 2007 su una basa avviata nel 1955, dove Pechino dava soldi ai regimi autoritari in cambio del loro voto all’Onu e dell’importazione di sistemi cinesi civili e bellici; espansione militare nel Pacifico e influenza crescente con mezzi opachi in Europa. Ma Trump non riuscì nell’intento. E nel dicembre 2020 Parigi e Berlino - Macron e Merkel - firmarono un accordo di investimenti reciproci con Pechino, ma fortunatamente mai applicato perché non sostenuto dall’Ue né dall’America a conduzione Biden. Ora l’Amministrazione Trump 2 ha deciso che i metodi morbidi con la Cina a conduzione Xi non funzionano e ha deciso di passare a quelli di deterrenza forte via minaccia di guerra economica totale.Non possiamo escludere una telefonata di Xi, ma va annotato che la Cina sta dando segnali chiari di risposta simmetrica all’America, di relazione tra potenze alla pari: Pechino, pur preoccupata, è convinta di farcela: infatti mantiene l’obiettivo di diventare prima potenza mondiale entro il 2049. Nelle ultime settimane ha lanciato un’offensiva diplomatica intensa nelle nazioni vicine - ottenendo un (pericoloso) accordo preliminare economico con Corea del Sud e Giappone - e verso l’Ue nonché offrendo vantaggi enormi alla Russia affinché non ceda alla convergenza con l’America. Inoltre difende e arma segretamente l’Iran. Semplificando, l’azione condizionante di Trump verso Cina, Russia e Iran è a rischio per potenza insufficiente e per convergenza traballante entro il G7. Per rendere più forte ed efficace tale azione l’America avrebbe bisogno di un moltiplicatore di forza data da una maggiore compattezza del G7. La convergenza a tale livello richiede un atteggiamento degli europei meglio disposto a bilanciare i flussi commerciali con l’America. E una postura dell’America meno punitiva dell’export europeo e nipponico nonché meno aggressiva nei confronti del Canada, comunque difeso da Londra. In conclusione, prego Giorgia Meloni di collegare la convergenza del G7 con la priorità statunitense di condizionare la Cina e staccare la Russia da essa. L’obiettivo di creare un mercato integrato del G7 senza dazi che riduca gradualmente il deficit commerciale americano e renda superiore l’alleanza delle democrazie nei confronti dei regimi autoritari è certamente un obiettivo di reciproca utilità. Missione: dal contenimento al condizionamento. www.carlopelanda.com
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Giusi Bartolozzi (Ana)
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